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Una sintesi dell’Appello dei Socialisti del NO alla Sinistra che sbaglia (votando Sì)

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La contro-riforma di Renzi-Boschi: “Torniamo allo Statuto”?

Lo Stato unitario ha avuto due Carte costituzionali: dal 1861 al 1946 lo Statuto Albertino e dal 1947 al 2016 la Costituzione repubblicana.

Lo Statuto Albertino nasce per concessione del Sovrano ed è una costituzione flessibile (flessibile perché può essere modificata con legge ordinaria).

La semplificazione del processo di revisione costituzionale apre la strada a modifiche costituzionali (sia nella parte relativa ai principi fondamentali  sia in quella che disegna l’ordinamento istituzionale) da parte di maggioranze parlamentari senza maggioranza elettorale.

Con la flessibilità è possibile cambiare la forma di Stato democratico in regime autoritario senza il  consenso della maggioranza degli elettori. Con lo Statuto Albertino morì lo Stato liberal-democratico e si impose il fascismo.

 

La Carta repubblicana è una Costituzione rigida.

E’ rigida perché è modificabile attraverso un lungo processo democratico, diretto e indiretto, posto a garanzia dei diritti politici, civili e sociali della comunità).

La rigidità rende difficile la reversibilità delle scelte democratiche.

La contro-riforma di Renzi-Boschi accelera e rende irreversibile l’effetto disastroso della erosione del principio di rigidità costituzionale (principio presente in tutte le costituzioni degli Stati moderni), perché si rifiuta di  affrontare, anzi esaspera, il  tema delle conseguenze prodotte dalle leggi elettorali maggioritarie su le garanzie di revisione costituzionale, e perché subisce passivamente le devastanti invasioni di campo  del vincolo estero nel tessuto unitario della Carta costituzionale tra prima e seconda parte.

Inoltre, la contro-riforma di Renzi-Boschi si muove nel solco insidioso del populismo di Stato: il disprezzo per i partiti,  l’alto costo della politica, la superiorità dell’invisibilità del potere di fronte ai “tempi lunghi” –così spregiativamente definiti- della partecipazione democratica.

 

La proposta riformatrice: un governo di scopo

Dopo la vittoria del NO si dovrà convocare una Assemblea Costituente che deve affrontare i temi cruciali del nostro tempo.

1-Cessione di sovranità nazionali in un nuovo federalismo europeo dei popoli, senza distruggere storia, cultura e religioni.

2-Difesa dei principi fondamentali della nostra Costituzione senza confliggere con i doveri di solidarietà sovranazionali.

3-Riequilibrare  gli strumenti di democrazia diretta con quelli della rappresentanza.

Durante il periodo compreso tra la vittoria del NO e sino all’entrata in vigore della vera riforma costituzionale, il Parlamento potrà rivedere i suoi regolamenti per una semplificazione del processo legislativo e dovrà al più presto varare una legge ordinaria che disponga il referendum consultivo di indirizzo per il governo su tutte le disposizioni comunitarie europee che incidono sui principi costituzionali scritti nella prima parte della Carta Costituzionale.

No alla controcarta costituzionale: appello dei socialisti del NO alla Sinistra che sbaglia, di Rino Formica

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Cari Compagni,

le Costituzioni nascono con le guerre o con le rivoluzioni quando collassa il potere costituito ed un nuovo potere costituente scrive le regole di un ordine politico e sociale diverso. Lo Stato Unitario italiano ha avuto due costituzioni : lo Statuto Albertino e la Costituzione repubblicana. Lo Statuto Albertino fu concesso da Carlo Alberto Savoia il 4 marzo 1848 per il regno di Sardegna e fu esteso al regno d’Italia nel 1861. Lo Statuto nacque perché il “sovrano” aveva paura dei moti popolari che in quegli anni divampavano in Europa ed in Italia. Lo Statuto diventò la Costituzione dello Stato Unitario italiano senza un voto popolare. Lo Statuto Albertino disegnò un regime “monarchico –rappresentativo” ed ebbe la struttura di una Costituzione “flessibile” (flessibile perché modificabile con semplici leggi ordinarie). Fu questa “flessibilità” che permise alla monarchia ed al fascismo di combinare legge elettorale maggioritaria e leggi speciali per disciplinare i contratti collettivi di lavoro, le modifiche dei codici, la costituzionalizzazione del Gran Consiglio del fascismo, l’abolizione del Parlamento, e di trasformare un sistema parlamentare in un regime autoritario a partito unico.

Dallo Statuto alla Costituzione

La Costituzione repubblicana non è figlia di una “concessione” del “sovrano” ma è l’epilogo di una guerra persa e di una rivoluzione civile che divisero il Paese e che si conclusero con il referendum istituzionale e l’elezione dell’Assemblea Costituente. La Repubblica italiana ha un doppio atto di nascita. Vede la luce con il voto popolare referendario netto e semplice: (SI o NO), mentre la definizione dei valori (i fondamentali) ed il suo ordinamento (il bilanciamento dei poteri) è stata opera della mediazione politica dei partiti. Se la Repubblica nasce il 2 giugno 1946 con il voto popolare del referendum istituzionale, la Carta Costituzionale ha il suo voto definitivo il 22 dicembre 1947. 19 mesi sembrano pochi, ma quei 19 mesi segnarono un periodo di straordinari eventi internazionali dovuti alla rottura tra i Paesi alleati vincitori della guerra. Questi eventi aprirono una fase di lacerazioni politiche nei partiti e tra i partiti del Comitato di Liberazione nazionale. La Carta Costituzionale non fu un miracolo caduto dal cielo, fu l’opera di una grande classe dirigente politica uscita dalle sofferenze con onore e forza morale così grandi da poter ottenere un sostegno fiduciario di popolo, illimitato e convinto. Dopo la prima guerra mondiale si affermò la teoria della “non ingerenza” negli assetti politici nazionali ed avemmo il fascismo, il nazismo. Nel ’46-’47 la rottura dell’ alleanza tra USA, Russia e Gran Bretagna, provocò la formazione di due grandi campi d’influenza: il mondo libero ed il socialismo reale che si fronteggiarono con una guerra fredda che sfiorò la guerra calda.

La lezione francese

In Italia i tre grandi partiti di massa (DC, PSI e PCI) capirono la lezione francese del ’45-’46, quando il Partito Socialista francese ed il Partito Comunista francese ruppero con l’MRP (la DC francese) nell’approvazione della Carta Costituzionale. La Costituzione approvata dalla maggioranza di sinistra fu bocciata dal referendum popolare e si dovette dare vita ad una nuova Costituente che il ’46 varò una nuova Costituzione con il voto della sinistra e dei cattolici. Questa doppia Costituente fu la debolezza di sistema che aprì la strada alla Costituzione gollista degli anni ’50.

Nasce il caso italiano

I tre partiti italiani che insieme totalizzavano 436 eletti su 556 scelsero la strada della legalità Costituzionale per la edificazione dello Stato repubblicano. I Costituenti optarono per la forma dello Stato parlamentare e stabilirono che la Carta Costituzionale dovesse essere scritta in modo chiaro e semplice “ tale che tutto il popolo la potesse comprendere”, e che negli articoli della Carta vi fossero “le disposizioni concrete di carattere normative, istituzionali, economiche e sociali”. Queste direttive, (o.d.g. Bozzi) approvate dall’Assemblea, costituirono la vera novità che lega indissolubilmente la prima parte della Costituzione (i principi fondamentali) alla seconda parte (l’ordinamento istituzionale). La nostra Costituzione prevede una forma di Stato ed indica un modello di società fondata su la libertà, l’uguaglianza ed il controllo delle dinamiche economiche che devono essere funzionali alle esigenze sociali.

Le “due parti” della Costituzione

La prima parte della Costituzione non solo elenca i principi da rispettare ma indica anche gli obblighi programmatici da attuare. La seconda parte individua gli organi per bilanciare i poteri e descrive i rigidi processi di garanzia e di revisione costituzionale. In sostanza la prima parte indica il legame tra i sacri principi ed il programma di governo per il lungo periodo necessari a realizzare un nuovo ordine politico e sociale. La seconda parte è funzionale alla prima perché deve garantire che i principi si affermino ed i programmi si realizzino. Elementi essenziali perché l’armonia regga tra la prima e la seconda parte sono: 1-la rigidità dei processi di revisione costituzionale; 2-la assoluta indipendenza dai movimenti politici della magistratura ordinaria e di quella Costituzionale; 3-l’integrazione tra democrazia diretta (referendum) e democrazia indiretta (rappresentanza). Su questi tre punti l’incontro tra le culture politiche della sinistra di classe e quella cattolica democratica, fu sufficiente e seppe reggere all’urto con il moderatismo dichiarato della destra e quello sommerso interno alla DC. Nella prima parte della Costituzione, i Costituenti assegnarono all’Italia un ruolo dinamico con previsione di cessione di sovranità in condizione di reciprocità al fine di raggiungere nel campo internazionale traguardi di pace e di giustizia. Sempre nella prima parte i Costituenti rifiutarono l’ipotesi di uno Stato federale e scelsero la forma di Stato unitario fondato su un forte rispetto delle autonomie locali. Infine, i Costituenti posero a sostegno del principio fondamentale della centralità del lavoro un programma vincolante di politica economica dirigista. Nella Costituzione non sono mai citati il mercato, la concorrenza, ed il profitto. Insomma, la prima parte è costruita su la ricerca di una terza via (è questa, forse, la vera anomalia italiana).

Il sistema delle garanzie

Nella seconda parte della Costituzione che tratta dell’ordinamento repubblicano, i costituenti fissarono le regole per il bilanciamento dei poteri e per la forma di garanzie Costituzionali. Garanti Costituzionali sono: il Parlamento, la Magistratura, la Corte Costituzionale. I vincoli per un corretto funzionamento dei garanti sono: una legge elettorale proporzionale (o.d.g. Giolitti) ed i quorum per l’elezione del Presidente della Repubblica, della Corte Costituzionale, del C.S.M., per le leggi costituzionali e per i Regolamenti della Camera. I nostri Costituenti furono chiamati a scrivere una Costituzione che doveva chiudere una frattura storica. Con la Repubblica entrano nello Stato Unitario, prima liberale e poi autoritario fascista, le masse popolari ed i nuovi ceti sociali che erano stati esclusi nel primo risorgimento. Le divisioni, le riflessioni e le critiche alla nostra Carta cominciarono quando la Costituente era ancora in vita. Le prime riflessioni e le prime modifiche le troviamo già nel passaggio del “progetto” dei “75” al voto in Assemblea plenaria che inizia a marzo del 1947 e cessa a dicembre dello stesso anno. I cambiamenti più significativi sono i seguenti: 1-abolizione dell’art.50 del progetto (diritto alla ribellione contro il potere pubblico che viola la Costituzione). 2-art.70 del progetto modificato (viene introdotto nel processo legislativo la navetta senza fine tra Camera e Senato, nonostante –durante un dibattito assembleare di alto profilo costituzionale- fossero stati proposti e discussi modelli in grado di superare diversità, conflitti, rivalità tra le due Camere; modelli in uso e di sperimentata efficacia in altre realtà di antica democrazia parlamentare. 3-art. 72 del progetto. E’ eliminato l’intervento popolare nel processo legislativo. 4-art.97 del progetto. Viene rovesciata la maggioranza prevista per la elezione del CSM (dalla maggioranza laica si passa alla maggioranza dei togati). 5- art.127 del progetto. La nomina dei giudici costituzionali riduce il potere del Parlamento nella designazione, si passa dal 100% ad un terzo. 6- art.128 del progetto. Il ricorso alla Corte Costituzionale è drasticamente ridotto. Resta solo l’ipotesi del ricorso incidentale in giudizio. 7-art.130 del progetto. Il Governo è escluso dall’iniziativa di revisione costituzionale.

La Costituzione senza popolo

L’approvazione definitiva della Costituzione avvenne il 22 dicembre del 1947 ed entrò in vigore il 1 gennaio del 1948. Non vi furono manifestazioni popolari, ma solo cerimonie burocratiche: i Prefetti consegnarono una copia della Costituzione in “Gazzetta Ufficiale” a tutti i Sindaci. Era cambiato il clima internazionale ed il clima interno. Piero Calamandrei aveva già nel 1947 avvertiti i Costituenti: “La Carta Costituzionale è una Costituzione tripartitica, di compromesso, molto aderente alle contingenze politiche dell’oggi e del prossimo domani: e quindi poco lungimirante”. Tra il ’48 ed il ’53 la Costituzione fu congelata e solo alla fine della 1° legislatura fu varata la legge attuativa della Carta Costituzionale. Già da allora importanti settori della DC e del fronte conservatore erano al lavoro per “avere le mani libere per cambiare la Costituzione” (come ha rivelato recentemente il compagno Macaluso in una recente intervista a “Sette”, raccontando di un incontro riservato tra Scoccimarro e Andreotti al fine di far desistere il presidente De Gasperi dal mantenere un alto premio di maggioranza nella “legge truffa” del 1953). Con il centro-sinistra Moro-Nenni e con i moti giovanili riformisti e sindacali degli anni ’60 esplode un movimento di massa per la trasformazione della società italiana secondo il dettato Costituzionale. Il terrorismo, le forti violenze della reazione moderata e l’ostilità della sinistra di opposizione alla sinistra di governo, riaprirono il tema del ritardo dell’evoluzione Costituzionale. Amato scrisse su Mondo Operaio nel 1976: “Lo Stato che abbiamo non è né quello scritto nella Costituzione, né quello che preesisteva storicamente al modello ivi tracciato. E’ il risultato di una ibridazione complessa, in cui sono confluite almeno tre componenti: lo Stato anteriore, le innovazioni introdotte in esso dalla DC sulla base di modelli estranei alla Costituzione (anche se formalmente non contrastanti con essa), il processo di attuazione Costituzionale, che è però intervenuto a strati e per ondate successive, innestandosi sulle altre due componenti”.

L’illusione della Grande riforma

I socialisti restano soli nel sostenere la Grande Riforma per un diverso rapporto tra Governo e Parlamento ed un più ampio uso dello strumento referendario. Gli anni ’80 sono gli anni dell’esplosione di una modernizzazione che vuole congelare la prima parte della Costituzione e, con il vincolo estero, ridurre la forza rappresentativa del Parlamento e con leggi elettorali maggioritarie, modificare le garanzie costituzionali. Nel giugno del ’91 il Presidente Cossiga compie l’ultimo gesto del suo settennato: invia un messaggio alla Camera per la riforma Costituzionale. La risposta è “La Costituzione non si tocca” ( ma, intanto, incominciava a venire corrosa con il vincolo estero e le leggi elettorali maggioritarie). Questi sono gli strumenti che sono stati utilizzati negli anni ’90 e che hanno aperto la strada al caos costituzionale attuale.

L’Italia e il “mondo furioso” della globalizzazione

La fine della guerra fredda, la caduta dei blocchi ideologici, la globalizzazione della finanza spregiudicata e dell’economia asociale e l’idolatria del “mercato” generano il riemergere dei fondamentalismi religiosi violenti, di populismi distruttivi e di pragmatismi senza armonia dei governi nazionali. L’Italia è immersa in questa crisi mondiale con due problemi in più: il superamento dei partiti garanti della Costituzione e la liquidazione di una forte e vasta economia pubblica. La questione morale, che preesisteva e che continuerà a esistere ( il presente è più grave del passato), viene utilizzato per giustificare i nuovi conflitti fuori controllo: una sinistra di opposizione contro la sinistra di governo, la sinistra cattolica contro il centrismo tradizionale, la destra contro il loro passato, il capitalismo assistito contro il capitalismo competitivo, il lavoro garantito contro il precariato. In questo scenario anche il tema della riforma costituzionale richiede una soluzione diversa da quella avanzata dai riformisti socialisti e cattolici degli anni ’70 e ’80. Non si tratta di rendere efficiente l’ordinamento dello Stato Unitario fondato sul lavoro e presidiato dalla sovranità popolare, ma di verificare l’esistenza di una maturazione attuale, sociale e politica per dare corpo ad una nuova Costituzione che garantisca l’autonomia politica dello Stato in un processo controllato di erosione di sovranità e di integrazione in un sistema sociale diverso ma non contradditorio con la parte prima della nostra Carta. Si preferì la strada delle leggi maggioritarie elettorali e della supina acquiescenza al vincolo estero. Le leggi elettorali furono concepite per rendere stabili i governi, così precari in un perverso gioco di scomposizione e ricomposizione dei partiti politici. Fu una illusione: non vi furono governi stabili, mentre si gettavano le basi per un cambiamento indolore della struttura costituzionale italiana: si passava dalla Costituzione rigida alla Costituzione flessibile ( come fu lo Statuto Albertino).

Il tentativo Scalfaro-Finocchiaro: “mettere in sicurezza” la Carta.

Nel 2008, se ne accorse anche il Presidente emerito della Repubblica O.L.Scalfaro, che, insieme con la Sen. Finocchiaro ed altri, presentò un disegno di legge Costituzionale al Senato per la modifica dei quorum di garanzia. Nella relazione alla legge fu detto: “ Nell’ultimo quindicennio (la Costituzione) si è indebolita, pertanto, non l’adesione della comunità italiana alla Carta fondamentale, ma la garanzia della sua rigidità: in altre parole, è diventato troppo facile cambiare le norme costituzionali da quando è stato abbandonato il sistema elettorale che aveva retto la nostra vita politica durante quarantasette anni e da quando si è attenuata nelle forze politiche la convinzione che in ogni caso alle riforme costituzionali si dovesse procedere solo sulla base di larghe convergenze. Le nuove leggi per l’elezione della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica, sia quelle a prevalenza maggioritaria approvate dopo il referendum del 1993 sia quelle proporzionali con premio di maggioranza adottate nel 2005, consentono a maggioranze relative di elettori di diventare maggioranze assolute dei deputati e dei senatori; pertanto la quota di voti parlamentari necessari per l’approvazione in seconda deliberazione di riforme costituzionali (metà più uno degli eletti) è, per così dire, “a portata di mano” e costituisce di per sé una forte tentazione a cambiare le regole e i principi della Costituzione secondo le opinioni o, peggio, le convenienze dei vincitori nell’ultima competizione elettorale. (…) Come è noto, il carattere rigido della Carta Costituzionale rappresenta, insieme all’indipendenza degli organi di garanzia (Presidente della Repubblica e Corte costituzionale), il presidio più robusto per evitare che la Costituzione diventi uno strumento della politica della coalizione vincitrice nelle elezioni politiche. In quasi tutte le grandi democrazie si è ritenuto e si ritiene che le leggi di revisione costituzionale debbano essere il prodotto di larghe intese fra maggioranza e opposizione. E’ una conseguenza coerente dell’esigenza di stabilità, del ruolo di garanzia dei diritti e delle libertà di tutti ( e dunque, anche delle minoranze) che è proprio delle Costituzioni democratiche. Un Paese non può vivere e crescere se le regole fondamentali della convivenza comune durano una sola legislatura e mutano a ogni cambio di maggioranza. L’erosione della stabilità costituzionale, registrata in Italia negli ultimi anni, rappresenta uno degli elementi del clima generale di insicurezza e di smarrimento che prevale nel Paese e uno dei fattori della sua crisi. Recuperare il valore della stabilità costituzionale (della certezza delle regole, delle libertà e dei diritti) e ristabilire il principio della supremazia e della rigidità della Costituzione appare oggi un’esigenza nazionale, uno dei pochi grandi obiettivi che dovrebbero essere condivisi da tutti, indipendentemente dalle collocazioni politiche”.

Il vincolo estero

All’inizio degli anni ’90 il vincolo estero fu utilizzato dalle elitès per smontare il sistema pubblico dell’economia. L’intuizione fu disastrosa, perché non si fece pulizia delle incrostazioni parassitarie del sistema pubblico (banche, industria e servizi) ma si distrusse uno straordinario strumento di difesa della vita nazionale in situazioni di crisi. Basta citare un recente scritto del giurista Prof. Guarino: “Le direzioni di marcia dell’Unione e degli Stati membri sono segnate. Nel settore che nelle condizioni attuali di sviluppo condiziona tutti gli altri, e che è da considerarsi quindi assolutamente prioritario, quello della economia, i ad essi assegnati. Gli istituti democratici contemplati dagli ordinamenti costituzionali di ciascun Paese non servono più. Nessuna influenza possono esercitare i partiti politici. Scioperi e serrate non producono effetti. Le manifestazioni violente provocano danni ulteriori, non scalfiscono gli indirizzi prestabiliti.. Non si può abbattere il proprio governo se un governo, nelle materie economiche fondamentali, non esiste. Parole e gesti cadono nel vuoto”.

La riforma del governo Renzi

Questa riforma è inutile, dannosa e fuorviante. Speriamo che sia il frutto di una giovanile inesperienza politica . Sarebbe grave se fosse una coda del “tintinnio” di sciabola e del piano rinascita. E’ inutile perché la realtà di oggi ( surriscaldamento del pianeta, migrazione e crollo demografico, terrorismo e guerre locali senza fine) richiedono maggiore partecipazione diretta, più fatica nell’organizzare il consenso e minore esibizionismo risolutivo. La semplificazione del processo legislativo, la eliminazione del parlamentarismo e le garanzie per l’opposizione, non hanno bisogno di modifiche costituzionali; è sufficiente intervenire sul Regolamento della Camera. La Camera dei Deputati ha il Regolamento consociativo del 1971 redatto da Andreotti e Ingrao (Capigruppo DC e PCI). E’ inoltre inutile per un’altra decisiva ragione. L’80% delle nostre leggi è di derivazione comunitaria. La normativa comunitaria non solo prevale su la legislazione nazionale, ma è sottratta al giudizio di costituzionalità della Corte Costituzionale perché è coperta dall’art.11 della Costituzione e gode della franchigia referendaria perché i Trattati sono esclusi dal Referendum. La riforma di Renzi è dannosa perché fa passare un principio ad alto rischio; le modifiche costituzionali su iniziativa del governo con la procedura dell’art.138. E’ questo vulnus che, incrociandosi con una legge elettorale maggioritaria, rompe la rigidità del nostro sistema costituzionale, scardinano la difesa della prima parte della Costituzione. Le conquiste di libertà e di uguaglianza non sono mai definitivi.

Morte apparente e resurrezione certa del bicameralismo

Il tanto gridato “abolito bicameralismo” è una truffa. E’ una truffa perché il Senato non solo sopravvive ma avrà competenza legislativa bicamerale piena in materia di tempi e di metodi dell’appartenenza dell’Italia all’UE. Non solo! Fatalmente il Senato ha (avrà) per la sua origine e per la sua naturale composizione, natura anarchica e comunque asimmetrica rispetto alla “maggioranza” che si pensa di raggiungere nella Camera dei deputati per via di legge elettorale. Così si avrebbe nel nostro Paese un altro unicum: “una Camera politica con origine locale ma con competenza, insieme, sovranazionale ed irrazionale, così da produrre l’effetto opposto a quello cui la riforma sarebbe mirata. Insomma, non la fine della confusione, ma una confusione senza fine”.

Un pericoloso precedente

Il 3 dicembre del 1947 si votarono due testi che dimostrarono che nell’ultima fase della Costituente con il mutato clima internazionale, prendeva forza una forte e vecchia destra. Si votò prima l’art.130 bis presentato dall’on. Laconi e sostenuto da PCI – PSI e sinistra sociale DC. “Le disposizioni della presente Costituzione che riconoscono o garantiscono i diritti di libertà e del lavoro, rappresentando l’inderogabile fondamento per l’esercizio della sovranità popolare, non possono essere oggetto di procedimenti di revisione costituzionale, tendenti a misconoscere o a limitare tali diritti, ovvero a diminuirne le guarentigie”. La proposta fu bocciata con 191 voti contro 116. L’art. 139 (immodificabilità della forma repubblicana) passò con 274 voti favorevoli, 77 contrari e 205 assenti. La riforma di Renzi è fuorviante perché utilizza un linguaggio populista allo scopo di evitare il passaggio stretto della crisi costituzionale dello Stato-nazione. Gli argomenti di Renzi privi di consistenza giuridica sono: la riduzione del costo della politica (confonde gli sprechi da eliminare con il costo della democrazia da difendere); la riduzione del numero dei parlamentari (ignora che il problema non è la quantità ma la qualità degli eletti); la velocità di decidere (l’esperienza ci dice che il processo legislativo ha bisogno di attenta riflessione e non di ritmi cronometrabili). Questi argomenti sgraziati e sgradevoli, coprono il rifiuto a varare una vera e organica riforma costituzionale: a)-conciliare principi irrinunciabili con una più larga partecipazione alla decisione; b)-regolare la cessione di sovranità ad organismi sovranazionali fissando i criteri per l’adesione, le condizioni di permanenza e le modalità di recesso.

Cari Compagni che, sbagliando, votate SI’,

non vi attardate a negoziare improbabili modifiche alle leggi elettorali. Dovete aver chiaro che votare SI significa: · Ratificare ed approvare le politiche economiche e sociali imposte all’Italia dal vincolo estero anche per il futuro; · Aprire la strada alla soppressione di fatto della prima parte della Costituzione; · Scivolare verso l’irrilevanza del potere parlamentare e la unificazione del potere esecutivo con il potere legislativo; · Ritorno alla Costituzione “flessibile” dello Statuto Albertino; · Consegnare le garanzie Costituzionali e l’iniziativa per le revisioni costituzionali alle decisioni del partito prevalente anche se largamente minoritario nel Paese. Sappiamo anche che votare NO ci mette momentaneamente al riparo di temerarie azioni restauratrici di un servaggio costituzionale a poteri senza volto e a forze senza controllo democratico. La sinistra sul piano nazionale si oppose allo Statuto Albertino perché fu concesso dal Sovrano senza voto popolare. La sinistra fu postmonarchica nel 2° risorgimento. Il referendum istituzionale e l’Assemblea Costituente chiusero il ciclo storico della contrapposizione del popolo allo Stato. Oggi siamo ad un bivio: o sconfitta storica della sinistra per abbandono delle sue ragioni di lotta politica o nuova primavera della sinistra rinnovata per il 3° Risorgimento. Votare NO al Referendum è il primo passo, necessario ed indispensabile, per riguadagnare un ruolo di direzione nel rispetto del pluralismo politico e sociale.

Un governo di scopo

Dopo il referendum un governo di scopo con compiti da chiudere in un anno: 1-legge elettorale e definizione dei poteri dell’Assemblea Costituente 2-Impegno del governo a non assumere decisioni comunitarie che incidano sulla prima parte della Carta Costituzionale (per il referendum consultivo è sufficiente una legge ordinaria). Se la sinistra storica avrà qualche colpo d’ala, nascerà un socialismo largo aperto a tutti i ceti sociali colpiti dalla stolta politica dell’austerità. La sinistra riprenderà il filo del discorso di Colorni interrotto dall’uccisione per mano nazista; il riformismo dall’alto è la carità dei potenti, il riformismo dal basso è la certezza dei deboli. Il nodo politico che l’Assemblea costituente dovrà sciogliere è di grande rilievo storico perché si dovrà fissare un principio inedito: come cedere sovranità nazionale garantita dalla Costituzione nazionale ad enti sovranazionali senza Costituzione.

Rino Formica

Perché i socialisti ti chiedono di votare NO, di Bobo Craxi

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bobo craxi

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I socialisti sono favorevoli ad una modifica della Costituzione finalizzata a modernizzare il Paese e le istituzioni e a garantire quel il bisogno di partecipazione popolare cresciuto in Italia e in Europa ormai da molti decenni.
I socialisti hanno posto l’esigenza di una profonda modifica della Costituzione più di trenta anni fa, ma dopo l’entrata in vigore di leggi elettorali di tipo maggioritario hanno sostenuto che l’unico organo abilitato alla modifica della Costituzione sia una Assemblea Costituente eletta dal popolo con metodo proporzionale, indipendente dalla maggioranza parlamentari e di Governo.
I socialisti quindi non sono contrari a riformare la Costituzione, ed anzi non la ritengono per nulla la “migliore del mondo”, ma sono contro i contenuti di questa riforma, perché non è vero che una riforma qualsiasi è meglio di niente.
1. UNA LEGGE CHE PRODURRA’ CONFLITTI
No ad una legge incomprensibile, un ibrido, che invece di semplificare e velocizzare il sistema lo complicherà, aumentando il contenzioso e i conflitti tra istituzioni diverse e tra Camera e Senato.

2. NON SUPERA IL BIPOLARISMO PARITARIO
No ad una legge che fa credere di superare il bicameralismo paritario e non lo fa. Il Senato, ancorché stravolto e ridicolizzato, rimane e ancora numerose saranno le sue competenze, comprese le funzioni legislative.

3. AVREMO UN SENATO CHE NON HA SENSO
No ad un Senato di nominati, che non ha senso, composto da 74 consiglieri regionali, 21 sindaci e 5 senatori nomati dal Presidente della Repubblica, non rappresentativo in modo proporzionale né della popolazione, né delle istituzioni. Neppure confrontabile con quel Senato delle Regioni, sul modello di quello tedesco, tanto discusso nei decenni passati.

4. IL SENATO POTEVA ESSERE ABOLITO
No ad una legge che di fronte a tanta confusione non ha avuto il coraggio di abolire il Senato del tutto.

5. PIU’ POTERI AL PREMIER E MENO AL PARLAMENTO
No ad una legge che rafforza il potere del solo Presidente del Consiglio a scapito di quelli del Parlamento, dei rappresentanti del popolo e della democrazia.

6. PIU’ POTERI AL PREMIER E MENO AGLI ENTI LOCALI
No ad una legge che rafforza il potere del solo Presidente del Consiglio a scapito dei poteri delle istituzioni locali e che affossa definitivamente qualsiasi processo di rafforzamento delle autonomie locali e della struttura federale dello Stato.

7. NON RIDUCE I COSTI DELLA POLITICA
No ad una legge che fa credere che si possano ridurre i costi della politica riducendo un po’ i costi del Senato. Ma se questo fosse vero perché non abolirlo del tutto o non dimezzare sia il numero dei senatori che quello dei deputati.

8. RIDUCE LA PARTACIPAZIONE POPOLARE
No ad una legge che riduce in processo di partecipazione polare nella formazione delle leggi prevedendo che le firme per la presentazione di proposte di legge di iniziativa popolare passino da 50.000 a 150.000. Per i referendum se si vuole che conti la maggioranza dei votanti (alle ultime elezioni) e non quella degli aventi diritto al voto occorre raccogliere 800.000 firme e non 500.000.

I Comitati Socialisti del No sono aperti a tutti coloro che si riconoscono nelle nostre critiche e che propongono l’elezione diretta di un’Assemblea Costituente per la riforma della Costituzione.

Bobo Craxi

Le vere intenzioni del governo nella riforma costituzionale, di Vincenzo Russo

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Vincenzo Russo

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Udite, udite le vere intenzioni del governo per la voce di Maria Elena Boschi, ministro dei rapporti con il Parlamento, che a torto o a ragione viene considerata vice-premier. A proposito della riforma costituzionale, ieri sera ha detto letteralmente: ” vogliamo ridurre i poteri delle regioni per semplificare la vita dei cittadini”. E’ questa la concezione della democrazia della Boschi e probabilmente anche del premier. Le regioni, il decentramento il federalismo non implementano la democrazia ma complicano la vita dei cittadini. E a complicarla sono proprio le regioni non il governo centrale che costringe un Parlamento di nominati e, per giunta, eletti con una legge elettorale dichiarata incostituzionale dalla Corte Costituzionale ad approvare leggi kilometriche incomprensibili ai più. Ma la Boschi non si rende conto che se si ridicono i poteri delle regioni e, conseguentemente, quelli dei comuni che insistono sul territorio delle stesse, alla fine si riducono i poteri dei cittadini. Non si rende conto che se si eliminano – si fa per dire – le province e si trasformano in aree metropolitane dov’è i dirigenti sono sempre i sindaci o politici non scelti direttamente dai cittadini, si annulla o si riduce la rappresentanza dei cittadini. Ma la Boschi e il governo dicono che, in questo modo, si riduce il costo della politica, alias, si riducono le poltrone. Argomento di un certo effetto ma sempre ingannevole. Perché i costi della politica non si riducono tagliando solo le poltrone ma verificando l’efficienza e l’efficacia delle funzioni svolte. Se fosse vera la premessa del ragionamento del governo, bisognerebbe abolire la Camera dei deputati e ogni organismo collegiale e affidare tutte le decisioni ad un solo uomo, all’Uomo della Provvidenza. Questa sì che sarebbe vera semplificazione. Ma il massimo di semplificazione distrugge la democrazia in una società moderna e complessa. Forse bisogna spiegare alla Boschi che riducendo le sedi di partecipazione dei cittadini alle scelte pubbliche, si riduce la democrazia, si conculcano i diritti dei cittadini, si scivola inesorabilmente verso la dittatura. Nel merito la costituzione del 1948 prevede un c.d. Stato regionale, qualcosa di molto diverso da quello centralizzato, come era stato il regime fascista, qualcosa di molto vicino allo stato federale. Per oltre 20 anni il parlamento italiano ha approvato leggi rubricate come provvedimenti mirati ad introdurre e attuare schemi federalisti. Adesso scopriamo che non solo non vogliamo più il federalismo ma non vogliamo neanche lo Stato regionale. La riprova è che nella riforma costituzionale che stiamo valutando il senato che rimane non è un senato federale, non è un senato delle regioni ma delle autonomie perché ci sono anche i sindaci e i Comuni hanno solo autonomia amministrativa. Renzi, che è stato sindaco per due mandati, abrogando le imposte di tipo patrimoniale sulla prima casa ha ridotto l’autonomia tributaria dei Comuni ma ora fa partecipare alcuni sindaci al processo legislativo e può quindi vantarsi di avere valorizzato il loro ruolo.

Vincenzo Russo

 

articolo tratto dal sito http://enzorusso2020.blog.tiscali.it/2016/09/05/le-vere-intenzioni-del-governo-nella-riforma-costituzionale/?doing_wp_cron

Un NO per restituire la Costituzione ai cittadini, di Nicolino Corrado

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Nicolino Corrado 2

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Con grande risonanza su giornali e televisioni, Matteo Renzi ha lanciato la campagna elettorale per il referendum del prossimo autunno sulle modifiche alla Costituzione approvate dal Parlamento su iniziativa del governo.

A dire il vero, il dibattito si è animato solo all’interno di quel segmento della società composto da addetti ai lavori e da cittadini attenti alla vita politica. La grande massa dei cittadini, pressata da problemi più impellenti, come far quadrare il bilancio di fine mese o trovare un lavoro per i figli, non riesce a cogliere l’importanza della consultazione referendaria; per il popolo il referendum è qualcosa di astruso, un argomento denso di tecnicismi giuridici sul quale esprimono la loro opinione i vari esponenti politici nelle abituali comparsate nei telegiornali e nei talk-show.

Gli ambienti governativi hanno imposto al Parlamento, a colpi di ariete, il proprio progetto di riforma, ignorando l’ ammonimento che Piero Calamandrei, uno dei più autorevoli padri costituenti, lanciava nel 1947, durante i lavori dell’Assemblea Costituente:

“… nella preparazione della Costituzione il governo non ha alcuna ingerenza: il governo può esercitare per delega il potere legislativo ordinario, ma, nel campo del potere costituente, non può avere alcuna iniziativa neanche preparatoria. Quando l’assemblea discuterà pubblicamente la nuova Costituzione, i banchi del governo dovranno essere vuoti; estraneo del pari deve rimanere il governo alla formulazione del progetto, se si vuole che questo scaturisca interamente dalla libera determinazione dell’assemblea sovrana.”

Ammonimento valido ancora oggi, in quanto il Parlamento, in sede di revisione costituzionale, è ancora in possesso di un frammento di quell’originario potere costituente. Quindi, bene avrebbe fatto il governo ad astenersi dal prendere iniziative così estese e profonde in materia costituzionale, e ancor meglio avrebbero fatto le forze politiche a rimettere tutto il pacchetto di modifiche costituzionali ad un’assemblea costituente, come quella del 1946, eletta con il sistema proporzionale e, quindi, rappresentativa al massimo delle opinioni presenti nella società, come ripete da anni un “grande vecchio” della Repubblica, il senatore Rino Formica.

Invece, il governo ha cercato di accattivarsi, a priori e in blocco, la fiducia dell’opinione pubblica sulla riforma lanciando slogan efficientisti (“Le leggi verranno approvate solo dalla Camera dei Deputati”, “Il procedimento legislativo sarà velocizzato”) o ammiccanti verso gli umori dell’anti-politica (“Diminuirà il numero di coloro che vivono di politica”, “Si avranno risparmi sulla spesa pubblica”), e deviando l’attenzione dai contenuti specifici e dalle loro conseguenze una volta operanti.

Questa baldanza appare fuori luogo quando si pensi che la riforma è stata approvata da un Parlamento composto da designati dai vertici di partito, da un Parlamento formato in base ad una legge elettorale, cioè quella legge che lega il rappresentato al rappresentante, quella legge che più di ogni altra caratterizza la vita democratica e la capacità di garantire la continuità degli organi costituzionali, che è stata dichiarata incostituzionale (il famigerato Italicum). Anzi, secondo la maggior parte dei costituzionalisti, lo stesso Parlamento, che tra l’altro rappresenta poco più della metà del corpo elettorale, manca di quella legittimazione, derivante dal rispetto dei principi costituzionali, necessaria per modificare la “norma fondamentale”, il patto che lega tutti i cittadini.

Altro aspetto critico, l’esecutivo, uscito vincente dal doppio voto parlamentare sulla riforma, ma senza la maggioranza dei due terzi nella seconda votazione, ha snaturato la funzione del referendum confermativo con funzione oppositiva previsto dall’art. 138 della Costituzione. Questa norma, infatti, è prevista a garanzia delle forze contrarie al progetto di revisione costituzionale che, battute in Parlamento, vogliano appellarsi al corpo elettorale per ribaltare la decisione presa. Ma in questo caso sono stati i partiti governativi, con l’appoggio di Confindustria, CISL e altre organizzazioni di categorie professionali, a promuovere la raccolta delle 500.000 firme necessarie per la richiesta del referendum, con l’intento di ottenere una ratifica popolare che sanasse la mancanza di legittimazione del Parlamento e attuando così una torsione dell’istituto giuridico in senso plebiscitario.

Ed a togliere gli ultimi dubbi sul fatto che ci troviamo di fronte ad un qualcosa che formalmente è un referendum, ma di fatto è un plebiscito sia sul futuro ordinamento dello Stato, sia sulla persona dell’attuale Presidente del  Consiglio, ci ha pensato lo stesso Renzi annunciando che in caso di sconfitta, si ritirerà dalla vita politica.

Quindi, i cittadini mai come in questa occasione farebbero bene ad interessarsi del referendum, e non solo perché l’espressione del diritto di voto dovrebbe essere meditata in ogni occasione, ma anche perché questa volta la riforma in gioco ha una forza d’urto in grado di scardinare gli equilibri tra organi e poteri dello Stato per come li abbiamo conosciuti finora,  e tale da ridurre ai minimi termini la partecipazione dei cittadini alla vita dello Stato: in caso di vittoria del SI si avrebbe un accentramento di potere nel capo del governo ed un simmetrico allontanamento di settori di società dallo Stato, aumentando il distacco dalle istituzioni e ingrossando le fila dei movimenti a base populista.

Infatti, la filosofia che pervade il progetto di riforma è quella della verticalizzazione del potere, riscontrabile nel superamento del bicameralismo paritario attraverso una camera elettiva con pieni poteri legislativi formata, grazie alla vigente legge elettorale (Italicum), dai nominati dei vertici dei simulacri di partito di questo periodo storico e un Senato delle autonomie composto da consiglieri regionali e sindaci che risponderebbero non ai territori di riferimento, ma ai vertici politici che li hanno indicati. Una riforma del bicameralismo paritario é necessaria, ma é ancor più necessario evitare, in materia di riforme costituzionali, una eccessiva fretta ritornando al metodo di riflessione e di confronto che contraddistinse il lavoro dell’Assemblea Costituente.

Gli stessi istituti di democrazia diretta vengono piegati a questa logica: se le firme raccolte per il referendum abrogativo saranno 800.000, invece delle 500.000 richieste perché la proposta venga presa in esame, il quorum verrà abbassato e per approvare o respingere la proposta di abrogazione basterà che si raggiunga il 50% più uno dei votanti e non che si rechino alle urne il 50% più uno degli aventi diritto. Con questa “correzione” si vogliono favorire le minoranze più forti e non le maggioranze effettive nel Paese (come si è già fatto con l’Italicum). E diventerà più difficile proporre una legge d’iniziativa popolare: attualmente,  per proporre una legge d’iniziativa popolare sono sufficienti 50.000 firme, mentre con la riforma saranno necessarie 150.000 mila firme, cioé il triplo.

Si vuole instaurare un rapporto diretto tra capo del governo e cittadini, unidirezionale, dall’alto verso il basso, utilizzando i media e internet, tagliando fuori i corpi intermedi istituzionali e associativi tra lo Stato e i cittadini (enti locali, sindacati, associazioni di categoria),  in modo tale da produrre in tutti i campi una legislazione non rispondente ai bisogni del Paese, ma a quelli delle lobbies che sostengono il Presidente del Consiglio. Così, i meccanismi reali con i quali opera il potere verrebbero resi invisibili ai cittadini, allo scopo di garantire piena libertà d’azione (anche illegale) al complesso  di gruppi e conventicole che dirige di fatto il Paese. Ma tutta questa opacità va a ledere uno dei principi fondamentali della democrazia, quello di trasparenza che, come diceva Norberto Bobbio, significa visibilità, conoscibilità, accessibilità, e quindi controllabilità degli atti di chi detiene il potere pubblico: perché senza quella visibilità, senza quelle informazioni, i cittadini vengono privati dell’unica arma che hanno per sanzionare l’operato del governo, il voto.

Per Bobbio, la persistenza delle oligarchie rappresentava il tradimento della democrazia, “una promessa non mantenuta della democrazia”. La perpetuazione del potere in mano a ristrette èlites, associata alla sua invisibilità, ha come effetto quello di ridurre le forme democratiche a mera rappresentazione esteriore, a copertura di un potere che agisce nell’ombra.

Ecco il punto essenziale in discussione con il referendum: con la riforma della Costituzione voluta da Renzi l’opinione pubblica diventa inerme, i cittadini tornano ad essere sudditi.

Nicolino Corrado

Un salto di qualità nella campagna per il NO, anzi due. di Alberto Benzoni

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Alberto Benzoni

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C’è stata in primo luogo l’entrata in campo dei leoni, tutt’altro che spelacchiati, della vecchia Dc. Sentire De Mita ( ebbene sì !) e lo stesso Cirino Pomicino ( ebbene sì !!!) demolire, con intelligenza e passione l’Oca giuliva di turno e le sue formulette imparate a memoria; e, attenzione, in nome dei valori della politica come persuasione, mediazione, inclusione, intelligenza delle persone e delle cose, mi ha ripagato, credetemi, di anni trascorsi in un silenzio impotente: vedere demoliti, giorno dopo giorno, i principi in cui credevo e le conquiste cui avevo assistito da parte del primo cialtrone nuovista di turno e senza che nessuno si azzardasse a difenderli pubblicamente è un’esperienza che non auguro a nessuno. Ma ora, finalmente, qualcuno aveva detto che il nuovo re era nudo; e l’incantesimo/incretinimento collettivo era rotto.
Ancora, più importante, e questa volta per il futuro della sinistra, la dichiarazione di Tocci a favore del no. Per le cose che dice. E per le prospettive che apre.
Sinora l’atteggiamento della minoranza del Pd ( e, per dirla tutta anche della Cgil ) era stato equivoco e subalterno a dir poco. “Caro Renzi e caro governo, noi siamo disposti ad appoggiare la riforma ma tu ci devi dare una mano, che so, modificando la legge elettorale, riaprendo la concertazione eccetera eccetera”.
Al di là di ogni considerazione di merito, una fuffa vergognosa. A contrastarla, il solo D’Alema, con la qualità intellettuali e le sue debolezze personali. Ma, l’entrata in campo di Tocci il quadro è destinato a cambiare radicalmente. Primo perchè le sue considerazioni vanno finalmente al cuore del problema: dimostrando che la riforma non è ,come molti pensano, una roba neutra resa negativa dal cappello dell’Italikum, ma una costruzione complessiva tenuta insieme da logiche e da principi del tutto estranee alla sinistra e alla democrazia. E ancora, e soprattutto, perchè, con la sua presenza, il “no” di sinistra acquisisce, finalmente, la massa critica che finora gli era mancata.
E questo, credetemi, cambierà molte cose. Nell’oggi, con la crescita della probabilità di vincere. E per il domani, nella formazione, attraverso le lotte, di una sinistra degna di questo nome.

Alberto Benzoni

Comitati per il NO e socialismo largo, di Roberto Biscardini

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Biscardini

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I Comitati socialisti per il No sono aperti a tutti coloro che si riconoscono in questa battaglia e riconoscono nelle ragioni ideali del socialismo le ragioni sostanziali per un No a questa riforma costituzionale.
I Comitati socialisti per il No che si stanno moltiplicando in tutta Italia e che stanno raccogliendo un grande interesse tra tanti compagni socialisti ma non solo, sono la riprova che, al di là delle logiche parlamentari e indipendentemente dal sostegno che un partito o meno dà al governo, nel momento in cui sul piatto ci sono questioni che mettono in discussione le convinzioni democratiche più profonde, i socialisti, ma non solo loro, ragionano con la propria testa e si mettono alla testa di una battaglia di chiarezza e onestà.
La chiamata per andare a firmare per il Si in nome di una banale appartenenza ad un partito o le reiterate dichiarazioni di parte a favore del Si, per fare piacere a Renzi, scorrono via come acqua fresca, non bastano a cambiare le coscienze o a mutare la natura delle cose.
I socialisti riaffermano così con i Comitati per il No il valore originario della propria storia democratica e di libertà. Non tradiscono la loro storia e, di fronte ad una riforma costituzionale che rischierebbe di minare quelle libertà, reagiscono. Si fanno sostenitori e promotori di una battaglia destinata nelle prossime settimane e mesi ad allargarsi e a farsi ancora più dura.
I socialisti si riuniscono, parlano tra loro al di là della loro ormai vecchie scelte politiche. E d’altra parte non c’è centrodestra o centrosinistra che tenga: di fronte alle grandi questioni della vita democratica di un paese ognuno è solo con la propria coscienza, si riscatta e scopre le forza di una battaglia che non può non essere combattuta. I socialisti colgono l’opportunità di diventare protagonisti su una posizione di forte autonomia e di forte identità, perché hanno aderito ad un percorso delineato con assoluta chiarezza. Le ragioni socialiste del No non rispondono a logiche di parte ma stanno dalla parte del paese. Come ad un tempo: o Repubblica o il caos. Quindi per vincere bisogna abbattere steccati e parlare a tutti, ad un mondo socialista ancora potenzialmente largo, ma non solo. Parlare a tutti i socialisti che hanno ancora una coscienza, ma non hanno più una forte organizzazione politica di riferimento e parlare ad un mondo di sinistra democratica, che sta anche dentro il Pd, ma che ha assolutamente bisogno di uscire dalla ubriacatura del governo e della sola logica dell’esecutivo. Si, quel socialismo largo che i Comitati socialisti per il No possono far riemergere e contribuire a riorganizzare.
Il documento di ieri dei dieci parlamentari del Pd a favore del No è solo un inizio e poveracci coloro che pensano che i socialisti possano seguire la logica opportunistica del Si.

Roberto Biscardini

Renzi e soci e la linea del Piave, di Angelo Sollazzo

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Angelo Sollazzo 2

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La linea del Piave, la madre di tutte le battaglie, erano rappresentate per Renzi ed il suo Governo dalla nuova legge elettorale e dalle cosiddette riforme costituzionali.

Tali provvedimenti avrebbero risolto tutti i problemi del Paese, e non si capisce come e perché, a cominciare da quelli economici.

Anche gli osservatori più attenti facevano osservare che voler mischiare il diavolo e l’acqua santa non aveva senso, tranne che per lo sprovveduto Centro Studi della Confindustria renziana.

Ora la linea del Piave è caduta, le truppe di difesa si ritirano in disordine, l’Italicum può essere modificato, anzi non funziona più, nonostante le difese ad oltranza di Maria Boschi che non sa più che pesci pigliare, se il suo Capo accetta che il Parlamento cambi ciò che per mesi entrambi avevano definito intoccabile e la migliore legge elettorale possibile.

Ma già si sentono scricchiolii anche sul fronte delle pseudo-riforme costituzionali.

La paura di perdere il referendum, che sta divenendo una certezza, consigliano al Premier maggiore prudenza, nascono come funghi in tutta Italia i Comitati per il NO, e le motivazioni addotte sono inattaccabili e concrete.

Se poi tali provvedimenti dovevano risolvere i gravi problemi derivanti dalla crisi economico, gli effetti sono esattamente all’opposto.

La produzione industriale frena pericolosamente, il sistema bancario barcolla, dopo il capolavoro della Banca Etruria e delle Popolari, il Jobs Act è stato un totale fallimento ed un regalo al mondo confindustriale, con, nel 2016, un -78% dei contratti a tempo indeterminato e con un aumento del 43% dei voucher liberalizzati.

La “deforma “ della scuola avvantaggia quella privata e danneggia la pubblica che sta assumendo connotati aziendalistici e d’elite, nonostante la contrarietà di tutto il mondo scolastico, la deflazione blocca i consumi con il -0,2%, riportandoci ai valori del 1959 (fonte CGIA di Mestre), le bollette per le famiglie riprendono a salire. e infine per evitare l’aumento dell’IVA bisogna trovare almeno cinque miliardi di euro.

Nel passato Premier, ministri e vice-ministri quando sbagliavano analisi, proponevano e votavano leggi e provvedimenti errati si dimettevano.

Cambiare idea si può, importante e trarne le conclusioni facendosi da parte.

Angelo Sollazzo

 

Documento del Comitato socialista per il NO di Roma

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Chiamarsi socialisti, nell’Italia di oggi, non è una scelta da poco. E’ il richiamo ad una storia; ma è soprattutto l’impegno costante per preservare e aggiornare, in condizioni difficili, l’identità, l’indipendenza e soprattutto la vitalità politica del socialismo.

In tutti i periodi, i socialisti hanno concorso, anche più di altri, al successo dei programmi e delle posizioni moderne del socialismo italiano ed europeo e, noi promotori del COMITATO SOCIALISTI PER IL NO di ROMA siamo convinti che dobbiamo difendere i valori alti della democrazia nel nostro Paese.

La decisione di votare NO per il Referendum Costituzionale scaturisce da profonde riflessioni fatte in molti pubblici confronti sulle varie posizioni oggi presenti sul terreno della discussione politica.

Al termine di queste riunioni siamo più che convinti che il provvedimento approvato in Parlamento di modifica costituzionale produrrà effetti devastanti nella nostra vita interna, nel nostro peso politico esterno e soprattutto nella gestione della vita pubblica italiana.

Per quanto ci riguarda, non intendiamo assistere passivamente a questo processo di autodistruzione del tessuto democratico conquistato duramente e spetta a anche a noi popolo socialista, ovunque siamo, dare un contributo di presenza e militanza attiva per evitare una deriva antidemocratica.

E’ un dovere verso il popolo di ieri, di oggi e a quello di domani. Ma è un dovere soprattutto per le giovani donne ed i giovani che, ove passasse la riforma voluta dall’attuale governo , andrebbero incontro ad una limitazione degli spazi di democrazia.

La costituzione del COMITATO SOCIALISTA DI ROMA PER IL NO AL REFERENDUM COSTITUZIONALE è anche un appello ai compagni socialisti affinché diano il loro contributo di partecipazione attiva considerato che i problemi che devono essere affrontati sono estremamente complessi e richiedono straordinarie capacità di mobilitazione, di analisi e di innovazione politica così come un forte contributo di idee ed un trasparente impegno di tutti.

Il dovere che ci impone la storia è quello di consegnare alle future generazioni una Italia più democratica, rinnovata anche tramite azioni esemplari a favore delle classi più deboli e dove i principi dell’uguaglianza, della fratellanza, della libertà e della solidarietà siano da guida concreta all’azione politica di ogni cittadino prima di ogni militante socialista.

Il socialismo non è terminato nel 1992 ed il nostro patrimonio politico non può essere messo a disposizione di derive non democratiche e il PSI nel corso della sua storia ha pagato prezzi altissimi per errori propri, ma è sempre stato a fianco dei deboli e dei lavoratori.

In questa nuova e delicatissima campagna politica dobbiamo dare un forte connotato di presenza socialista e l’espiazione socialista deve avere fine ed i socialisti devono farsi sentire poiché siamo il partito della verità e tra le verità c’è anche quella che, nel riconoscer i nostri errori, siamo orgogliosi del ruolo che abbiamo avuto nella storia italiana.

In questo passaggio delicatissimo riteniamo che la nostra partecipazione e l’invito a votare per il NO assuma un significato che va al di là della stessa espressione di voto.

Vogliamo insegnare questo orgoglio socialista alle nuove generazioni, che dovranno riprendere un discorso bruscamente ed ingiustamente interrotto.

Anche questo deve  essere il nostro obiettivo di noi socialisti per il NO, di noi che qui oggi ci ritroviamo in un abbraccio doloroso e di piena solidarietà verso il popola francese così duramente colpito.

Tutte le contraddizioni di questa pseudo riforma costituzionale non possono trovare disattenti i socialisti che devono ritrovare una rinnovata voglia di esserci, di farsi sentire, di fare emergere ideali mai dimenticati di cui nessuno può privarci.

La “nuova Costituzione” se approvata determinerà un svolta “conservatrice” ed aumenteranno le disuguaglianze sociali.

Se abbiamo deciso di scendere in campo lo facciamo per sconsigliare gesti, comportamenti scorretti e non in linea né con il nostro passato, ma soprattutto con quanto di oggi significa socialismo in Italia ed in Europa.

Non giustifichiamo il capo del governo che un giorno afferma che quanto approvato in Parlamento, con voti di fiducia e voti senza un vero ed ampio dibattito parlamentare, sia per la revisione costituzionale che per la legge elettorale (Italicum), non sono rivedibili e se dovesse vincere il NO lui si dimette, ed il giorno dopo minimizza e afferma il contrario e che sono altri che vogliono personalizzare l’esito del referendum e non lui.

Così come chiediamo coerenza ai nostri dirigenti ed ai nostri parlamentari che hanno votato “con convinzione” sia le modifiche costituzionali che l’Italicum di non fare marcia indietro perché ne va della loro stessa dignità di rappresentanti dei cittadini.

Non sono e non sarebbero un buon esempio per tutti noi.

Se prima siete stati “costretti a votare e non eravate d’accordo allora dovete denunciare chi vi ha costretto e per quali motivi; in caso contrario è corretto chiedervi di essere coerenti.

In aula esiste la libertà di voto e nessuno può toglierla a chi è, a chi si sente ed a chi rappresenta i socialisti.

Non si può cambiare linea e posizione al piccolo stormir di fronda o per convenienza. Fate in modo di essere orgogliosi della posizione assunta anche se molti socialisti non vi hanno compreso.

Siate coerenti anche di fronte alle critiche interne; critiche che significano dibattito, scambio di idee e confronto aperto.

Noi compagni “non ubbidienti” riteniamo che ciò sia possibile e continueremo a portare avanti le nostre idee e chiedere un confronto quando ci troviamo di fronte a scelte di questo nuovo ed attuale PD che assumono il significato di voler rafforzare un sistema di potere e non di rottamarlo e notiamo che di fronte a questo si avverte “un grande silenzio” socialista.

La sede del Comitato socialista di ROMA per il NO è a Piazzale delle Provincie n. 8, 00165, Roma. Ne fanno parte i compagni Maurizio Aldrovandi, Andreina Baratta, Antonio Ciccone, Paolo Gonzales, Giorgio Pesce, Roberto Ramazzotti, Mauro Scarpellini, Antonio Valenzi, Marco Zanier. Ne è Presidente l’on. Angelo Sollazzo.

15 Luglio 2016

 

Riforma costituzionale e l’Italicum rischiano di azzoppare la democrazia, di Vincenzo Russo

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Vincenzo Russo

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Due considerazioni preliminari. La prima è che bisogna avere chiaro l’obiettivo fondamentale del sistema costituzionale che si vuole costruire. Da un quarto di secolo almeno, a parole, diciamo che vogliamo costruire un sistema federale. Va ricordato che la questione del federalismo entrò nell’agenda della politica italiana per merito o demerito (a seconda dei punti di vista) di Bossi e della Lega Nord che addirittura minacciavano la secessione se non si fosse realizzato il federalismo entro un ragionevole lasso di tempo. In un sistema federale, il Senato ha ragion d’essere al livello centrale del sistema federale e non a livello dei paesi membri federati o in via di essere federati. In Italia dove i discorsi sulla riforma costituzionale non hanno mai tenuto conto di quello che sta avvenendo in Europa tranne nel caso della modifica dell’art. 81 della Costituzione collegato all’adozione Fiscal Compact a livello europeo. Si è partiti dall’idea bizzarra che il bicameralismo perfetto fosse la causa dell’inefficienza del nostro sistema istituzionale. Per approfondimenti di questo punto mi sia consentito rinviare a http://enzorusso2020.blog.tiscali.it/2016/02/16/l%E2%80%99irrilevanza-della-riforma-del-senato/?doing_wp_cron
Adesso abbiamo un bicameralismo differenziato, non elettivo e composto da esponenti delle regioni e dei comuni. Qui mi basta dire che un senato che non ha voce decisiva sulla legge di stabilità nega la partecipazione non solo delle Regioni e dei Comuni ma direttamente e indirettamente anche dei cittadini. La riforma nega non solo un sistema genuinamente federale, come sarà prima o poi il sistema dell’Unione Europea, ma nega anche lo Stato regionale come previsto dalla nostra Costituzione del 1948.

La seconda premessa che ha a che fare non solo con la riforma costituzionale ma anche con la legge elettorale c.d. Italicum è ovviamente collegata alla forma di governo, perché in nome della stabilità – non della governabilità che dipende anche da altri fattori – prevede un ritorno ad un sistema elettorale peggiore del c.d. Porcellum legge n. 270/2005 che la Corte costituzionale ha già censurato in diversi punti con sentenza n.1/2014. Di queste censure il governo e il Parlamento non hanno tenuto conto approvando l’Italicum, rectius, legge n. 52/2015. Questa assicura una maggioranza di 340 seggi al partito che vince le elezioni. Considerata la frantumazione del sistema politico con l’emergere di tre principali schieramenti si è previsto un grosso premio di maggioranza non ad una coalizione ma ad una lista partitica. L’argomento dei difensori di questa soluzione è che senza un cospicuo premio di maggioranza, nessun partito sarebbe in grado di assicurarsi una maggioranza in Parlamento e, quindi, non sarebbe in grado di governare senza ricorrere all’aiuto e/o alla cooperazione con altri partiti. Anche su questo punto gli argomenti del Presidente Renzi, nonché segretario del PD, a mio giudizio, sono molto deboli perché una riforma della costituzione non può partire dalla situazione contingente della crisi dei partiti. Una costituzione si deve proiettare in un orizzonte temporale di lungo termine e, se così, non sappiamo se fra 5-10-20 anni la situazione dei partiti sarà come quella attuale. Secondo la Constitutional Political Economy la definizione delle regole va fatta avvolti nel velo dell’ignoranza, ossia, senza sapere chi potrà essere avvantaggiato da quelle regole. Più in generale, se il pluralismo delle forze politiche è l’essenza della democrazia, non si può azzoppare la democrazia perché ci sono tre partiti di pari forza. Un partito al governo non può ridisegnare da solo ( a colpi di maggioranza risicata) la legge elettorale secondo le sue necessità, per garantirsi una maggioranza blindata. Nel 2005, lo fece il governo Berlusconi ma nel 2006 vinse Prodi.

Proseguendo per questa strada si può anche ipotizzare l’abrogazione delle elezioni – come fu ipotizzato in chiave satirica attorno al 1975 da Anonimo in “Berlinguer e il Professore”, Rizzoli, 1975: 82-83). È questo non sarebbe del tutto sorprendente se si considera la deriva autoritaria e tecnocratica in corso in Europa e nel mondo che affligge la democrazia.
In un paese coeso, funzionano le coalizioni, in un paese non coeso dove, da un quarto di secolo, prevale la logica dell’amico-nemico, il sistema non funziona o funziona male con l’abuso continuato della decretazione d’urgenza, i canali speciali per i provvedimenti del governo, i canguri per togliere la parola all’opposizione , i voti di fiducia sui maxi-emendamenti, ecc. Se oggi viviamo nell’era della sfiducia come sostiene il politologo francese Pierre Rosanvallon, (Controdemocrazia La politica nell’era della sfiducia, Castelvecchi, collana le navi, Roma, 2012), bisogna prenderne atto e l’impegno di tutti i partiti dovrebbe essere quello di superare tale sistema e ricostruire la fiducia necessaria. Se invece la previsione è che questo sistema della sfiducia reciproca tra le forze politiche e i poteri dello Stato, va bene ed è destinato a restare nel lungo termine , allora servono i poteri di veto di cui parla Gorge Tsebelis, un politico americano di origine greca (vedi il suo: Poteri di veto. Come funzionano le istituzioni politiche, il Mulino, Bologna, 2004). Per essere chiari il sistema dei poteri di veto è quello in essere nella Costituzione americana dove c’è la separazione netta dei poteri specialmente tra il Congresso ed il Presidente, quindi tra il legislativo e l’esecutivo per cui il Presidente può porre il veto alle leggi approvate dal Congresso e viceversa il Congresso o una delle sue camere può non approvare le leggi proposte dal Presidente. Congresso e Presidente risultano eletti con procedimenti elettorali significativamente diversi ed ottengono mandati di durata diversa (4 e 6 anni) proprio per raccogliere eventuali cambiamenti di opinione pubblica. Il Congresso si rinnova parzialmente ogni due anni. Il mandato del Presidente dura 4 anni. I senatori durano in carica 6 anni e 1/3 di essi si rinnovano ogni due anni. Le due camere del Congresso hanno sostanzialmente gli stessi poteri legislativi anche in materia di bilancio. Quindi negli Stati Uniti c’è il bicameralismo perfetto o quasi tanto deprecato in Italia perché secondo gli esponenti della maggioranza sarebbe lento e farraginoso mentre oggi servirebbero procedimenti legislativi veloci ed efficaci per affrontare i problemi della globalizzazione. Si dà il fatto che gli USA restano la potenza egemone a livello mondiale che affronta giornalmente detti problemi ma nessuno o quasi – che io sappia – sostiene che il bicameralismo vada cambiato. Una breve precisazione circa i poteri di veto. I padri costituenti americani li previdero perché non assunsero che i politici siano angeli ed ispirerebbero sempre le loro scelte alla leale collaborazione e/o cooperazione e al perseguimento dell’interesse generale. In altre parole, non hanno prescritto di utilizzare sempre e comunque i poteri di veto ma solo quando la cooperazione tra le forze politiche non funziona.

Tornando all’Italia, bisogna aver chiaro in mente che il nostro sistema era ed è ingovernabile non perché c’era il bicameralismo perfetto ma perché in Italia prevale il particolarismo, non c’è coesione sociale, non c’è un’idea condivisa di giustizia sociale né di quella tributaria. C’è una tradizione di familismo amorale. Tutti antepongono l’interesse di parte a quello generale. Nel nostro Paese prosperano tre organizzazioni criminali tra le più potenti del mondo. Si vive in un clima di illegalità diffusa. La corruzione grande e piccola è una vera metastasi, che non può essere curata solo con la prevenzione lodevole dell’Anac di Cantone.
Tutti amano i privilegi; disobbediscono alle regole a partire da quella della puntualità. In politica prevale l’idea che i problemi si risolvono approvando nuove leggi senza un’analisi preventiva delle cause per cui la precedente legge non ha funzionato, senza un’analisi preventiva dell’impatto amministrativo ed economico della nuova legge.
E tuttavia, a mio giudizio, non c’è un rischio grave di paralisi (e/o di inciucio)- come sostiene Renzi – perché fortunatamente siamo inseriti nel sistema istituzionale dell’Unione europeo. Con tutti i suoi limiti e con tutte le conseguenze anche negative che l’UE produce negli ultimi tempi per come sta gestendo la crisi economica e finanziaria che ci affligge dal 2008, essa rimane una garanzia insostituibile ed una speranza per un futuro migliore.
Il Belgio è rimasto due anni e mezzo senza governo. La Spagna é senza governo da circa sei mesi ; il caso più grave è quello greco di due anni fa quando l’UE costrinse i Greci a votare di nuovo nel giro di qualche mese. O prendiamo atto che i governi dei Paesi Membri della UE sono governi regionali oppure continuiamo a trastullarci con l’idea di governi dotati di piena sovranità di stampo ottocentesco che sarebbero meglio attrezzati ad affrontare i problemi della globalizzazione. Lo ripeto, non si può fare una riforma costituzionale senza tener conto del contesto costituzionale ed istituzionale in cui siamo inseriti da circa sessanta anni.
Non si può fare una riforma costituzionale pensando solo all’oggi. Non dico che bisogna trascurare del tutto il presente ma le riforme costituzionali si possono e si devono fare pensando anche al futuro di lungo termine.


Penso alla Costituzione degli USA che in 228 anni ha subito solo 27 emendamenti. Quelli si che erano padri costituenti non quelli nostrani di oggi.

Vincenzo Russo

tratto dal Blog dell’autore http://enzorusso2020.blog.tiscali.it/2016/06/17/riforma-costituzionale-e-l%E2%80%99italicum-rischiano-di-azzoppare-la-democrazia/