Un NO per restituire la Costituzione ai cittadini, di Nicolino Corrado
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Con grande risonanza su giornali e televisioni, Matteo Renzi ha lanciato la campagna elettorale per il referendum del prossimo autunno sulle modifiche alla Costituzione approvate dal Parlamento su iniziativa del governo.
A dire il vero, il dibattito si è animato solo all’interno di quel segmento della società composto da addetti ai lavori e da cittadini attenti alla vita politica. La grande massa dei cittadini, pressata da problemi più impellenti, come far quadrare il bilancio di fine mese o trovare un lavoro per i figli, non riesce a cogliere l’importanza della consultazione referendaria; per il popolo il referendum è qualcosa di astruso, un argomento denso di tecnicismi giuridici sul quale esprimono la loro opinione i vari esponenti politici nelle abituali comparsate nei telegiornali e nei talk-show.
Gli ambienti governativi hanno imposto al Parlamento, a colpi di ariete, il proprio progetto di riforma, ignorando l’ ammonimento che Piero Calamandrei, uno dei più autorevoli padri costituenti, lanciava nel 1947, durante i lavori dell’Assemblea Costituente:
“… nella preparazione della Costituzione il governo non ha alcuna ingerenza: il governo può esercitare per delega il potere legislativo ordinario, ma, nel campo del potere costituente, non può avere alcuna iniziativa neanche preparatoria. Quando l’assemblea discuterà pubblicamente la nuova Costituzione, i banchi del governo dovranno essere vuoti; estraneo del pari deve rimanere il governo alla formulazione del progetto, se si vuole che questo scaturisca interamente dalla libera determinazione dell’assemblea sovrana.”
Ammonimento valido ancora oggi, in quanto il Parlamento, in sede di revisione costituzionale, è ancora in possesso di un frammento di quell’originario potere costituente. Quindi, bene avrebbe fatto il governo ad astenersi dal prendere iniziative così estese e profonde in materia costituzionale, e ancor meglio avrebbero fatto le forze politiche a rimettere tutto il pacchetto di modifiche costituzionali ad un’assemblea costituente, come quella del 1946, eletta con il sistema proporzionale e, quindi, rappresentativa al massimo delle opinioni presenti nella società, come ripete da anni un “grande vecchio” della Repubblica, il senatore Rino Formica.
Invece, il governo ha cercato di accattivarsi, a priori e in blocco, la fiducia dell’opinione pubblica sulla riforma lanciando slogan efficientisti (“Le leggi verranno approvate solo dalla Camera dei Deputati”, “Il procedimento legislativo sarà velocizzato”) o ammiccanti verso gli umori dell’anti-politica (“Diminuirà il numero di coloro che vivono di politica”, “Si avranno risparmi sulla spesa pubblica”), e deviando l’attenzione dai contenuti specifici e dalle loro conseguenze una volta operanti.
Questa baldanza appare fuori luogo quando si pensi che la riforma è stata approvata da un Parlamento composto da designati dai vertici di partito, da un Parlamento formato in base ad una legge elettorale, cioè quella legge che lega il rappresentato al rappresentante, quella legge che più di ogni altra caratterizza la vita democratica e la capacità di garantire la continuità degli organi costituzionali, che è stata dichiarata incostituzionale (il famigerato Italicum). Anzi, secondo la maggior parte dei costituzionalisti, lo stesso Parlamento, che tra l’altro rappresenta poco più della metà del corpo elettorale, manca di quella legittimazione, derivante dal rispetto dei principi costituzionali, necessaria per modificare la “norma fondamentale”, il patto che lega tutti i cittadini.
Altro aspetto critico, l’esecutivo, uscito vincente dal doppio voto parlamentare sulla riforma, ma senza la maggioranza dei due terzi nella seconda votazione, ha snaturato la funzione del referendum confermativo con funzione oppositiva previsto dall’art. 138 della Costituzione. Questa norma, infatti, è prevista a garanzia delle forze contrarie al progetto di revisione costituzionale che, battute in Parlamento, vogliano appellarsi al corpo elettorale per ribaltare la decisione presa. Ma in questo caso sono stati i partiti governativi, con l’appoggio di Confindustria, CISL e altre organizzazioni di categorie professionali, a promuovere la raccolta delle 500.000 firme necessarie per la richiesta del referendum, con l’intento di ottenere una ratifica popolare che sanasse la mancanza di legittimazione del Parlamento e attuando così una torsione dell’istituto giuridico in senso plebiscitario.
Ed a togliere gli ultimi dubbi sul fatto che ci troviamo di fronte ad un qualcosa che formalmente è un referendum, ma di fatto è un plebiscito sia sul futuro ordinamento dello Stato, sia sulla persona dell’attuale Presidente del Consiglio, ci ha pensato lo stesso Renzi annunciando che in caso di sconfitta, si ritirerà dalla vita politica.
Quindi, i cittadini mai come in questa occasione farebbero bene ad interessarsi del referendum, e non solo perché l’espressione del diritto di voto dovrebbe essere meditata in ogni occasione, ma anche perché questa volta la riforma in gioco ha una forza d’urto in grado di scardinare gli equilibri tra organi e poteri dello Stato per come li abbiamo conosciuti finora, e tale da ridurre ai minimi termini la partecipazione dei cittadini alla vita dello Stato: in caso di vittoria del SI si avrebbe un accentramento di potere nel capo del governo ed un simmetrico allontanamento di settori di società dallo Stato, aumentando il distacco dalle istituzioni e ingrossando le fila dei movimenti a base populista.
Infatti, la filosofia che pervade il progetto di riforma è quella della verticalizzazione del potere, riscontrabile nel superamento del bicameralismo paritario attraverso una camera elettiva con pieni poteri legislativi formata, grazie alla vigente legge elettorale (Italicum), dai nominati dei vertici dei simulacri di partito di questo periodo storico e un Senato delle autonomie composto da consiglieri regionali e sindaci che risponderebbero non ai territori di riferimento, ma ai vertici politici che li hanno indicati. Una riforma del bicameralismo paritario é necessaria, ma é ancor più necessario evitare, in materia di riforme costituzionali, una eccessiva fretta ritornando al metodo di riflessione e di confronto che contraddistinse il lavoro dell’Assemblea Costituente.
Gli stessi istituti di democrazia diretta vengono piegati a questa logica: se le firme raccolte per il referendum abrogativo saranno 800.000, invece delle 500.000 richieste perché la proposta venga presa in esame, il quorum verrà abbassato e per approvare o respingere la proposta di abrogazione basterà che si raggiunga il 50% più uno dei votanti e non che si rechino alle urne il 50% più uno degli aventi diritto. Con questa “correzione” si vogliono favorire le minoranze più forti e non le maggioranze effettive nel Paese (come si è già fatto con l’Italicum). E diventerà più difficile proporre una legge d’iniziativa popolare: attualmente, per proporre una legge d’iniziativa popolare sono sufficienti 50.000 firme, mentre con la riforma saranno necessarie 150.000 mila firme, cioé il triplo.
Si vuole instaurare un rapporto diretto tra capo del governo e cittadini, unidirezionale, dall’alto verso il basso, utilizzando i media e internet, tagliando fuori i corpi intermedi istituzionali e associativi tra lo Stato e i cittadini (enti locali, sindacati, associazioni di categoria), in modo tale da produrre in tutti i campi una legislazione non rispondente ai bisogni del Paese, ma a quelli delle lobbies che sostengono il Presidente del Consiglio. Così, i meccanismi reali con i quali opera il potere verrebbero resi invisibili ai cittadini, allo scopo di garantire piena libertà d’azione (anche illegale) al complesso di gruppi e conventicole che dirige di fatto il Paese. Ma tutta questa opacità va a ledere uno dei principi fondamentali della democrazia, quello di trasparenza che, come diceva Norberto Bobbio, significa visibilità, conoscibilità, accessibilità, e quindi controllabilità degli atti di chi detiene il potere pubblico: perché senza quella visibilità, senza quelle informazioni, i cittadini vengono privati dell’unica arma che hanno per sanzionare l’operato del governo, il voto.
Per Bobbio, la persistenza delle oligarchie rappresentava il tradimento della democrazia, “una promessa non mantenuta della democrazia”. La perpetuazione del potere in mano a ristrette èlites, associata alla sua invisibilità, ha come effetto quello di ridurre le forme democratiche a mera rappresentazione esteriore, a copertura di un potere che agisce nell’ombra.
Ecco il punto essenziale in discussione con il referendum: con la riforma della Costituzione voluta da Renzi l’opinione pubblica diventa inerme, i cittadini tornano ad essere sudditi.
Nicolino Corrado
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