Mese: settembre 2016

La democrazia dell’Assemblea Costituente e una legge elettorale efficace (pensiero e politica nel primo Francesco De Martino), di Marco Zanier

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Io credo che parlare di Assemblea Costituente, anche in campo socialista, senza citare chiaramente le idee degli uomini e delle donne che ne hanno fatto parte non sia corretto.

Dico questo perché durante il periodo compreso tra il 25 giugno 1946 ed il 31 gennaio 1948 a discutere, ragionare e materialmente scrivere la nostra Costituzione c’erano delle persone reali, con idee ed impostazioni differenti, ma con un passato condiviso : la lotta clandestina contro il fascismo e gli occupanti tedeschi, combattuta a lungo con le armi e con le idee da fronti politici diversi uniti da una grande voglia di libertà.

Tenere conto di tutte le istanze che vennero portate avanti dalle componenti politiche più differenti ma ugualmente vincitrici del conflitto contro il regime e quindi in grado di sedersi assieme per decidere su quali basi e con quale impostazione organizzare la struttura fondamentale del nostro Stato è un lavoro complesso, enorme, se preso nella sua interezza. Ci si sono impegnate con ottimi risultati menti più duttili e sicuramente più preparate della mia. Non credo sia utile tentare di ricostruirlo in questa sede. Al contrario, penso che possa essere ancora di qualche interesse e certamente di grande attualità riannodare in parte il filo dei ragionamenti che portarono alcuni esponenti di una parte della sinistra, quella che poi contribuì a rimettere in piedi il Partito socialista italiano, ed in particolare di quello che ne sarebbe divenuto presto un protagonista importante e più tardi per tre volte il segretario, dopo aver guidato a lungo il partito al fianco di Nenni: sto parlando di Francesco De Martino.

Nato a Napoli il 31 maggio 1907 da una famiglia della media borghesia, dopo aver frequentato l’Università Federico II di quella città nella Facoltà di Giurisprudenza, in cui insegnava anche Arturo Labriola, esservisi laureato nel 1933 ed essere diventato professore ordinario nel 1941, venendo poi chiamato dall’Università di Bari a ricoprire la cattedra di Storia del diritto romano, Francesco De Martino nel 1943 si era iscritto al Partito d’Azione. L’anno successivo, dopo la liberazione di Napoli, si era schierato all’interno della componente di ispirazione socialista, che aveva in Emilio Lussu il suo principale esponente. Come membro autorevole della corrente di sinistra, in contrasto con la parte più moderata capeggiata da Ugo La Malfa e Adolfo Omodeo, aveva partecipato attivamente al dibattito interno e al congresso di Cosenza nell’agosto di quell’anno, presentando assieme ad Emilio Lussu un ordine del giorno, approvato a larga maggioranza dai delegati, contribuendo alla affermazione di una linea politica più marcatamente socialista ed entrando a far parte dell’esecutivo nazionale. Nel Partito d’Azione sarebbe restato fino al suo scioglimento, confluendo, nel 1947, nel Partito socialista italiano, aderendo alla corrente di Lelio Basso, eletto segretario dopo la scissione socialdemocratica di Palazzo Barberini voluta da Giuseppe Saragat.

È con questa impostazione e queste premesse che Francesco De Martino,che non era ancora eletto in Parlamento (vi entrerà nel 1948 e vi resterà fino al 1983), contribuisce, dall’interno del Partito d’Azione, con proposte ed articoli pubblicati sul giornale di riferimento “L’Azione”, a stimolare alcuni temi oggetto dei lavori dell’Assemblea Costituente, elaborando un suo percorso, a mio avviso interessante, da cui si può capire molto del suo socialismo degli anni seguenti.

Le scelte del giovane Francesco De Martino

Per capire meglio il personaggio ed il contesto politico in cui si trovò ad operare, è utile secondo me, consultare due fonti dirette, vale a dire due testimonianze dello stesso Francesco De Martino rilasciate più tardi in occasione di occasione di studi approfonditi sul Partito d’Azione a Napoli e sul suo ruolo politico in quegli anni. La prima è questa, del 1975:

Nel 1943 chi scrive si era buttato nella lotta politica con l’entusiasmo e la passione di chi per lunghi anni aveva atteso la caduta del fascismo e la restituzione della libertà e nell’insegnamento universitario e nell’attività scientifica aveva trovato una certa tranquillità della coscienza di fronte alla miseria dei tempi. La scelta del P d’A fu una scelta per questa rottura ed anche per qualcosa di nuovo, di diverso dai vecchi partiti, che quasi ragazzi avevamo visto dissolversi nel 1922-25 e che coscientemente o meno ritenevamo responsabili per errori o debolezze della vittoria del fascismo. La questione istituzionale si poneva a noi come un’esigenza morale prima ancora che politica, una necessità della nostra coscienza. […] 1

La seconda è questa, del 1991:

Ma allora perché non eravate andati col Partito socialista? Si potrebbe obiettare. Perché non ci credevamo, perché credevamo che il Partito socialista fosse il responsabile o uno dei responsabili degli errori compiuti all’avvento del Fascismo e anche perché, come partito, non singole personalità attive nella lotta, era stato assente in Italia durante il periodo clandestino. Per queste ragioni, cercavamo qualcosa di nuovo: perciò molti intellettuali e non, me compreso, che si sentivano tendenzialmente socialisti, scelsero il Partito d’azione e non il Partito socialista. Errore grave di analisi e valutazione, perché evidentemente non avevamo valutato un altro elemento che non dovrebbe essere assente in nessuna ricerca storico-politica, cioè la grande forza di una tradizione che spingeva verso il Partito socialista un’infinità di persone che non aveva saputo niente della politica perché nata e vissuta sotto il Fascismo, ma aveva sentito dai padri, dagli antenati, vagamente parlare di questo socialismo e che intravedeva nel socialismo lo strumento per realizzare un’ansia di uguaglianza, di libertà, di progresso. […]2

Insomma il giovane professore universitario e futuro segretario del PSI Francesco De Martino, negli anni dell’Assemblea Costituente era entrato nel Partito d’Azione per creare qualcosa di nuovo e di utile al Paese, non conoscendo la reale portata dell’attrattiva che il socialismo italiano esercitava ancora su tantissime persone e soprattutto, aggiungo, ignorando il grandissimo lavoro politico clandestino che portato avanti negli anni Trenta soprattutto nell’Italia settentrionale dal Centro socialista interno guidato per tanti anni da Rodolfo Morandi e che aveva visto tra le sue fila Lelio Basso, Eugenio Colorni, Lucio Luzzatto ed Eugenio Curiel3.

Una testimonianza autorevole e diretta, la voce narrante di Gaetano Arfé, lo storico più importante del socialismo italiano, ci aiuta disegnare con chiarezza i contorni del socialismo meridionale di quegli anni4:

Il Sud ha conosciuto gli eccidi contadini nell’età giolittiana, ma la violenza squadristica è stata episodica e localizzata e non vi ha creato i fermenti necessari allo sviluppo di una cospirazione potenzialmente di massa, non vi è passata la resistenza. […] Tra le eredità di segno negativo è anche quella che Napoli non è mai stata il centro di irradiazione di idee e di impulsi all’azione in direzione delle altre regioni del Mezzogiorno e della sua stessa provincia. […] Non stupisce perciò che negli anni del fascismo il socialismo sopravviva soltanto in alcune figure di rilievo, tra le quali il salernitano Luigi Cacciatore, prematuramente scomparso, ed il lucano Oreste Lizzadri, operante però a Roma, avranno parte di primo piano nella condotta del partito e del movimento sindacale nei primi anni della repubblica. Noti alla polizia e vigilati, isolati e senza rapporti tra loro, relegati in un ambiente dove il socialismo, come il Cristo di Carlo Levi, fuori che in pochi casi si era fermato alle soglie delle campagne ed era mal penetrato anche nelle città, privi di riferimenti specifici ai temi meridionalistici, nella tradizione socialista, i socialisti meridionale non riescono a costruire l’embrione di un gruppo potenzialmente dotato di un autonomo sviluppo.

Un clima non propizio all’emergere di figure nuove interessate a far rinascere il socialismo nel Meridione, se non fosse che, come spiega ancora Arfé:

Il richiamo al socialismo può essere a questo punto riproposto in una dimensione che travalica i confini politici del partito e quelli geografici del Mezzogiorno. Nel meridionalismo della sinistra confluiscono infatti, in un clima di appassionato impegno, i motivi della antica polemica salveminiana che dall’interno del movimento socialista aveva preso le mosse e quelli maturati nella Torino operaia di Gramsci e di Gobetti, gli studi e le riflessioni del gruppo di giovani comunisti raccolti da Amendola, addottorati più d’uno di essi presso la facoltà di Agraria di Portici, e le esperienze nazionali e internazionali di rivoluzionari professionali quali Di Vittorio e Grieco.

Quindi se non nel Partito socialista (poco radicato nel Meridione e senza i fermenti necessari che portarono il Settentrione alla Resistenza) ma dall’interno del Partito d’Azione stando bene attento all’attrattiva forte che esercitava il socialismo su moltissime persone, se non nel clima culturale assonnato della sua Napoli ma nel meridionalismo della sinistra, inteso anche in chiave gramsciana, con lo sguardo rivolto a quello che si muoveva a sinistra nel Sud del Paese, di cosa parlava il giovane Francesco De Martino negli anni cruciali che vanno dall’armistizio alla caduta del fascismo? Guardava alla necessaria fondazione della Repubblica italiana, come uomo di sinistra sempre più vicino al socialismo, consapevole dei problemi seri e complessi che bisognava impostare e risolvere. Così affrontava in quegli anni la responsabilità di porre i problemi più importanti del nuovo Stato italiano in costruzione, magari per poterlo governare quanto prima insieme alle altre forze della sinistra.

Il ruolo dell’Assemblea Costituente

In pratica, il tema fondamentale di quegli ani non era il meridionalismo, ma era la Repubblica e per la Repubblica ci si batteva, oltre che nelle questioni interne per la definizione del partito5.

È con questo spirito che guardava all’Assemblea Costituente. Ma questa cos’era esattamente? Una definizione efficace ce la fornisce proprio lui nel 19456:

L’Assemblea costituente è un organo sovrano, al quale il popolo conferisce, per mezzo delle elezioni, i più ampi poteri rispetto alla formazione del nuovo Stato italiano. Non si può porre alcun limite preventivo a quest’organo: il potere di sovranità ad esso conferito è illimitato per sua natura ed essenza. Esso è molto più vasto dei poteri di un qualunque capo di stato, perché questo è sottoposto a leggi preesistenti mentre la Costituente non è sottoposta a nessuna legge costituzionale, in quanto essa è la fonte delle leggi costituzionali. […] Com’è ovvio, la posizione sovrana dell’assemblea costituente non può confondersi con quella di un qualunque organo dispotico, perché essa deriva i suoi poteri dal popolo, convocato da liberi comizi, è destinata ad una vita del tutto tranquilla e di breve durata, è composta dai rappresentanti di tutti i partiti, e garantisce ad essi il pieno rispetto del metodo democratico.

L’Assemblea Costituente era stata creata per dare vita alla Carta fondamentale dello Stato italiano ed aveva poteri superiori a qualsivoglia governo perché il suo mandato derivava dal popolo e si esprimeva attraverso il confronto democratico dei rappresentanti di tutti i partiti. Una precisazione che oggi, in tempi di riscrittura e stravolgimento dell’impianto complessivo della Costituzione da parte della sola maggioranza di governo risulta ancora molto molto utile ed attuale.

La ricerca di una legge elettorale efficace

L’altro tema da chiarire oggi, sfogliando le carte del Francesco De Martino non membro della Costituente ma del Partito d’Azione napoletano, è quali problemi si ponesse nell’affrontare la creazione di una legge elettorale giusta ed efficace. Molto utile, a questo fine, è continuare la lettura di quello stesso articolo:

È noto che, a grandi linee, i sistemi elettorali possono dividersi in due categorie: quelli che lasciano le minoranze senza tutela e quelli che ad esse riconoscono una rappresentanza più o meno adeguata alla loro entità. I primi hanno il vantaggio di permettere quasi sempre la formazione di maggioranze compatte ed omogenee, le quali nelle democrazie parlamentari possono esprimere governi forti ed autorevoli. Ma essi hanno il grave difetto di opprimere le minoranze e di trasformarsi in veri e propri strumenti di potere egemonico e dispotico del partito più forte, con il pericolo implicito di spingere le minoranze sul terreno della lotta illegale e rivoluzionaria. I secondi hanno vantaggi e vizi precisamente opposti. Essi assicurano una larga tutela alle minoranze, creano una rappresentanza politica che rispecchia fedelmente le divisioni del paese e consolidano il gioco normale della democrazia, che consiste nel perenne alternarsi delle varie correnti politiche al potere. Ma, soprattutto in paesi dove mancano grandi partiti politici con ricche esperienze e solide tradizioni, quei sistemi producono il frazionamento dei gruppi parlamentari, donde consegue la necessità di governo di coalizione, con tutti i mali connessi alle coalizioni politiche, vale a dire debolezza del potere centrale, tendenza piuttosto all’accordo sul non fare che all’accordo sul fare, soprattutto frequenti e lunghe crisi di governo.

Ma allora se i sistemi elettorali che non tutelano le minoranze, che danno via a governi forti, non vanno bene perché spingono implicitamente le minoranze alla lotta illegale ed alla prassi rivoluzionaria, se quelli che tutelano di più le minoranze non vanno bene perché danno vita ad esecutivi deboli, all’alternarsi di differenti correnti politiche al potere e spesso basati sull’accordo sul non fare tipico delle coalizioni, cosa aveva in testa nell’immediato secondo dopoguerra e cosa proponeva all’attenzione dei lettori de «L’Azione» ?

Un’ approfondimento di questi limiti lo troviamo in un altro suo intervento, un inedito non concluso, datato 1946, che è un lungo e articolato ragionamento sui molti aspetti che doveva, secondo lui, risolvere in tempi brevi l’Assemblea Costituente7:

Ma il problema della rappresentanza non è autonomo. Esso va collegato con l’altro problema, non meno importante e fondamentale, della costruzione degli organi dell’esecutivo. L’esperienza storica ci ha insegnato che questi due problemi richiedono il più delle volte soluzioni contrastanti. Più fedele è la rappresentanza e più è difficile creare un governo che sia unito nella volontà di realizzare una politica omogenea. Nella migliore delle ipotesi il governo sarà paralizzato da forze antitetiche, che non riescono ad intendersi su di un minimo di azione collettiva. La grande crisi italiana, che aprì la strada al fascismo nel 1922, fu anche la crisi di un esecutivo debole e paralizzato dalla mancanza di omogeneità. […] Non credo sia il caso di fermarsi nel collegio uninominale. Esso è condannato nella coscienza civile del nostro paese da una lunga esperienza negativa. Indubbiamente attraverso quel sistema si affermarono forti personalità di politici e di statisti, sia in campo conservatore che in campo democratico. Ma si affermarono anche interessi particolaristici, clientele, grossi personalismi che furono causa di corruzione del metodo liberale e fecero degenerare il parlamento.

Ed in questo stesso intervento, poco più avanti, troviamo alcune risposte ai dubbi che ci sono sorti leggendo:

Si potrebbe altresì stabilire un limite al potere dell’assemblea di porre il governo in minoranza, richiedendo maggioranze qualificate e vietando che si abusi delle questioni di fiducia nei dibattiti secondari. […] tutte le minoranze devono essere rappresentate, ma il partito più forte deve essere in grado di governare da solo cioè di avere un numero di seggi che gli permetta di assicurarsi una maggioranza nell’ assemblea.

Rispetto delle differenti opinioni espresse dal voto popolare, rappresentazione di tutte le minoranze in Parlamento, ricerca di un meccanismo che consenta con chiarezza la governabilità del Paese al partito più forte uscito dalle urne. Questi i problemi sul piatto messi da De Martino nel 1945 e 1946.

Su questi temi ritornerà più tardi, negli anni dei governi di centro-sinistra, nel 35° Congresso del PSI del 19638, poco prima di essere nominato Segretario del Partito9:

Esiste, certo, in tutti i paesi d’Europa un problema di efficienza del potere legislativo. Le misure di massima che vengono indicate, non sono rivolte ad accrescere il potere del Parlamento, ma se mai – e questo si potrà constatare nel corso dell’azione legislativa – si risolvono nel liberare il Parlamento di cose secondarie e minute, per riservargli grandi compiti che gli sono propri, in una fase in cui si affronta per la prima volta una esperienza di programmazione economica.

Quindi è impostando la grande opera riformatrice del governo Moro, il primo che vedeva la partecipazione dei socialisti al potere accanto ai democristiani e l’inizio della fondamentale stagione del centro-sinistra che avrebbe ridisegnato con Tristano Codignola il profilo della scuola media pubblica e sancito i diritti fondamentali di tutti i lavoratori nello Statuto voluto da Giacomo Brodolini, che l’allora vice- segretario del PSI Francesco De Martino si poneva il problema di accrescere il potere del Parlamento per impostare coerentemente la programmazione economica. Esattamente l’opposto di quello che sta facendo oggi il governo Renzi con riforme contro gli interessi della scuola pubblica e contro gli interessi della grande massa dei lavoratori che si sono visti mutilare i loro diritti da leggi approvate a colpi di maggioranza ottenuta con la fiducia imposta dal governo al Parlamento su un programma di fatto conservatore portato avanti da un partito fintamente democratico coi voti determinanti di elementi di centro-destra.

La scelta obbligata dei socialisti oggi

Oggi gli italiani sono chiamati a decidere nel Referendum costituzionale del 4 dicembre se scardinare, votando SI, l’equilibrio costituzione garantito dai pesi e i contrappesi accuratamente elaborati dall’Assemblea Costituente o difendere questi delicati equilibri che permettono il rispetto del gioco democratico e il pluralismo, votando NO. I socialisti come noi non possono avere dubbi: dobbiamo votare e far votare NO.

Lo dobbiamo alla nostra lunga storia che va da Filippo Turati a Rodolfo Morandi, da Lelio Basso a Francesco De Martino, da Giacomo Brodolini a Tristano Codignola, da Riccardo Lombardi a Vittorio Foa. Lo dobbiamo al nostro essere stati la prima forza della sinistra nata in Italia più di centoventi anni fa ed aver voluto ricostruire l’unità del movimento operaio elaborando e praticando un’alternativa credibile al governo dei poteri forti e degli interessi dei pochi contro le necessità della maggioranza che lavora con fatica sperando di avere un giorno una vita migliore.

Lo dobbiamo a Francesco De Martino, che ancora nel 1988 ricordando l’amico e compagno di strada Giacomo Brodolini10 e i governi di centro-sinistra, condannava la tentazione della scorciatoia autoritaria:

Allora vuol dire che se c’è una volontà politica, se vi sono degli uomini impegnati che credono in certe cose non è detto che il sistema parlamentare debba essere lento ed inefficiente; lo diviene se non c’è omogeneità, se non vi è intesa, se manca una seria volontà politica di affrontare insieme i problemi del paese. Certo un regime autoritario non ha i freni della democrazia ed i ritardi che essi comportano, ma può condurre a grandi catastrofi per decisioni prese da una sola persona, come l’esperienza insegna.

Marco Zanier

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1 Dalla sua prefazione al libro di Antonio Alosco «Il partito d’azione a Napoli», Guida editore, Napoli 1975 (pp. 7- 8)

2 Dal suo intervento in «La sinistra meridionale nel secondo dopoguerra (1943-54) Giornate in onore di Francesco De Martino», Istituto socialista di studi storici, Firenze 1991 (pp. 115-116)

3 Un lavoro coraggioso sul campo, in contatto con le fabbriche in tempi difficilissimi sotto lo stretto controllo della polizia politica fascista che proprio con quel centro clandestino si accanì più volte incarcerando i suoi dirigenti più volte e stroncando la rete di collegamenti creata per anni faticosamente, ma un lavoro che il giovane Francesco De Martino, attivo ed operante nel meridione non poteva conoscere nel 1943, dato che era ancora in piedi il regime fascista e la sua terribile censura e dato che Rodolfo Morandi era in carcere dal 1937, proprio per aver organizzato la rete politica clandestina socialista in Italia dopo il fallimento di Giustizia e Libertà. Ne ricorderà però la figura molti anni dopo, nel 1980, in un memorabile discorso, facendo luce su tanti aspetti importanti della sua vita politica

4 Dall’intervento di Gaetano Arfé nel già citato «La sinistra meridionale nel secondo dopoguerra (1943-54) Giornate in onore di Francesco De Martino» (pp. 1-8)

5 Sono le parole di Francesco De Martino, riferite al Partito d’Azione, nal suo intervento nel già citato «La sinistra meridionale nel secondo dopoguerra (1943-54) Giornate in onore di Francesco De Martino» (p. 116)

6 «I problemi della costituente», pubblicato su «L’Azione» il 3 e il 10 agosto 1945, ora in Francesco De Martino, «La mia militanza nel Partito d’Azione (1943-1947» a cura e con introduzione di Antonio Alosco, Piero Lacaita editore, Manduria- Bari- Roma, 2003 (pp. 124-132)

7 «La Costituzione di uno Stato moderno», in Francesco De Martino «La mia militanza nel Partito d’Azione (1943-1947)», cit. pp. 181-186

8 Dal suo intervento al 35° Congresso Nazionale del PSI – Roma 25- 29 ottobre 1963, pubblicato in «Francesco De Martino Scritti politici (1943- 1963) Vol. I», a cura di Antonio Alosco e Carmine Cimmino, Guida editori, Napoli 1982 (p. 262)

9 Nell’utilissima cronologia «Cento anni del Partito Socialista Italiano» di Franco Pedone con prefazione di Gaetano Arfé, pubblicato da Teti Editore nel 1993 si legge in proposito alla data del 12 dicembre 1963: La Direzione del Partito socialista nomina F. De Martino segretario del Partito, G. Brodolini vice-segretario e R. Lombardi direttore dell’«Avanti!» (p.212)

10 Dalla commemorazione di Giacomo Brodolini tenuta il 30 aprile 1988 da Francesco De Martino, nell’Aula Magna del Comune di Recanati su invito della Fondazione Brodolini, ora in «Socialisti e comunisti nell’Italia repubblicana», a cura di Chiara Giorgi con presentazione di Gaetano Arfé, La Nuova Italia, 2000 (pp. 137-158)

La grande riforma di Craxi non c’entra nulla con la deforma Boschi, di Luciano Belli Paci

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Il dibattito sul referendum costituzionale del prossimo autunno è accompagnato dalla pubblicazione di numerosi saggi nei quali si ricostruisce la storia dei ripetuti tentativi di riformare la nostra Costituzione che, nel corso dei decenni e con alterne fortune, hanno visto impegnati esponenti politici, commissioni bicamerali e governi.
Tra i più recenti è il caso di menzionare il libro di Nadia Urbinati e David Ragazzoni “La vera Seconda Repubblica – l’ideologia e la macchina” e quello di Antonio Ingroia “Dalla parte della Costituzione – da Gelli a Renzi: quarant’anni di attacco alla Costituzione”.
Ho l’impressione che nessuno di questi autori si sottragga al vizio di inserire Craxi e la sua idea di Grande Riforma dello Stato in un indistinto calderone con tutti gli altri che nei decenni hanno mirato a stravolgere la nostra Carta fondamentale e questo mi induce, da socialista impegnato per il No alla deforma Renzi-Boschi, a proporre qualche considerazione critica.
Se si vuole evitare di fare di tutte le erbe un fascio, di appiattire disegni molto diversi tra loro in un coacervo senza tempo, nella classica notte in cui tutte le vacche sono nere, occorre tracciare alcune nette linee di demarcazione.
La prima è di carattere storico, giacché il diverso contesto politico nel quale le proposte di riforma si sono via via inserite è di decisiva importanza.
Fino alla caduta del muro di Berlino la nostra democrazia ha vissuto in una condizione patologica. Eravamo una democrazia bloccata perché, essendo l’opposizione di sinistra egemonizzata dal più grande partito comunista dell’occidente, non è mai stata possibile quella fisiologica alternanza tra diverse coalizioni di governo che invece altrove era la regola. Questo ha fatto sì che durante tutto il corso della cosiddetta Prima Repubblica vi fosse un gruppo di partiti permanentemente al potere, la Dc ed i suoi alleati, e che di conseguenza si creasse quella commistione insana tra partiti ed amministrazione pubblica che è stata chiamata partitocrazia. Anche la cronica instabilità dei governi di quell’epoca deriva principalmente dalla stessa patologia, visto che le normali fibrillazioni prodotte dalla dialettica politica, non potendo mai trovare sfogo in una vera alternanza, si traducevano in crisi governative foriere ogni volta di balletti di poltrone e limitati aggiustamenti programmatici, ma nell’ambito di una stabilità sostanziale tale da rasentare il rigor mortis.
L’idea di Craxi, peraltro rimasta a livello di ipotesi politica e mai trasfusa in definite proposte di revisione costituzionale, era quella che per forzare questa situazione di paralisi di cui all’epoca – si parla del 1979 ! – nessuno vedeva la fine potesse servire una riforma del sistema politico tale da imporre una competizione tra proposte di governo (e non solo tra singoli partiti come accadeva allora) e così stimolare una vera alternanza, una democrazia compiuta. Il sistema semipresidenziale francese, che proprio in quegli anni vedeva l’impetuosa crescita del partito socialista e del suo leader Mitterrand (che nel 1981 sarebbe stato eletto per la prima volta presidente), pareva il modello più adatto allo scopo.
È innegabile che dentro questa riflessione vi fosse anche un calcolo di parte perché solo un netto cambiamento dei rapporti di forza tra comunisti e socialisti avrebbe potuto consentire, proprio come stava accadendo in Francia, di rendere rassicurante e dunque competitiva una coalizione di sinistra; però la diagnosi del male italiano e la strategia per curarlo erano corrette.
Di tutt’altro segno sono i progetti di “Grande Riforma” che hanno accompagnato la nascita e poi il corso della cosiddetta Seconda Repubblica. Essi non hanno avuto più lo scopo di creare le condizioni dell’alternanza, che dopo la fine della guerra fredda e la trasformazione del Pci erano ormai acquisite, bensì quello di produrre un prosciugamento della democrazia, attraverso la trasformazione dei partiti in ectoplasmi, la personalizzazione forsennata della politica, lo svuotamento del parlamento e delle assemblee politiche locali, la concentrazione illimitata del potere negli esecutivi, la sterilizzazione della sovranità popolare attraverso leggi elettorali incostituzionali che stravolgono il principio di rappresentanza.
La seconda linea di demarcazione riguarda il merito dei disegni riformatori. Altro è delineare a viso aperto una riforma in senso presidenziale, riprendendo proposte che furono avanzate all’assemblea costituente da personaggi del calibro di Piero Calamandrei e Leo Valiani e che comprenderebbero sia nel modello statunitense sia in quello semipresidenziale francese tutti i pesi e contrappesi del caso, e altro è tentare di introdurre surrettiziamente adulterazioni del nostro modello costituzionale attraverso forme di premierato assoluto instaurate de facto da inediti e selvaggi meccanismi ultramaggioritari.
Quest’ultima tendenza, che è davvero eversiva sia nei metodi sia negli obiettivi, raggiunge l’apoteosi nella Grande Riforma prodotta dal governo Renzi e sulla quale saremo chiamati, prima o poi, ad esprimerci nel referendum. In essa, alcune mirate manomissioni della funzione legislativa, presentate come innocenti razionalizzazioni a fini di efficienza e risparmio, sono funzionali al solo scopo reale di portare a compimento lo stravolgimento della democrazia parlamentare innescato dall’Italicum, senza ahinoi portarci al vero presidenzialismo con la sua accurata separazione dei poteri.
No, obiettivamente Craxi non merita di essere annoverato tra i progenitori di questo scempio.

Luciano Belli Paci

Perché bisogna votare NO, di Giovanni Scirocco

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L’amico Giuseppe Scirocco ci ha inviato questo contributo in risposta all’intervista di Giuliano Pisapia dei giorni scorsi.

Il manifesto dei 56 costituzionalisti per il no (aprile 2016) inizia così (a proposito di pregiudizi…): Di fronte alla prospettiva che la legge costituzionale di riforma della Costituzione sia sottoposta a referendum nel prossimo autunno, i sottoscritti, docenti, studiosi e studiose di diritto costituzionale, ritengono doveroso esprimere alcune valutazioni critiche.

Non siamo fra coloro che indicano questa riforma come l’anticamera di uno stravolgimento totale dei principi della nostra Costituzione e di una sorta di nuovo autoritarismo.
E poi prosegue

Siamo però preoccupati che un processo di riforma, pur originato da condivisibili intenti di miglioramento della funzionalità delle nostre istituzioni, si sia tradotto infine, per i contenuti ad esso dati e per le modalità del suo esame e della sua approvazione parlamentare, nonché della sua presentazione al pubblico in vista del voto popolare, in una potenziale fonte di nuove disfunzioni del sistema istituzionale e nell’appannamento di alcuni dei criteri portanti dell’impianto e dello spirito della Costituzione.

  1. Siamo anzitutto preoccupati per il fatto che il testo della riforma – ascritto ad una iniziativa del Governo – si presenti ora come risultato raggiunto da una maggioranza (peraltro variabile e ondeggiante) prevalsa nel voto parlamentare («abbiamo i numeri») anziché come frutto di un consenso maturato fra le forze politiche; e che ora addirittura la sua approvazione referendaria sia presentata agli elettori come decisione determinante ai fini della permanenza o meno in carica di un Governo. La Costituzione, e così la sua riforma, sono e debbono essere patrimonio comune il più possibile condiviso, non espressione di un indirizzo di Governo e risultato del prevalere contingente di alcune forze politiche su altre. La Costituzione non è una legge qualsiasi, che persegue obiettivi politici contingenti, legittimamente voluti dalla maggioranza del momento, ma esprime le basi comuni della convivenza civile e politica. È indubbiamente un prodotto “politico”, ma non della politica contingente, basata sullo scontro senza quartiere fra maggioranza e opposizioni del momento. Ecco perché anche il modo in cui si giunge ad una riforma investe la stessa “credibilità” della Carta costituzionale e quindi la sua efficacia. Già nel 2001 la riforma del titolo V, approvata in Parlamento con una ristretta maggioranza, e pur avallata dal successivo referendum, è stato un errore da molte parti riconosciuto, e si è dimostrata più fonte di conflitti che di reale miglioramento delle istituzioni.
  2. Nel merito, riteniamo che l’obiettivo, pur largamente condiviso e condivisibile, di un superamento del cosiddetto bicameralismo perfetto (al quale peraltro sarebbe improprio addebitare la causa principale delle disfunzioni osservate nel nostro sistema istituzionale), e dell’attribuzione alla sola Camera dei deputati del compito di dare o revocare la fiducia al Governo, sia stato perseguito in modo incoerente e sbagliato. Invece di dare vita ad una seconda Camera che sia reale espressione delle istituzioni regionali, dotata dei poteri necessari per realizzare un vero dialogo e confronto fra rappresentanza nazionale e rappresentanze regionali sui temi che le coinvolgono, si è configurato un Senato estremamente indebolito, privo delle funzioni essenziali per realizzare un vero regionalismo cooperativo: esso non avrebbe infatti poteri effettivi nella approvazione di molte delle leggi più rilevanti per l’assetto regionalistico, né funzioni che ne facciano un valido strumento di concertazione fra Stato e Regioni. In esso non si esprimerebbero le Regioni in quanto tali, ma rappresentanze locali inevitabilmente articolate in base ad appartenenze politico-partitiche (alcuni consiglieri regionali eletti – con modalità rinviate peraltro in parte alla legge ordinaria – anche come senatori, che sommerebbero i due ruoli, e in Senato voterebbero ciascuno secondo scelte individuali). Ciò peraltro senza nemmeno riequilibrare dal punto di vista numerico le componenti del Parlamento in seduta comune, che è chiamato ad eleggere organi di garanzia come il Presidente della Repubblica e una parte dell’organo di governo della magistratura: così che queste delicate scelte rischierebbero di ricadere anch’esse nella sfera di influenza dominante del Governo attraverso il controllo della propria maggioranza, specie se il sistema di elezione della Camera fosse improntato (come lo è secondo la legge da poco approvata) a un forte effetto maggioritario.
  1. Ulteriore effetto secondario negativo di questa riforma del bicameralismo appare la configurazione di una pluralità di procedimenti legislativi differenziati a seconda delle diverse modalità di intervento del nuovo Senato (leggi bicamerali, leggi monocamerali ma con possibilità di emendamenti da parte del Senato, differenziate a seconda che tali emendamenti possano essere respinti dalla Camera a maggioranza semplice o a maggioranza assoluta), con rischi di incertezze e conflitti.
  2. L’assetto regionale della Repubblica uscirebbe da questa riforma fortemente indebolito attraverso un riparto di competenze che alle Regioni toglierebbe quasi ogni spazio di competenza legislativa, facendone organismi privi di reale autonomia, e senza garantire adeguatamente i loro poteri e le loro responsabilità anche sul piano finanziario e fiscale (mentre si lascia intatto l’ordinamento delle sole Regioni speciali). Il dichiarato intento di ridurre il contenzioso fra Stato e Regioni viene contraddetto perché non si è preso atto che le radici del contenzioso medesimo non si trovano nei criteri di ripartizione delle competenze per materia – che non possono mai essere separate con un taglio netto – ma piuttosto nella mancanza di una coerente legislazione statale di attuazione: senza dire che il progetto da un lato pretende di eliminare le competenze concorrenti, dall’altro definisce in molte materie una competenza «esclusiva» dello Stato riferita però, ambiguamente, alle sole «disposizioni generali e comuni». Si è rinunciato a costruire strumenti efficienti di cooperazione fra centro e periferia. Invece di limitarsi a correggere alcuni specifici errori della riforma del 2001, promuovendone una migliore attuazione, il nuovo progetto tende sostanzialmente, a soli quindici anni di distanza, a rovesciarne l’impostazione, assumendo obiettivi non solo diversi ma opposti a quelli allora perseguiti di rafforzamento del sistema delle autonomie.
  3. Il progetto è mosso anche dal dichiarato intento (espresso addirittura nel titolo della legge) di contenere i costi di funzionamento delle istituzioni. Ma il buon funzionamento delle istituzioni non è prima di tutto un problema di costi legati al numero di persone investite di cariche pubbliche (costi sui quali invece è giusto intervenire, come solo in parte si è fatto finora, attraverso la legislazione ordinaria), bensì di equilibrio fra organi diversi, e di potenziamento, non di indebolimento, delle rappresentanze elettive. Limitare il numero di senatori a meno di un sesto di quello dei deputati; sopprimere tutte le Province, anche nelle Regioni più grandi, e costruire le Città metropolitane come enti eletti in secondo grado, anziché rivedere e razionalizzare le dimensioni territoriali di tutti gli enti in cui si articola la Repubblica; non prevedere i modi in cui garantire sedi di necessario confronto fra istituzioni politiche e rappresentanze sociali dopo la soppressione del Cnel: questi non sono modi adeguati per garantire la ricchezza e la vitalità del tessuto democratico del paese, e sembrano invece un modo per strizzare l’occhio alle posizioni tese a sfiduciare le forme della politica intesa come luogo di partecipazione dei cittadini all’esercizio dei poteri.
  4. Sarebbe ingiusto disconoscere che nel progetto vi siano anche previsioni normative che meritano di essere guardate con favore: tali la restrizione del potere del Governo di adottare decreti legge, e la contestuale previsione di tempi certi per il voto della Camera sui progetti del Governo che ne caratterizzano l’indirizzo politico; la previsione (che peraltro in alcuni di noi suscita perplessità) della possibilità di sottoporre in via preventiva alla Corte costituzionale le leggi elettorali, così che non si rischi di andare a votare (come è successo nel 2008 e nel 2013) sulla base di una legge incostituzionale; la promessa di una nuova legge costituzionale (rinviata peraltro ad un indeterminato futuro) che preveda referendum propositivi e di indirizzo e altre forme di consultazione popolare.
  5. Tuttavia questi aspetti positivi non sono tali da compensare gli aspetti critici di cui si è detto. Inoltre, se il referendum fosse indetto – come oggi si prevede – su un unico quesito, di approvazione o no dell’intera riforma, l’elettore sarebbe costretto ad un voto unico, su un testo non omogeneo, facendo prevalere, in un senso o nell’altro, ragioni “politiche” estranee al merito della legge. Diversamente avverrebbe se si desse la possibilità di votare separatamente sui singoli grandi temi in esso affrontati (così come se si fosse scomposta la Riforma in più progetti, approvati dal Parlamento separatamente).

 

Per tutti i motivi esposti, pur essendo noi convinti dell’opportunità di interventi riformatori che investano l’attuale bicameralismo e i rapporti fra Stato e Regioni, l’orientamento che esprimiamo è contrario, nel merito, a questo testo di riforma.

Giovanni Scirocco

Una sintesi dell’Appello dei Socialisti del NO alla Sinistra che sbaglia (votando Sì)

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La contro-riforma di Renzi-Boschi: “Torniamo allo Statuto”?

Lo Stato unitario ha avuto due Carte costituzionali: dal 1861 al 1946 lo Statuto Albertino e dal 1947 al 2016 la Costituzione repubblicana.

Lo Statuto Albertino nasce per concessione del Sovrano ed è una costituzione flessibile (flessibile perché può essere modificata con legge ordinaria).

La semplificazione del processo di revisione costituzionale apre la strada a modifiche costituzionali (sia nella parte relativa ai principi fondamentali  sia in quella che disegna l’ordinamento istituzionale) da parte di maggioranze parlamentari senza maggioranza elettorale.

Con la flessibilità è possibile cambiare la forma di Stato democratico in regime autoritario senza il  consenso della maggioranza degli elettori. Con lo Statuto Albertino morì lo Stato liberal-democratico e si impose il fascismo.

 

La Carta repubblicana è una Costituzione rigida.

E’ rigida perché è modificabile attraverso un lungo processo democratico, diretto e indiretto, posto a garanzia dei diritti politici, civili e sociali della comunità).

La rigidità rende difficile la reversibilità delle scelte democratiche.

La contro-riforma di Renzi-Boschi accelera e rende irreversibile l’effetto disastroso della erosione del principio di rigidità costituzionale (principio presente in tutte le costituzioni degli Stati moderni), perché si rifiuta di  affrontare, anzi esaspera, il  tema delle conseguenze prodotte dalle leggi elettorali maggioritarie su le garanzie di revisione costituzionale, e perché subisce passivamente le devastanti invasioni di campo  del vincolo estero nel tessuto unitario della Carta costituzionale tra prima e seconda parte.

Inoltre, la contro-riforma di Renzi-Boschi si muove nel solco insidioso del populismo di Stato: il disprezzo per i partiti,  l’alto costo della politica, la superiorità dell’invisibilità del potere di fronte ai “tempi lunghi” –così spregiativamente definiti- della partecipazione democratica.

 

La proposta riformatrice: un governo di scopo

Dopo la vittoria del NO si dovrà convocare una Assemblea Costituente che deve affrontare i temi cruciali del nostro tempo.

1-Cessione di sovranità nazionali in un nuovo federalismo europeo dei popoli, senza distruggere storia, cultura e religioni.

2-Difesa dei principi fondamentali della nostra Costituzione senza confliggere con i doveri di solidarietà sovranazionali.

3-Riequilibrare  gli strumenti di democrazia diretta con quelli della rappresentanza.

Durante il periodo compreso tra la vittoria del NO e sino all’entrata in vigore della vera riforma costituzionale, il Parlamento potrà rivedere i suoi regolamenti per una semplificazione del processo legislativo e dovrà al più presto varare una legge ordinaria che disponga il referendum consultivo di indirizzo per il governo su tutte le disposizioni comunitarie europee che incidono sui principi costituzionali scritti nella prima parte della Carta Costituzionale.

No alla controcarta costituzionale: appello dei socialisti del NO alla Sinistra che sbaglia, di Rino Formica

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Cari Compagni,

le Costituzioni nascono con le guerre o con le rivoluzioni quando collassa il potere costituito ed un nuovo potere costituente scrive le regole di un ordine politico e sociale diverso. Lo Stato Unitario italiano ha avuto due costituzioni : lo Statuto Albertino e la Costituzione repubblicana. Lo Statuto Albertino fu concesso da Carlo Alberto Savoia il 4 marzo 1848 per il regno di Sardegna e fu esteso al regno d’Italia nel 1861. Lo Statuto nacque perché il “sovrano” aveva paura dei moti popolari che in quegli anni divampavano in Europa ed in Italia. Lo Statuto diventò la Costituzione dello Stato Unitario italiano senza un voto popolare. Lo Statuto Albertino disegnò un regime “monarchico –rappresentativo” ed ebbe la struttura di una Costituzione “flessibile” (flessibile perché modificabile con semplici leggi ordinarie). Fu questa “flessibilità” che permise alla monarchia ed al fascismo di combinare legge elettorale maggioritaria e leggi speciali per disciplinare i contratti collettivi di lavoro, le modifiche dei codici, la costituzionalizzazione del Gran Consiglio del fascismo, l’abolizione del Parlamento, e di trasformare un sistema parlamentare in un regime autoritario a partito unico.

Dallo Statuto alla Costituzione

La Costituzione repubblicana non è figlia di una “concessione” del “sovrano” ma è l’epilogo di una guerra persa e di una rivoluzione civile che divisero il Paese e che si conclusero con il referendum istituzionale e l’elezione dell’Assemblea Costituente. La Repubblica italiana ha un doppio atto di nascita. Vede la luce con il voto popolare referendario netto e semplice: (SI o NO), mentre la definizione dei valori (i fondamentali) ed il suo ordinamento (il bilanciamento dei poteri) è stata opera della mediazione politica dei partiti. Se la Repubblica nasce il 2 giugno 1946 con il voto popolare del referendum istituzionale, la Carta Costituzionale ha il suo voto definitivo il 22 dicembre 1947. 19 mesi sembrano pochi, ma quei 19 mesi segnarono un periodo di straordinari eventi internazionali dovuti alla rottura tra i Paesi alleati vincitori della guerra. Questi eventi aprirono una fase di lacerazioni politiche nei partiti e tra i partiti del Comitato di Liberazione nazionale. La Carta Costituzionale non fu un miracolo caduto dal cielo, fu l’opera di una grande classe dirigente politica uscita dalle sofferenze con onore e forza morale così grandi da poter ottenere un sostegno fiduciario di popolo, illimitato e convinto. Dopo la prima guerra mondiale si affermò la teoria della “non ingerenza” negli assetti politici nazionali ed avemmo il fascismo, il nazismo. Nel ’46-’47 la rottura dell’ alleanza tra USA, Russia e Gran Bretagna, provocò la formazione di due grandi campi d’influenza: il mondo libero ed il socialismo reale che si fronteggiarono con una guerra fredda che sfiorò la guerra calda.

La lezione francese

In Italia i tre grandi partiti di massa (DC, PSI e PCI) capirono la lezione francese del ’45-’46, quando il Partito Socialista francese ed il Partito Comunista francese ruppero con l’MRP (la DC francese) nell’approvazione della Carta Costituzionale. La Costituzione approvata dalla maggioranza di sinistra fu bocciata dal referendum popolare e si dovette dare vita ad una nuova Costituente che il ’46 varò una nuova Costituzione con il voto della sinistra e dei cattolici. Questa doppia Costituente fu la debolezza di sistema che aprì la strada alla Costituzione gollista degli anni ’50.

Nasce il caso italiano

I tre partiti italiani che insieme totalizzavano 436 eletti su 556 scelsero la strada della legalità Costituzionale per la edificazione dello Stato repubblicano. I Costituenti optarono per la forma dello Stato parlamentare e stabilirono che la Carta Costituzionale dovesse essere scritta in modo chiaro e semplice “ tale che tutto il popolo la potesse comprendere”, e che negli articoli della Carta vi fossero “le disposizioni concrete di carattere normative, istituzionali, economiche e sociali”. Queste direttive, (o.d.g. Bozzi) approvate dall’Assemblea, costituirono la vera novità che lega indissolubilmente la prima parte della Costituzione (i principi fondamentali) alla seconda parte (l’ordinamento istituzionale). La nostra Costituzione prevede una forma di Stato ed indica un modello di società fondata su la libertà, l’uguaglianza ed il controllo delle dinamiche economiche che devono essere funzionali alle esigenze sociali.

Le “due parti” della Costituzione

La prima parte della Costituzione non solo elenca i principi da rispettare ma indica anche gli obblighi programmatici da attuare. La seconda parte individua gli organi per bilanciare i poteri e descrive i rigidi processi di garanzia e di revisione costituzionale. In sostanza la prima parte indica il legame tra i sacri principi ed il programma di governo per il lungo periodo necessari a realizzare un nuovo ordine politico e sociale. La seconda parte è funzionale alla prima perché deve garantire che i principi si affermino ed i programmi si realizzino. Elementi essenziali perché l’armonia regga tra la prima e la seconda parte sono: 1-la rigidità dei processi di revisione costituzionale; 2-la assoluta indipendenza dai movimenti politici della magistratura ordinaria e di quella Costituzionale; 3-l’integrazione tra democrazia diretta (referendum) e democrazia indiretta (rappresentanza). Su questi tre punti l’incontro tra le culture politiche della sinistra di classe e quella cattolica democratica, fu sufficiente e seppe reggere all’urto con il moderatismo dichiarato della destra e quello sommerso interno alla DC. Nella prima parte della Costituzione, i Costituenti assegnarono all’Italia un ruolo dinamico con previsione di cessione di sovranità in condizione di reciprocità al fine di raggiungere nel campo internazionale traguardi di pace e di giustizia. Sempre nella prima parte i Costituenti rifiutarono l’ipotesi di uno Stato federale e scelsero la forma di Stato unitario fondato su un forte rispetto delle autonomie locali. Infine, i Costituenti posero a sostegno del principio fondamentale della centralità del lavoro un programma vincolante di politica economica dirigista. Nella Costituzione non sono mai citati il mercato, la concorrenza, ed il profitto. Insomma, la prima parte è costruita su la ricerca di una terza via (è questa, forse, la vera anomalia italiana).

Il sistema delle garanzie

Nella seconda parte della Costituzione che tratta dell’ordinamento repubblicano, i costituenti fissarono le regole per il bilanciamento dei poteri e per la forma di garanzie Costituzionali. Garanti Costituzionali sono: il Parlamento, la Magistratura, la Corte Costituzionale. I vincoli per un corretto funzionamento dei garanti sono: una legge elettorale proporzionale (o.d.g. Giolitti) ed i quorum per l’elezione del Presidente della Repubblica, della Corte Costituzionale, del C.S.M., per le leggi costituzionali e per i Regolamenti della Camera. I nostri Costituenti furono chiamati a scrivere una Costituzione che doveva chiudere una frattura storica. Con la Repubblica entrano nello Stato Unitario, prima liberale e poi autoritario fascista, le masse popolari ed i nuovi ceti sociali che erano stati esclusi nel primo risorgimento. Le divisioni, le riflessioni e le critiche alla nostra Carta cominciarono quando la Costituente era ancora in vita. Le prime riflessioni e le prime modifiche le troviamo già nel passaggio del “progetto” dei “75” al voto in Assemblea plenaria che inizia a marzo del 1947 e cessa a dicembre dello stesso anno. I cambiamenti più significativi sono i seguenti: 1-abolizione dell’art.50 del progetto (diritto alla ribellione contro il potere pubblico che viola la Costituzione). 2-art.70 del progetto modificato (viene introdotto nel processo legislativo la navetta senza fine tra Camera e Senato, nonostante –durante un dibattito assembleare di alto profilo costituzionale- fossero stati proposti e discussi modelli in grado di superare diversità, conflitti, rivalità tra le due Camere; modelli in uso e di sperimentata efficacia in altre realtà di antica democrazia parlamentare. 3-art. 72 del progetto. E’ eliminato l’intervento popolare nel processo legislativo. 4-art.97 del progetto. Viene rovesciata la maggioranza prevista per la elezione del CSM (dalla maggioranza laica si passa alla maggioranza dei togati). 5- art.127 del progetto. La nomina dei giudici costituzionali riduce il potere del Parlamento nella designazione, si passa dal 100% ad un terzo. 6- art.128 del progetto. Il ricorso alla Corte Costituzionale è drasticamente ridotto. Resta solo l’ipotesi del ricorso incidentale in giudizio. 7-art.130 del progetto. Il Governo è escluso dall’iniziativa di revisione costituzionale.

La Costituzione senza popolo

L’approvazione definitiva della Costituzione avvenne il 22 dicembre del 1947 ed entrò in vigore il 1 gennaio del 1948. Non vi furono manifestazioni popolari, ma solo cerimonie burocratiche: i Prefetti consegnarono una copia della Costituzione in “Gazzetta Ufficiale” a tutti i Sindaci. Era cambiato il clima internazionale ed il clima interno. Piero Calamandrei aveva già nel 1947 avvertiti i Costituenti: “La Carta Costituzionale è una Costituzione tripartitica, di compromesso, molto aderente alle contingenze politiche dell’oggi e del prossimo domani: e quindi poco lungimirante”. Tra il ’48 ed il ’53 la Costituzione fu congelata e solo alla fine della 1° legislatura fu varata la legge attuativa della Carta Costituzionale. Già da allora importanti settori della DC e del fronte conservatore erano al lavoro per “avere le mani libere per cambiare la Costituzione” (come ha rivelato recentemente il compagno Macaluso in una recente intervista a “Sette”, raccontando di un incontro riservato tra Scoccimarro e Andreotti al fine di far desistere il presidente De Gasperi dal mantenere un alto premio di maggioranza nella “legge truffa” del 1953). Con il centro-sinistra Moro-Nenni e con i moti giovanili riformisti e sindacali degli anni ’60 esplode un movimento di massa per la trasformazione della società italiana secondo il dettato Costituzionale. Il terrorismo, le forti violenze della reazione moderata e l’ostilità della sinistra di opposizione alla sinistra di governo, riaprirono il tema del ritardo dell’evoluzione Costituzionale. Amato scrisse su Mondo Operaio nel 1976: “Lo Stato che abbiamo non è né quello scritto nella Costituzione, né quello che preesisteva storicamente al modello ivi tracciato. E’ il risultato di una ibridazione complessa, in cui sono confluite almeno tre componenti: lo Stato anteriore, le innovazioni introdotte in esso dalla DC sulla base di modelli estranei alla Costituzione (anche se formalmente non contrastanti con essa), il processo di attuazione Costituzionale, che è però intervenuto a strati e per ondate successive, innestandosi sulle altre due componenti”.

L’illusione della Grande riforma

I socialisti restano soli nel sostenere la Grande Riforma per un diverso rapporto tra Governo e Parlamento ed un più ampio uso dello strumento referendario. Gli anni ’80 sono gli anni dell’esplosione di una modernizzazione che vuole congelare la prima parte della Costituzione e, con il vincolo estero, ridurre la forza rappresentativa del Parlamento e con leggi elettorali maggioritarie, modificare le garanzie costituzionali. Nel giugno del ’91 il Presidente Cossiga compie l’ultimo gesto del suo settennato: invia un messaggio alla Camera per la riforma Costituzionale. La risposta è “La Costituzione non si tocca” ( ma, intanto, incominciava a venire corrosa con il vincolo estero e le leggi elettorali maggioritarie). Questi sono gli strumenti che sono stati utilizzati negli anni ’90 e che hanno aperto la strada al caos costituzionale attuale.

L’Italia e il “mondo furioso” della globalizzazione

La fine della guerra fredda, la caduta dei blocchi ideologici, la globalizzazione della finanza spregiudicata e dell’economia asociale e l’idolatria del “mercato” generano il riemergere dei fondamentalismi religiosi violenti, di populismi distruttivi e di pragmatismi senza armonia dei governi nazionali. L’Italia è immersa in questa crisi mondiale con due problemi in più: il superamento dei partiti garanti della Costituzione e la liquidazione di una forte e vasta economia pubblica. La questione morale, che preesisteva e che continuerà a esistere ( il presente è più grave del passato), viene utilizzato per giustificare i nuovi conflitti fuori controllo: una sinistra di opposizione contro la sinistra di governo, la sinistra cattolica contro il centrismo tradizionale, la destra contro il loro passato, il capitalismo assistito contro il capitalismo competitivo, il lavoro garantito contro il precariato. In questo scenario anche il tema della riforma costituzionale richiede una soluzione diversa da quella avanzata dai riformisti socialisti e cattolici degli anni ’70 e ’80. Non si tratta di rendere efficiente l’ordinamento dello Stato Unitario fondato sul lavoro e presidiato dalla sovranità popolare, ma di verificare l’esistenza di una maturazione attuale, sociale e politica per dare corpo ad una nuova Costituzione che garantisca l’autonomia politica dello Stato in un processo controllato di erosione di sovranità e di integrazione in un sistema sociale diverso ma non contradditorio con la parte prima della nostra Carta. Si preferì la strada delle leggi maggioritarie elettorali e della supina acquiescenza al vincolo estero. Le leggi elettorali furono concepite per rendere stabili i governi, così precari in un perverso gioco di scomposizione e ricomposizione dei partiti politici. Fu una illusione: non vi furono governi stabili, mentre si gettavano le basi per un cambiamento indolore della struttura costituzionale italiana: si passava dalla Costituzione rigida alla Costituzione flessibile ( come fu lo Statuto Albertino).

Il tentativo Scalfaro-Finocchiaro: “mettere in sicurezza” la Carta.

Nel 2008, se ne accorse anche il Presidente emerito della Repubblica O.L.Scalfaro, che, insieme con la Sen. Finocchiaro ed altri, presentò un disegno di legge Costituzionale al Senato per la modifica dei quorum di garanzia. Nella relazione alla legge fu detto: “ Nell’ultimo quindicennio (la Costituzione) si è indebolita, pertanto, non l’adesione della comunità italiana alla Carta fondamentale, ma la garanzia della sua rigidità: in altre parole, è diventato troppo facile cambiare le norme costituzionali da quando è stato abbandonato il sistema elettorale che aveva retto la nostra vita politica durante quarantasette anni e da quando si è attenuata nelle forze politiche la convinzione che in ogni caso alle riforme costituzionali si dovesse procedere solo sulla base di larghe convergenze. Le nuove leggi per l’elezione della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica, sia quelle a prevalenza maggioritaria approvate dopo il referendum del 1993 sia quelle proporzionali con premio di maggioranza adottate nel 2005, consentono a maggioranze relative di elettori di diventare maggioranze assolute dei deputati e dei senatori; pertanto la quota di voti parlamentari necessari per l’approvazione in seconda deliberazione di riforme costituzionali (metà più uno degli eletti) è, per così dire, “a portata di mano” e costituisce di per sé una forte tentazione a cambiare le regole e i principi della Costituzione secondo le opinioni o, peggio, le convenienze dei vincitori nell’ultima competizione elettorale. (…) Come è noto, il carattere rigido della Carta Costituzionale rappresenta, insieme all’indipendenza degli organi di garanzia (Presidente della Repubblica e Corte costituzionale), il presidio più robusto per evitare che la Costituzione diventi uno strumento della politica della coalizione vincitrice nelle elezioni politiche. In quasi tutte le grandi democrazie si è ritenuto e si ritiene che le leggi di revisione costituzionale debbano essere il prodotto di larghe intese fra maggioranza e opposizione. E’ una conseguenza coerente dell’esigenza di stabilità, del ruolo di garanzia dei diritti e delle libertà di tutti ( e dunque, anche delle minoranze) che è proprio delle Costituzioni democratiche. Un Paese non può vivere e crescere se le regole fondamentali della convivenza comune durano una sola legislatura e mutano a ogni cambio di maggioranza. L’erosione della stabilità costituzionale, registrata in Italia negli ultimi anni, rappresenta uno degli elementi del clima generale di insicurezza e di smarrimento che prevale nel Paese e uno dei fattori della sua crisi. Recuperare il valore della stabilità costituzionale (della certezza delle regole, delle libertà e dei diritti) e ristabilire il principio della supremazia e della rigidità della Costituzione appare oggi un’esigenza nazionale, uno dei pochi grandi obiettivi che dovrebbero essere condivisi da tutti, indipendentemente dalle collocazioni politiche”.

Il vincolo estero

All’inizio degli anni ’90 il vincolo estero fu utilizzato dalle elitès per smontare il sistema pubblico dell’economia. L’intuizione fu disastrosa, perché non si fece pulizia delle incrostazioni parassitarie del sistema pubblico (banche, industria e servizi) ma si distrusse uno straordinario strumento di difesa della vita nazionale in situazioni di crisi. Basta citare un recente scritto del giurista Prof. Guarino: “Le direzioni di marcia dell’Unione e degli Stati membri sono segnate. Nel settore che nelle condizioni attuali di sviluppo condiziona tutti gli altri, e che è da considerarsi quindi assolutamente prioritario, quello della economia, i ad essi assegnati. Gli istituti democratici contemplati dagli ordinamenti costituzionali di ciascun Paese non servono più. Nessuna influenza possono esercitare i partiti politici. Scioperi e serrate non producono effetti. Le manifestazioni violente provocano danni ulteriori, non scalfiscono gli indirizzi prestabiliti.. Non si può abbattere il proprio governo se un governo, nelle materie economiche fondamentali, non esiste. Parole e gesti cadono nel vuoto”.

La riforma del governo Renzi

Questa riforma è inutile, dannosa e fuorviante. Speriamo che sia il frutto di una giovanile inesperienza politica . Sarebbe grave se fosse una coda del “tintinnio” di sciabola e del piano rinascita. E’ inutile perché la realtà di oggi ( surriscaldamento del pianeta, migrazione e crollo demografico, terrorismo e guerre locali senza fine) richiedono maggiore partecipazione diretta, più fatica nell’organizzare il consenso e minore esibizionismo risolutivo. La semplificazione del processo legislativo, la eliminazione del parlamentarismo e le garanzie per l’opposizione, non hanno bisogno di modifiche costituzionali; è sufficiente intervenire sul Regolamento della Camera. La Camera dei Deputati ha il Regolamento consociativo del 1971 redatto da Andreotti e Ingrao (Capigruppo DC e PCI). E’ inoltre inutile per un’altra decisiva ragione. L’80% delle nostre leggi è di derivazione comunitaria. La normativa comunitaria non solo prevale su la legislazione nazionale, ma è sottratta al giudizio di costituzionalità della Corte Costituzionale perché è coperta dall’art.11 della Costituzione e gode della franchigia referendaria perché i Trattati sono esclusi dal Referendum. La riforma di Renzi è dannosa perché fa passare un principio ad alto rischio; le modifiche costituzionali su iniziativa del governo con la procedura dell’art.138. E’ questo vulnus che, incrociandosi con una legge elettorale maggioritaria, rompe la rigidità del nostro sistema costituzionale, scardinano la difesa della prima parte della Costituzione. Le conquiste di libertà e di uguaglianza non sono mai definitivi.

Morte apparente e resurrezione certa del bicameralismo

Il tanto gridato “abolito bicameralismo” è una truffa. E’ una truffa perché il Senato non solo sopravvive ma avrà competenza legislativa bicamerale piena in materia di tempi e di metodi dell’appartenenza dell’Italia all’UE. Non solo! Fatalmente il Senato ha (avrà) per la sua origine e per la sua naturale composizione, natura anarchica e comunque asimmetrica rispetto alla “maggioranza” che si pensa di raggiungere nella Camera dei deputati per via di legge elettorale. Così si avrebbe nel nostro Paese un altro unicum: “una Camera politica con origine locale ma con competenza, insieme, sovranazionale ed irrazionale, così da produrre l’effetto opposto a quello cui la riforma sarebbe mirata. Insomma, non la fine della confusione, ma una confusione senza fine”.

Un pericoloso precedente

Il 3 dicembre del 1947 si votarono due testi che dimostrarono che nell’ultima fase della Costituente con il mutato clima internazionale, prendeva forza una forte e vecchia destra. Si votò prima l’art.130 bis presentato dall’on. Laconi e sostenuto da PCI – PSI e sinistra sociale DC. “Le disposizioni della presente Costituzione che riconoscono o garantiscono i diritti di libertà e del lavoro, rappresentando l’inderogabile fondamento per l’esercizio della sovranità popolare, non possono essere oggetto di procedimenti di revisione costituzionale, tendenti a misconoscere o a limitare tali diritti, ovvero a diminuirne le guarentigie”. La proposta fu bocciata con 191 voti contro 116. L’art. 139 (immodificabilità della forma repubblicana) passò con 274 voti favorevoli, 77 contrari e 205 assenti. La riforma di Renzi è fuorviante perché utilizza un linguaggio populista allo scopo di evitare il passaggio stretto della crisi costituzionale dello Stato-nazione. Gli argomenti di Renzi privi di consistenza giuridica sono: la riduzione del costo della politica (confonde gli sprechi da eliminare con il costo della democrazia da difendere); la riduzione del numero dei parlamentari (ignora che il problema non è la quantità ma la qualità degli eletti); la velocità di decidere (l’esperienza ci dice che il processo legislativo ha bisogno di attenta riflessione e non di ritmi cronometrabili). Questi argomenti sgraziati e sgradevoli, coprono il rifiuto a varare una vera e organica riforma costituzionale: a)-conciliare principi irrinunciabili con una più larga partecipazione alla decisione; b)-regolare la cessione di sovranità ad organismi sovranazionali fissando i criteri per l’adesione, le condizioni di permanenza e le modalità di recesso.

Cari Compagni che, sbagliando, votate SI’,

non vi attardate a negoziare improbabili modifiche alle leggi elettorali. Dovete aver chiaro che votare SI significa: · Ratificare ed approvare le politiche economiche e sociali imposte all’Italia dal vincolo estero anche per il futuro; · Aprire la strada alla soppressione di fatto della prima parte della Costituzione; · Scivolare verso l’irrilevanza del potere parlamentare e la unificazione del potere esecutivo con il potere legislativo; · Ritorno alla Costituzione “flessibile” dello Statuto Albertino; · Consegnare le garanzie Costituzionali e l’iniziativa per le revisioni costituzionali alle decisioni del partito prevalente anche se largamente minoritario nel Paese. Sappiamo anche che votare NO ci mette momentaneamente al riparo di temerarie azioni restauratrici di un servaggio costituzionale a poteri senza volto e a forze senza controllo democratico. La sinistra sul piano nazionale si oppose allo Statuto Albertino perché fu concesso dal Sovrano senza voto popolare. La sinistra fu postmonarchica nel 2° risorgimento. Il referendum istituzionale e l’Assemblea Costituente chiusero il ciclo storico della contrapposizione del popolo allo Stato. Oggi siamo ad un bivio: o sconfitta storica della sinistra per abbandono delle sue ragioni di lotta politica o nuova primavera della sinistra rinnovata per il 3° Risorgimento. Votare NO al Referendum è il primo passo, necessario ed indispensabile, per riguadagnare un ruolo di direzione nel rispetto del pluralismo politico e sociale.

Un governo di scopo

Dopo il referendum un governo di scopo con compiti da chiudere in un anno: 1-legge elettorale e definizione dei poteri dell’Assemblea Costituente 2-Impegno del governo a non assumere decisioni comunitarie che incidano sulla prima parte della Carta Costituzionale (per il referendum consultivo è sufficiente una legge ordinaria). Se la sinistra storica avrà qualche colpo d’ala, nascerà un socialismo largo aperto a tutti i ceti sociali colpiti dalla stolta politica dell’austerità. La sinistra riprenderà il filo del discorso di Colorni interrotto dall’uccisione per mano nazista; il riformismo dall’alto è la carità dei potenti, il riformismo dal basso è la certezza dei deboli. Il nodo politico che l’Assemblea costituente dovrà sciogliere è di grande rilievo storico perché si dovrà fissare un principio inedito: come cedere sovranità nazionale garantita dalla Costituzione nazionale ad enti sovranazionali senza Costituzione.

Rino Formica

Perché i socialisti ti chiedono di votare NO, di Bobo Craxi

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I socialisti sono favorevoli ad una modifica della Costituzione finalizzata a modernizzare il Paese e le istituzioni e a garantire quel il bisogno di partecipazione popolare cresciuto in Italia e in Europa ormai da molti decenni.
I socialisti hanno posto l’esigenza di una profonda modifica della Costituzione più di trenta anni fa, ma dopo l’entrata in vigore di leggi elettorali di tipo maggioritario hanno sostenuto che l’unico organo abilitato alla modifica della Costituzione sia una Assemblea Costituente eletta dal popolo con metodo proporzionale, indipendente dalla maggioranza parlamentari e di Governo.
I socialisti quindi non sono contrari a riformare la Costituzione, ed anzi non la ritengono per nulla la “migliore del mondo”, ma sono contro i contenuti di questa riforma, perché non è vero che una riforma qualsiasi è meglio di niente.
1. UNA LEGGE CHE PRODURRA’ CONFLITTI
No ad una legge incomprensibile, un ibrido, che invece di semplificare e velocizzare il sistema lo complicherà, aumentando il contenzioso e i conflitti tra istituzioni diverse e tra Camera e Senato.

2. NON SUPERA IL BIPOLARISMO PARITARIO
No ad una legge che fa credere di superare il bicameralismo paritario e non lo fa. Il Senato, ancorché stravolto e ridicolizzato, rimane e ancora numerose saranno le sue competenze, comprese le funzioni legislative.

3. AVREMO UN SENATO CHE NON HA SENSO
No ad un Senato di nominati, che non ha senso, composto da 74 consiglieri regionali, 21 sindaci e 5 senatori nomati dal Presidente della Repubblica, non rappresentativo in modo proporzionale né della popolazione, né delle istituzioni. Neppure confrontabile con quel Senato delle Regioni, sul modello di quello tedesco, tanto discusso nei decenni passati.

4. IL SENATO POTEVA ESSERE ABOLITO
No ad una legge che di fronte a tanta confusione non ha avuto il coraggio di abolire il Senato del tutto.

5. PIU’ POTERI AL PREMIER E MENO AL PARLAMENTO
No ad una legge che rafforza il potere del solo Presidente del Consiglio a scapito di quelli del Parlamento, dei rappresentanti del popolo e della democrazia.

6. PIU’ POTERI AL PREMIER E MENO AGLI ENTI LOCALI
No ad una legge che rafforza il potere del solo Presidente del Consiglio a scapito dei poteri delle istituzioni locali e che affossa definitivamente qualsiasi processo di rafforzamento delle autonomie locali e della struttura federale dello Stato.

7. NON RIDUCE I COSTI DELLA POLITICA
No ad una legge che fa credere che si possano ridurre i costi della politica riducendo un po’ i costi del Senato. Ma se questo fosse vero perché non abolirlo del tutto o non dimezzare sia il numero dei senatori che quello dei deputati.

8. RIDUCE LA PARTACIPAZIONE POPOLARE
No ad una legge che riduce in processo di partecipazione polare nella formazione delle leggi prevedendo che le firme per la presentazione di proposte di legge di iniziativa popolare passino da 50.000 a 150.000. Per i referendum se si vuole che conti la maggioranza dei votanti (alle ultime elezioni) e non quella degli aventi diritto al voto occorre raccogliere 800.000 firme e non 500.000.

I Comitati Socialisti del No sono aperti a tutti coloro che si riconoscono nelle nostre critiche e che propongono l’elezione diretta di un’Assemblea Costituente per la riforma della Costituzione.

Bobo Craxi

Le vere intenzioni del governo nella riforma costituzionale, di Vincenzo Russo

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Vincenzo Russo

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Udite, udite le vere intenzioni del governo per la voce di Maria Elena Boschi, ministro dei rapporti con il Parlamento, che a torto o a ragione viene considerata vice-premier. A proposito della riforma costituzionale, ieri sera ha detto letteralmente: ” vogliamo ridurre i poteri delle regioni per semplificare la vita dei cittadini”. E’ questa la concezione della democrazia della Boschi e probabilmente anche del premier. Le regioni, il decentramento il federalismo non implementano la democrazia ma complicano la vita dei cittadini. E a complicarla sono proprio le regioni non il governo centrale che costringe un Parlamento di nominati e, per giunta, eletti con una legge elettorale dichiarata incostituzionale dalla Corte Costituzionale ad approvare leggi kilometriche incomprensibili ai più. Ma la Boschi non si rende conto che se si ridicono i poteri delle regioni e, conseguentemente, quelli dei comuni che insistono sul territorio delle stesse, alla fine si riducono i poteri dei cittadini. Non si rende conto che se si eliminano – si fa per dire – le province e si trasformano in aree metropolitane dov’è i dirigenti sono sempre i sindaci o politici non scelti direttamente dai cittadini, si annulla o si riduce la rappresentanza dei cittadini. Ma la Boschi e il governo dicono che, in questo modo, si riduce il costo della politica, alias, si riducono le poltrone. Argomento di un certo effetto ma sempre ingannevole. Perché i costi della politica non si riducono tagliando solo le poltrone ma verificando l’efficienza e l’efficacia delle funzioni svolte. Se fosse vera la premessa del ragionamento del governo, bisognerebbe abolire la Camera dei deputati e ogni organismo collegiale e affidare tutte le decisioni ad un solo uomo, all’Uomo della Provvidenza. Questa sì che sarebbe vera semplificazione. Ma il massimo di semplificazione distrugge la democrazia in una società moderna e complessa. Forse bisogna spiegare alla Boschi che riducendo le sedi di partecipazione dei cittadini alle scelte pubbliche, si riduce la democrazia, si conculcano i diritti dei cittadini, si scivola inesorabilmente verso la dittatura. Nel merito la costituzione del 1948 prevede un c.d. Stato regionale, qualcosa di molto diverso da quello centralizzato, come era stato il regime fascista, qualcosa di molto vicino allo stato federale. Per oltre 20 anni il parlamento italiano ha approvato leggi rubricate come provvedimenti mirati ad introdurre e attuare schemi federalisti. Adesso scopriamo che non solo non vogliamo più il federalismo ma non vogliamo neanche lo Stato regionale. La riprova è che nella riforma costituzionale che stiamo valutando il senato che rimane non è un senato federale, non è un senato delle regioni ma delle autonomie perché ci sono anche i sindaci e i Comuni hanno solo autonomia amministrativa. Renzi, che è stato sindaco per due mandati, abrogando le imposte di tipo patrimoniale sulla prima casa ha ridotto l’autonomia tributaria dei Comuni ma ora fa partecipare alcuni sindaci al processo legislativo e può quindi vantarsi di avere valorizzato il loro ruolo.

Vincenzo Russo

 

articolo tratto dal sito http://enzorusso2020.blog.tiscali.it/2016/09/05/le-vere-intenzioni-del-governo-nella-riforma-costituzionale/?doing_wp_cron