Grande Riforma

Tutelare il lavoro delle nuove generazioni, rilanciare il socialismo, di Marco Zanier

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Compagne e compagni,

il movimento che stiamo costruendo oggi è molto importante. Abbiamo bisogno di coinvolgere quante più persone possibile in un processo di trasformazione graduale e profondo dei meccanismi di redistribuzione della ricchezza negli strati sociali più colpiti dalla crisi economica e finanziaria in corso e privati purtroppo dei diritti storicamente acquisiti negli anni ’60 dai governi a partecipazione socialista.

Questa crisi e questa politica non colpisce tutti allo stesso modo. In questi vent’anni, le nuove generazioni hanno visto crescere la flessibilità del lavoro, diminuire i diritti acquisiti (l’ultimo drammatico colpo per noi è stato l’approvazione del Jobs Act), annullare progressivamente l’aspettativa legittima di poter costruire un futuro sicuro per comprare una casa, costruire una famiglia e mettere al mondo figli. La mia generazione, quella dei nati negli anni ’70 ha da tempo la consapevolezza amara di non poter contare mai nella vecchiaia su un reddito da pensione perché con le nuove forme di lavoro precario, le uniche che ci vengono offerte da anni da questo mercato del lavoro, non si è impiegati più continuativamente per quelle che erano le classiche 40 ore settimanali, ma molto spesso per 30 o 20 e saltuariamente, troppo spesso assunti non direttamente da un’azienda ma da un’agenzia di lavoro interinale che ti impiega per una commessa solo per il tempo che serve al datore di lavoro che cerca il personale necessario per un ben determinato periodo.

A questo si aggiunga che quelli di noi che sono stati assunti in pianta stabile da un’azienda, ovviamente dopo una lunga esperienza di precarietà in settori spesso molto diversi tra loro, spinti d un lato  dalla necessità di far fronte alle spese di ogni giorno e dall’altro dall’ambizione legittima di trovare quanto prima la tanto agognata tranquillità, avendo frequentato con passione e convinzione gli innumerevoli corsi di formazione necessari per acquisire le competenze richieste, vivono nel terrore che l’azienda che dà loro oggi da mangiare decida di trasferirsi all’estero per risparmiare sul costo del lavoro, ossia per pagare meno i dipendenti che lavorano per lei. Il caso di Almaviva è sotto gli occhi di tutti, solo per fare un’ esempio.

Chi, come me, ha attraversato per tanti anni il mercato del lavoro di oggi e si è messo in gioco con professionalità e competenza, è sicuramente cresciuto molto e ha sviluppato delle qualità un tempo inimmaginabili, perché prima il lavoro era chiuso in comparti immobili. In questo senso, la mia generazione sa svolgere bene mansioni diverse, in settori differenti e con un miglior rapporto con il cittadino che pretende giustamente un servizio di qualità. Se siamo bravi da un lato, però,  siamo sempre preparati, dall’altro lato, al peggio, perché oltre alla flessibilità che conosciamo non abbiamo la certezza di essere inseriti anche noi alla fine in un posto di lavoro stabile, contrattualizzati come si deve, con la possibilità di chiedere quando serve il miglioramento delle nostre condizioni e il riconoscimento di uno stipendio giusto con tutti gli annessi e connessi.

Oggi, compagni, chi vive e lavora senza le giuste tutele che noi socialisti abbiamo costruito negli anni’60 e che gli ultimi governi e guidati dal PD hanno progressivamente smantellato, può e deve diventare, secondo me, un quadro dirigente importante del nostro partito, come è stato negli anni ’40  e ’50 per Oreste Lizzadri. Io penso spesso a lui in questi giorni, anche se magari non condivido le sue conclusioni “fusioniste”. Penso alla sua esperienza di lotta sviluppata in età giovanile, quando costretto a lavorare il un pastificio, si è accorto che non esistevano regole a favore dei lavoratori e che tutto dipendeva dalla volontà del padrone. Erano gli anni Dieci del Novecento, bisognava avere davvero molto coraggio per mettere in piedi una battaglia sulla dignità del lavoro, ma lui lo ha fatto: ha costruito uno sciopero di tutti i pastai che è risultato vincente ed è stato portato in trionfo dai suoi compagni di lotta alla Camera del Lavoro di Gragnano, la sua zona d’origine, di cui poco dopo è eletto segretario. A soli diciassette anni.

Io che sono iscritto all’attuale PSI dalla sua fondazione e che mi sono sempre riconosciuto nella sinistra socialista, avanzando proposte costruttive negli organi in cui sono stato inserito e dando voce e spazio in rete, attraverso la creazione di blog e gruppi di discussione, ai tanti compagni e compagne che hanno idee e proposte valide e interessanti (ovviamente sistematicamente ignorati dalla dirigenza del partito ed in primo luogo dal Segretario attuale), vedo in questa nostra assemblea di oggi un’occasione importante. Riunire i socialisti nella prospettiva di un socialismo largo e diffuso nel Paese è una preoccupazione che condivido con Angelo Sollazzo ed i compagni che hanno organizzato l’evento. Dobbiamo ricostruire le basi di un Partito socialista degno di questo nome, anche facendo tesoro della fondamentale battaglia che abbiamo combattuto per la difesa della nostra Costituzione. Su questo punto vorrei essere chiaro, noi non dobbiamo partire dalla cosiddetta Grande Riforma di Bettino Craxi, che ancora sostiene suo figlio Bobo, che non si è mai realizzata e che forse è stato meglio così, ma dalla difesa del lavoro dei socialisti che hanno combattuto la battaglia antifascista e che hanno partecipato ai lavori dell’Assemblea Costituente: Vittorio Foa, Lelio Basso, Lina Merlin e soprattutto Pietro Nenni. L’ho detto anche alla conferenza stampa alla Camera il giorno della presentazione del Comitato socialista per il NO. Io che ho gestito il Blog di riferimento di questa nostra battaglia, che ci ha portato a vincere il 4 dicembre al fianco al popolo italiano contro lo scellerato tentativo del governo Renzi sostenuto dai poteri forti, vi dico, compagni, la maggior parte di chi ha partecipato con interventi e riflessioni complesse la pensa come me. Se partiamo dalla nostra Carta costituzionale non sbagliamo, se mettiamo in pratica l’articolo 1 che recita: “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”, noi costruiamo davvero il socialismo necessario.

Costruire insieme l’organizzazione necessaria a creare e radicare un movimento socialista largo ha senso oggi solo se il nostro sguardo è rivolto non solo alle  categorie sociali storicamente oggetto delle nostra idea di politica, cui dobbiamo dare certamente una prospettiva di vita diversa da quella decisa dagli ultimi governi a guida PD. Le scelte del governo Renzi hanno infatti stravolto l’esistenza degli insegnanti delle scuole medie e secondarie, costretti a lasciare le case e le famiglie per un lavoro quasi sempre nell’altra parte della Paese; dei medici e degli infermieri costretti a fare i conti ogni giorno coi tagli strutturali alla sanità pubblica a fronte di uno stanziamento crescente di risorse per la sanità privata; degli impiegati delle amministrazioni locali e nazionali che lavorano con professionalità e sono troppo spesso oggetto di campagne denigratorie e generiche dei mezzi d’informazione che attaccano gli ultimi diritti acquisiti dai lavoratori, che invece, secondo me, dovrebbero essere estesi anche ai tanti impiegati delle aziende private. Tutto questo è vero ma non basta: dobbiamo puntare a conquistare il sostegno anche delle nuove generazioni: i nati negli anni ’70, ’80 e ’90, che conoscono solo la precarietà e che le politiche recenti, hanno umiliato, diviso e reso succubi di un mercato del lavoro con sempre meno tutele e diritti. È soprattutto per loro che dobbiamo ricostruire un orizzonte socialista.

Il nostro ruolo è portare nella politica attuale, tutta legata alle convenienze dei singoli governi ed alla loro breve esistenza, la programmazione dell’economia, tanto cara a Riccardo Lombardi. Per fare questo, il movimento che stiamo costruendo deve portarci quanto prima a ricostruire un Partito socialista stabilmente collocato a sinistra. E dovrà essere, penso, un partito che riparte anche dalle intuizioni di Giacomo Mancini della seconda metà degli anni ’60, che, quando noi socialisti eravamo alla guida del Paese, sosteneva che le nostre scelte politiche non potevano essere imposte dall’alto ma dovevano essere elaborate tenendo conto delle trasformazioni della società e dei problemi delle nuove generazioni.

Se vogliamo esistere e crescere come partito dobbiamo pensare ad una politica coraggiosa e seria rivolta alle nuove generazioni di lavoratori, coinvolgendole in prima persona nell’indicarci i nodi da risolvere e la strada da seguire, elaborando, a partire dalla nostra storia politica gli strumenti necessari a dare delle risposte adeguate. Sono settori di lavoro che noi, dobbiamo essere onesti, non conosciamo davvero perché sono nati e si sono sviluppati negli ultimi vent’anni, ma sono queste le frontiere del nuovo socialismo. Io sono sicuro, compagni, che ce la possiamo fare. Avanti!

Marco Zanier  (Intervento all’assemblea “Socialisti in movimento” del 12/03/2017)

La riforma costituzionale dei socialisti, documento del Comitato socialista per il NO della Toscana

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I socialisti che hanno aderito al “Comitato Socialista per il NO” e che hanno dato vita ai comitati del NO sul territorio sono sideralmente lontani dalla maggior parte di politici che fanno opposizione a Renzi.
Non vivono la scelta del NO come un plebiscito e neppure come Armagedonn, ma come giudizio su una riforma e sulla filosofia istituzionale che la anima.
Avvertono quale principale esigenza la costruzione di un equilibrio, non la blindatura di una leadership.
Questa riforma invece, si porta in pancia l’Italicum che, con l’ansia di proclamare un vincitore la sera del ballottaggio, un partito votato dalla meno esigua minoranza di elettori si prende tutto il piatto. Nell’idea che quel partito sia il PD e con il rischio, invece, che sia un altro.
Il premier ha personalizzato la sfida intendendo trasformare il quesito referendario in giudizio di Dio, evocando in caso di vittoria del NO il ritorno all’Italia degli “inciuci” come se fossero questi i modi e i linguaggi per affrontare un tema serio e decisivo per la vita di un Paese.
I socialisti contestano la filosofia della riforma che è molto attenta al problema del governo e non lo è altrettanto ai partiti e al Parlamento.
C’è un tratto di presidenzialismo camuffato. Il problema non è la speditezza con cui il governo attua il suo programma, è l’abisso che oggi separa l’elettorato dalla sua rappresentanza. Il combinato disposto tra una riforma costituzionale discutibile e una legge elettorale indiscutibilmente arbitraria, rende velenosa la posizione distillata negli alambicchi di Palazzo Chigi.
Se vincerà il NO, occorrerà ripensare una architettura sbilenca.
Piero Calamandrei nel 1947 avvertì i costituenti: “La Carta Costituzionale è una Costituzione tripartitica, di compromesso, molto aderente alle contingenze politiche dell’oggi e del prossimo domani: e quindi poco lungimirante”.
Giuliano Amato nel 1976 così lesse la crisi costituzionale: “Lo Stato che abbiamo non è né quello scritto nella Costituzione, né quello che preesisteva storicamente al modello ivi tracciato. E’ il risultato di una ibridazione complessa, in cui sono confluite almeno tre componenti: lo Stato anteriore, le innovazioni introdotte in esso dalla DC sulla base di modelli estranei alla Costituzione (anche se formalmente non contrastanti con essa), il processo di attuazione costituzionale, che è però intervenuto a strati e per ondate successive, innestandosi sulle altre due componenti”.
Il compromesso ideologico costituente tra le elitès del mondo cattolico e la nomenclatura della sinistra marxista ufficiale, non poteva reggere a lungo.
Fu così che la Costituzione materiale travolse la Costituzione scritta.
Sacri principi e norme di attuazione si mescolarono e snaturarono il valore della Carta e devastarono le istituzioni.
Dopo gli anni ’70 lo scontro tra i socialisti della “Grande Riforma” ed i templari della “Carta non si tocca” si concluse con la sconfitta dei socialisti.
Il diversivo della centralità e della unicità della questione morale come causa della crisi istituzionale e politica, consegnò l’Italia alla paralisi permanente sino alla riforma sottoposta oggi a referendum.
Con questa riforma, che non riforma lo Stato, si è rafforzato l’eterno trasformismo che comprime i valori inviolabili ed esalta i meschini interessi di parte.
L’Italia deve cambiare e deve essere diversa in un mondo che è cambiato e che cambierà ancora.
Chiediamo un NO alla farsa referendaria per dire SI all’ ASSEMBLEA COSTITUENTE da convocarsi entro 6 mesi, dal voto referendario, per affrontare i temi veri della riforma dello Stato e della forma di Governo, In quella sede i Socialisti non mancheranno di mettere sul tavolo i temi della loro pluridecennale elaborazione politica ed istituzionale.

NO ALLA CONTRORIFORMA BOSCHI- RENZI- VERDINI

Documento del Comitato socialista per il NO della Toscana

La grande riforma di Craxi non c’entra nulla con la deforma Boschi, di Luciano Belli Paci

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Il dibattito sul referendum costituzionale del prossimo autunno è accompagnato dalla pubblicazione di numerosi saggi nei quali si ricostruisce la storia dei ripetuti tentativi di riformare la nostra Costituzione che, nel corso dei decenni e con alterne fortune, hanno visto impegnati esponenti politici, commissioni bicamerali e governi.
Tra i più recenti è il caso di menzionare il libro di Nadia Urbinati e David Ragazzoni “La vera Seconda Repubblica – l’ideologia e la macchina” e quello di Antonio Ingroia “Dalla parte della Costituzione – da Gelli a Renzi: quarant’anni di attacco alla Costituzione”.
Ho l’impressione che nessuno di questi autori si sottragga al vizio di inserire Craxi e la sua idea di Grande Riforma dello Stato in un indistinto calderone con tutti gli altri che nei decenni hanno mirato a stravolgere la nostra Carta fondamentale e questo mi induce, da socialista impegnato per il No alla deforma Renzi-Boschi, a proporre qualche considerazione critica.
Se si vuole evitare di fare di tutte le erbe un fascio, di appiattire disegni molto diversi tra loro in un coacervo senza tempo, nella classica notte in cui tutte le vacche sono nere, occorre tracciare alcune nette linee di demarcazione.
La prima è di carattere storico, giacché il diverso contesto politico nel quale le proposte di riforma si sono via via inserite è di decisiva importanza.
Fino alla caduta del muro di Berlino la nostra democrazia ha vissuto in una condizione patologica. Eravamo una democrazia bloccata perché, essendo l’opposizione di sinistra egemonizzata dal più grande partito comunista dell’occidente, non è mai stata possibile quella fisiologica alternanza tra diverse coalizioni di governo che invece altrove era la regola. Questo ha fatto sì che durante tutto il corso della cosiddetta Prima Repubblica vi fosse un gruppo di partiti permanentemente al potere, la Dc ed i suoi alleati, e che di conseguenza si creasse quella commistione insana tra partiti ed amministrazione pubblica che è stata chiamata partitocrazia. Anche la cronica instabilità dei governi di quell’epoca deriva principalmente dalla stessa patologia, visto che le normali fibrillazioni prodotte dalla dialettica politica, non potendo mai trovare sfogo in una vera alternanza, si traducevano in crisi governative foriere ogni volta di balletti di poltrone e limitati aggiustamenti programmatici, ma nell’ambito di una stabilità sostanziale tale da rasentare il rigor mortis.
L’idea di Craxi, peraltro rimasta a livello di ipotesi politica e mai trasfusa in definite proposte di revisione costituzionale, era quella che per forzare questa situazione di paralisi di cui all’epoca – si parla del 1979 ! – nessuno vedeva la fine potesse servire una riforma del sistema politico tale da imporre una competizione tra proposte di governo (e non solo tra singoli partiti come accadeva allora) e così stimolare una vera alternanza, una democrazia compiuta. Il sistema semipresidenziale francese, che proprio in quegli anni vedeva l’impetuosa crescita del partito socialista e del suo leader Mitterrand (che nel 1981 sarebbe stato eletto per la prima volta presidente), pareva il modello più adatto allo scopo.
È innegabile che dentro questa riflessione vi fosse anche un calcolo di parte perché solo un netto cambiamento dei rapporti di forza tra comunisti e socialisti avrebbe potuto consentire, proprio come stava accadendo in Francia, di rendere rassicurante e dunque competitiva una coalizione di sinistra; però la diagnosi del male italiano e la strategia per curarlo erano corrette.
Di tutt’altro segno sono i progetti di “Grande Riforma” che hanno accompagnato la nascita e poi il corso della cosiddetta Seconda Repubblica. Essi non hanno avuto più lo scopo di creare le condizioni dell’alternanza, che dopo la fine della guerra fredda e la trasformazione del Pci erano ormai acquisite, bensì quello di produrre un prosciugamento della democrazia, attraverso la trasformazione dei partiti in ectoplasmi, la personalizzazione forsennata della politica, lo svuotamento del parlamento e delle assemblee politiche locali, la concentrazione illimitata del potere negli esecutivi, la sterilizzazione della sovranità popolare attraverso leggi elettorali incostituzionali che stravolgono il principio di rappresentanza.
La seconda linea di demarcazione riguarda il merito dei disegni riformatori. Altro è delineare a viso aperto una riforma in senso presidenziale, riprendendo proposte che furono avanzate all’assemblea costituente da personaggi del calibro di Piero Calamandrei e Leo Valiani e che comprenderebbero sia nel modello statunitense sia in quello semipresidenziale francese tutti i pesi e contrappesi del caso, e altro è tentare di introdurre surrettiziamente adulterazioni del nostro modello costituzionale attraverso forme di premierato assoluto instaurate de facto da inediti e selvaggi meccanismi ultramaggioritari.
Quest’ultima tendenza, che è davvero eversiva sia nei metodi sia negli obiettivi, raggiunge l’apoteosi nella Grande Riforma prodotta dal governo Renzi e sulla quale saremo chiamati, prima o poi, ad esprimerci nel referendum. In essa, alcune mirate manomissioni della funzione legislativa, presentate come innocenti razionalizzazioni a fini di efficienza e risparmio, sono funzionali al solo scopo reale di portare a compimento lo stravolgimento della democrazia parlamentare innescato dall’Italicum, senza ahinoi portarci al vero presidenzialismo con la sua accurata separazione dei poteri.
No, obiettivamente Craxi non merita di essere annoverato tra i progenitori di questo scempio.

Luciano Belli Paci

No alla controcarta costituzionale: appello dei socialisti del NO alla Sinistra che sbaglia, di Rino Formica

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Cari Compagni,

le Costituzioni nascono con le guerre o con le rivoluzioni quando collassa il potere costituito ed un nuovo potere costituente scrive le regole di un ordine politico e sociale diverso. Lo Stato Unitario italiano ha avuto due costituzioni : lo Statuto Albertino e la Costituzione repubblicana. Lo Statuto Albertino fu concesso da Carlo Alberto Savoia il 4 marzo 1848 per il regno di Sardegna e fu esteso al regno d’Italia nel 1861. Lo Statuto nacque perché il “sovrano” aveva paura dei moti popolari che in quegli anni divampavano in Europa ed in Italia. Lo Statuto diventò la Costituzione dello Stato Unitario italiano senza un voto popolare. Lo Statuto Albertino disegnò un regime “monarchico –rappresentativo” ed ebbe la struttura di una Costituzione “flessibile” (flessibile perché modificabile con semplici leggi ordinarie). Fu questa “flessibilità” che permise alla monarchia ed al fascismo di combinare legge elettorale maggioritaria e leggi speciali per disciplinare i contratti collettivi di lavoro, le modifiche dei codici, la costituzionalizzazione del Gran Consiglio del fascismo, l’abolizione del Parlamento, e di trasformare un sistema parlamentare in un regime autoritario a partito unico.

Dallo Statuto alla Costituzione

La Costituzione repubblicana non è figlia di una “concessione” del “sovrano” ma è l’epilogo di una guerra persa e di una rivoluzione civile che divisero il Paese e che si conclusero con il referendum istituzionale e l’elezione dell’Assemblea Costituente. La Repubblica italiana ha un doppio atto di nascita. Vede la luce con il voto popolare referendario netto e semplice: (SI o NO), mentre la definizione dei valori (i fondamentali) ed il suo ordinamento (il bilanciamento dei poteri) è stata opera della mediazione politica dei partiti. Se la Repubblica nasce il 2 giugno 1946 con il voto popolare del referendum istituzionale, la Carta Costituzionale ha il suo voto definitivo il 22 dicembre 1947. 19 mesi sembrano pochi, ma quei 19 mesi segnarono un periodo di straordinari eventi internazionali dovuti alla rottura tra i Paesi alleati vincitori della guerra. Questi eventi aprirono una fase di lacerazioni politiche nei partiti e tra i partiti del Comitato di Liberazione nazionale. La Carta Costituzionale non fu un miracolo caduto dal cielo, fu l’opera di una grande classe dirigente politica uscita dalle sofferenze con onore e forza morale così grandi da poter ottenere un sostegno fiduciario di popolo, illimitato e convinto. Dopo la prima guerra mondiale si affermò la teoria della “non ingerenza” negli assetti politici nazionali ed avemmo il fascismo, il nazismo. Nel ’46-’47 la rottura dell’ alleanza tra USA, Russia e Gran Bretagna, provocò la formazione di due grandi campi d’influenza: il mondo libero ed il socialismo reale che si fronteggiarono con una guerra fredda che sfiorò la guerra calda.

La lezione francese

In Italia i tre grandi partiti di massa (DC, PSI e PCI) capirono la lezione francese del ’45-’46, quando il Partito Socialista francese ed il Partito Comunista francese ruppero con l’MRP (la DC francese) nell’approvazione della Carta Costituzionale. La Costituzione approvata dalla maggioranza di sinistra fu bocciata dal referendum popolare e si dovette dare vita ad una nuova Costituente che il ’46 varò una nuova Costituzione con il voto della sinistra e dei cattolici. Questa doppia Costituente fu la debolezza di sistema che aprì la strada alla Costituzione gollista degli anni ’50.

Nasce il caso italiano

I tre partiti italiani che insieme totalizzavano 436 eletti su 556 scelsero la strada della legalità Costituzionale per la edificazione dello Stato repubblicano. I Costituenti optarono per la forma dello Stato parlamentare e stabilirono che la Carta Costituzionale dovesse essere scritta in modo chiaro e semplice “ tale che tutto il popolo la potesse comprendere”, e che negli articoli della Carta vi fossero “le disposizioni concrete di carattere normative, istituzionali, economiche e sociali”. Queste direttive, (o.d.g. Bozzi) approvate dall’Assemblea, costituirono la vera novità che lega indissolubilmente la prima parte della Costituzione (i principi fondamentali) alla seconda parte (l’ordinamento istituzionale). La nostra Costituzione prevede una forma di Stato ed indica un modello di società fondata su la libertà, l’uguaglianza ed il controllo delle dinamiche economiche che devono essere funzionali alle esigenze sociali.

Le “due parti” della Costituzione

La prima parte della Costituzione non solo elenca i principi da rispettare ma indica anche gli obblighi programmatici da attuare. La seconda parte individua gli organi per bilanciare i poteri e descrive i rigidi processi di garanzia e di revisione costituzionale. In sostanza la prima parte indica il legame tra i sacri principi ed il programma di governo per il lungo periodo necessari a realizzare un nuovo ordine politico e sociale. La seconda parte è funzionale alla prima perché deve garantire che i principi si affermino ed i programmi si realizzino. Elementi essenziali perché l’armonia regga tra la prima e la seconda parte sono: 1-la rigidità dei processi di revisione costituzionale; 2-la assoluta indipendenza dai movimenti politici della magistratura ordinaria e di quella Costituzionale; 3-l’integrazione tra democrazia diretta (referendum) e democrazia indiretta (rappresentanza). Su questi tre punti l’incontro tra le culture politiche della sinistra di classe e quella cattolica democratica, fu sufficiente e seppe reggere all’urto con il moderatismo dichiarato della destra e quello sommerso interno alla DC. Nella prima parte della Costituzione, i Costituenti assegnarono all’Italia un ruolo dinamico con previsione di cessione di sovranità in condizione di reciprocità al fine di raggiungere nel campo internazionale traguardi di pace e di giustizia. Sempre nella prima parte i Costituenti rifiutarono l’ipotesi di uno Stato federale e scelsero la forma di Stato unitario fondato su un forte rispetto delle autonomie locali. Infine, i Costituenti posero a sostegno del principio fondamentale della centralità del lavoro un programma vincolante di politica economica dirigista. Nella Costituzione non sono mai citati il mercato, la concorrenza, ed il profitto. Insomma, la prima parte è costruita su la ricerca di una terza via (è questa, forse, la vera anomalia italiana).

Il sistema delle garanzie

Nella seconda parte della Costituzione che tratta dell’ordinamento repubblicano, i costituenti fissarono le regole per il bilanciamento dei poteri e per la forma di garanzie Costituzionali. Garanti Costituzionali sono: il Parlamento, la Magistratura, la Corte Costituzionale. I vincoli per un corretto funzionamento dei garanti sono: una legge elettorale proporzionale (o.d.g. Giolitti) ed i quorum per l’elezione del Presidente della Repubblica, della Corte Costituzionale, del C.S.M., per le leggi costituzionali e per i Regolamenti della Camera. I nostri Costituenti furono chiamati a scrivere una Costituzione che doveva chiudere una frattura storica. Con la Repubblica entrano nello Stato Unitario, prima liberale e poi autoritario fascista, le masse popolari ed i nuovi ceti sociali che erano stati esclusi nel primo risorgimento. Le divisioni, le riflessioni e le critiche alla nostra Carta cominciarono quando la Costituente era ancora in vita. Le prime riflessioni e le prime modifiche le troviamo già nel passaggio del “progetto” dei “75” al voto in Assemblea plenaria che inizia a marzo del 1947 e cessa a dicembre dello stesso anno. I cambiamenti più significativi sono i seguenti: 1-abolizione dell’art.50 del progetto (diritto alla ribellione contro il potere pubblico che viola la Costituzione). 2-art.70 del progetto modificato (viene introdotto nel processo legislativo la navetta senza fine tra Camera e Senato, nonostante –durante un dibattito assembleare di alto profilo costituzionale- fossero stati proposti e discussi modelli in grado di superare diversità, conflitti, rivalità tra le due Camere; modelli in uso e di sperimentata efficacia in altre realtà di antica democrazia parlamentare. 3-art. 72 del progetto. E’ eliminato l’intervento popolare nel processo legislativo. 4-art.97 del progetto. Viene rovesciata la maggioranza prevista per la elezione del CSM (dalla maggioranza laica si passa alla maggioranza dei togati). 5- art.127 del progetto. La nomina dei giudici costituzionali riduce il potere del Parlamento nella designazione, si passa dal 100% ad un terzo. 6- art.128 del progetto. Il ricorso alla Corte Costituzionale è drasticamente ridotto. Resta solo l’ipotesi del ricorso incidentale in giudizio. 7-art.130 del progetto. Il Governo è escluso dall’iniziativa di revisione costituzionale.

La Costituzione senza popolo

L’approvazione definitiva della Costituzione avvenne il 22 dicembre del 1947 ed entrò in vigore il 1 gennaio del 1948. Non vi furono manifestazioni popolari, ma solo cerimonie burocratiche: i Prefetti consegnarono una copia della Costituzione in “Gazzetta Ufficiale” a tutti i Sindaci. Era cambiato il clima internazionale ed il clima interno. Piero Calamandrei aveva già nel 1947 avvertiti i Costituenti: “La Carta Costituzionale è una Costituzione tripartitica, di compromesso, molto aderente alle contingenze politiche dell’oggi e del prossimo domani: e quindi poco lungimirante”. Tra il ’48 ed il ’53 la Costituzione fu congelata e solo alla fine della 1° legislatura fu varata la legge attuativa della Carta Costituzionale. Già da allora importanti settori della DC e del fronte conservatore erano al lavoro per “avere le mani libere per cambiare la Costituzione” (come ha rivelato recentemente il compagno Macaluso in una recente intervista a “Sette”, raccontando di un incontro riservato tra Scoccimarro e Andreotti al fine di far desistere il presidente De Gasperi dal mantenere un alto premio di maggioranza nella “legge truffa” del 1953). Con il centro-sinistra Moro-Nenni e con i moti giovanili riformisti e sindacali degli anni ’60 esplode un movimento di massa per la trasformazione della società italiana secondo il dettato Costituzionale. Il terrorismo, le forti violenze della reazione moderata e l’ostilità della sinistra di opposizione alla sinistra di governo, riaprirono il tema del ritardo dell’evoluzione Costituzionale. Amato scrisse su Mondo Operaio nel 1976: “Lo Stato che abbiamo non è né quello scritto nella Costituzione, né quello che preesisteva storicamente al modello ivi tracciato. E’ il risultato di una ibridazione complessa, in cui sono confluite almeno tre componenti: lo Stato anteriore, le innovazioni introdotte in esso dalla DC sulla base di modelli estranei alla Costituzione (anche se formalmente non contrastanti con essa), il processo di attuazione Costituzionale, che è però intervenuto a strati e per ondate successive, innestandosi sulle altre due componenti”.

L’illusione della Grande riforma

I socialisti restano soli nel sostenere la Grande Riforma per un diverso rapporto tra Governo e Parlamento ed un più ampio uso dello strumento referendario. Gli anni ’80 sono gli anni dell’esplosione di una modernizzazione che vuole congelare la prima parte della Costituzione e, con il vincolo estero, ridurre la forza rappresentativa del Parlamento e con leggi elettorali maggioritarie, modificare le garanzie costituzionali. Nel giugno del ’91 il Presidente Cossiga compie l’ultimo gesto del suo settennato: invia un messaggio alla Camera per la riforma Costituzionale. La risposta è “La Costituzione non si tocca” ( ma, intanto, incominciava a venire corrosa con il vincolo estero e le leggi elettorali maggioritarie). Questi sono gli strumenti che sono stati utilizzati negli anni ’90 e che hanno aperto la strada al caos costituzionale attuale.

L’Italia e il “mondo furioso” della globalizzazione

La fine della guerra fredda, la caduta dei blocchi ideologici, la globalizzazione della finanza spregiudicata e dell’economia asociale e l’idolatria del “mercato” generano il riemergere dei fondamentalismi religiosi violenti, di populismi distruttivi e di pragmatismi senza armonia dei governi nazionali. L’Italia è immersa in questa crisi mondiale con due problemi in più: il superamento dei partiti garanti della Costituzione e la liquidazione di una forte e vasta economia pubblica. La questione morale, che preesisteva e che continuerà a esistere ( il presente è più grave del passato), viene utilizzato per giustificare i nuovi conflitti fuori controllo: una sinistra di opposizione contro la sinistra di governo, la sinistra cattolica contro il centrismo tradizionale, la destra contro il loro passato, il capitalismo assistito contro il capitalismo competitivo, il lavoro garantito contro il precariato. In questo scenario anche il tema della riforma costituzionale richiede una soluzione diversa da quella avanzata dai riformisti socialisti e cattolici degli anni ’70 e ’80. Non si tratta di rendere efficiente l’ordinamento dello Stato Unitario fondato sul lavoro e presidiato dalla sovranità popolare, ma di verificare l’esistenza di una maturazione attuale, sociale e politica per dare corpo ad una nuova Costituzione che garantisca l’autonomia politica dello Stato in un processo controllato di erosione di sovranità e di integrazione in un sistema sociale diverso ma non contradditorio con la parte prima della nostra Carta. Si preferì la strada delle leggi maggioritarie elettorali e della supina acquiescenza al vincolo estero. Le leggi elettorali furono concepite per rendere stabili i governi, così precari in un perverso gioco di scomposizione e ricomposizione dei partiti politici. Fu una illusione: non vi furono governi stabili, mentre si gettavano le basi per un cambiamento indolore della struttura costituzionale italiana: si passava dalla Costituzione rigida alla Costituzione flessibile ( come fu lo Statuto Albertino).

Il tentativo Scalfaro-Finocchiaro: “mettere in sicurezza” la Carta.

Nel 2008, se ne accorse anche il Presidente emerito della Repubblica O.L.Scalfaro, che, insieme con la Sen. Finocchiaro ed altri, presentò un disegno di legge Costituzionale al Senato per la modifica dei quorum di garanzia. Nella relazione alla legge fu detto: “ Nell’ultimo quindicennio (la Costituzione) si è indebolita, pertanto, non l’adesione della comunità italiana alla Carta fondamentale, ma la garanzia della sua rigidità: in altre parole, è diventato troppo facile cambiare le norme costituzionali da quando è stato abbandonato il sistema elettorale che aveva retto la nostra vita politica durante quarantasette anni e da quando si è attenuata nelle forze politiche la convinzione che in ogni caso alle riforme costituzionali si dovesse procedere solo sulla base di larghe convergenze. Le nuove leggi per l’elezione della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica, sia quelle a prevalenza maggioritaria approvate dopo il referendum del 1993 sia quelle proporzionali con premio di maggioranza adottate nel 2005, consentono a maggioranze relative di elettori di diventare maggioranze assolute dei deputati e dei senatori; pertanto la quota di voti parlamentari necessari per l’approvazione in seconda deliberazione di riforme costituzionali (metà più uno degli eletti) è, per così dire, “a portata di mano” e costituisce di per sé una forte tentazione a cambiare le regole e i principi della Costituzione secondo le opinioni o, peggio, le convenienze dei vincitori nell’ultima competizione elettorale. (…) Come è noto, il carattere rigido della Carta Costituzionale rappresenta, insieme all’indipendenza degli organi di garanzia (Presidente della Repubblica e Corte costituzionale), il presidio più robusto per evitare che la Costituzione diventi uno strumento della politica della coalizione vincitrice nelle elezioni politiche. In quasi tutte le grandi democrazie si è ritenuto e si ritiene che le leggi di revisione costituzionale debbano essere il prodotto di larghe intese fra maggioranza e opposizione. E’ una conseguenza coerente dell’esigenza di stabilità, del ruolo di garanzia dei diritti e delle libertà di tutti ( e dunque, anche delle minoranze) che è proprio delle Costituzioni democratiche. Un Paese non può vivere e crescere se le regole fondamentali della convivenza comune durano una sola legislatura e mutano a ogni cambio di maggioranza. L’erosione della stabilità costituzionale, registrata in Italia negli ultimi anni, rappresenta uno degli elementi del clima generale di insicurezza e di smarrimento che prevale nel Paese e uno dei fattori della sua crisi. Recuperare il valore della stabilità costituzionale (della certezza delle regole, delle libertà e dei diritti) e ristabilire il principio della supremazia e della rigidità della Costituzione appare oggi un’esigenza nazionale, uno dei pochi grandi obiettivi che dovrebbero essere condivisi da tutti, indipendentemente dalle collocazioni politiche”.

Il vincolo estero

All’inizio degli anni ’90 il vincolo estero fu utilizzato dalle elitès per smontare il sistema pubblico dell’economia. L’intuizione fu disastrosa, perché non si fece pulizia delle incrostazioni parassitarie del sistema pubblico (banche, industria e servizi) ma si distrusse uno straordinario strumento di difesa della vita nazionale in situazioni di crisi. Basta citare un recente scritto del giurista Prof. Guarino: “Le direzioni di marcia dell’Unione e degli Stati membri sono segnate. Nel settore che nelle condizioni attuali di sviluppo condiziona tutti gli altri, e che è da considerarsi quindi assolutamente prioritario, quello della economia, i ad essi assegnati. Gli istituti democratici contemplati dagli ordinamenti costituzionali di ciascun Paese non servono più. Nessuna influenza possono esercitare i partiti politici. Scioperi e serrate non producono effetti. Le manifestazioni violente provocano danni ulteriori, non scalfiscono gli indirizzi prestabiliti.. Non si può abbattere il proprio governo se un governo, nelle materie economiche fondamentali, non esiste. Parole e gesti cadono nel vuoto”.

La riforma del governo Renzi

Questa riforma è inutile, dannosa e fuorviante. Speriamo che sia il frutto di una giovanile inesperienza politica . Sarebbe grave se fosse una coda del “tintinnio” di sciabola e del piano rinascita. E’ inutile perché la realtà di oggi ( surriscaldamento del pianeta, migrazione e crollo demografico, terrorismo e guerre locali senza fine) richiedono maggiore partecipazione diretta, più fatica nell’organizzare il consenso e minore esibizionismo risolutivo. La semplificazione del processo legislativo, la eliminazione del parlamentarismo e le garanzie per l’opposizione, non hanno bisogno di modifiche costituzionali; è sufficiente intervenire sul Regolamento della Camera. La Camera dei Deputati ha il Regolamento consociativo del 1971 redatto da Andreotti e Ingrao (Capigruppo DC e PCI). E’ inoltre inutile per un’altra decisiva ragione. L’80% delle nostre leggi è di derivazione comunitaria. La normativa comunitaria non solo prevale su la legislazione nazionale, ma è sottratta al giudizio di costituzionalità della Corte Costituzionale perché è coperta dall’art.11 della Costituzione e gode della franchigia referendaria perché i Trattati sono esclusi dal Referendum. La riforma di Renzi è dannosa perché fa passare un principio ad alto rischio; le modifiche costituzionali su iniziativa del governo con la procedura dell’art.138. E’ questo vulnus che, incrociandosi con una legge elettorale maggioritaria, rompe la rigidità del nostro sistema costituzionale, scardinano la difesa della prima parte della Costituzione. Le conquiste di libertà e di uguaglianza non sono mai definitivi.

Morte apparente e resurrezione certa del bicameralismo

Il tanto gridato “abolito bicameralismo” è una truffa. E’ una truffa perché il Senato non solo sopravvive ma avrà competenza legislativa bicamerale piena in materia di tempi e di metodi dell’appartenenza dell’Italia all’UE. Non solo! Fatalmente il Senato ha (avrà) per la sua origine e per la sua naturale composizione, natura anarchica e comunque asimmetrica rispetto alla “maggioranza” che si pensa di raggiungere nella Camera dei deputati per via di legge elettorale. Così si avrebbe nel nostro Paese un altro unicum: “una Camera politica con origine locale ma con competenza, insieme, sovranazionale ed irrazionale, così da produrre l’effetto opposto a quello cui la riforma sarebbe mirata. Insomma, non la fine della confusione, ma una confusione senza fine”.

Un pericoloso precedente

Il 3 dicembre del 1947 si votarono due testi che dimostrarono che nell’ultima fase della Costituente con il mutato clima internazionale, prendeva forza una forte e vecchia destra. Si votò prima l’art.130 bis presentato dall’on. Laconi e sostenuto da PCI – PSI e sinistra sociale DC. “Le disposizioni della presente Costituzione che riconoscono o garantiscono i diritti di libertà e del lavoro, rappresentando l’inderogabile fondamento per l’esercizio della sovranità popolare, non possono essere oggetto di procedimenti di revisione costituzionale, tendenti a misconoscere o a limitare tali diritti, ovvero a diminuirne le guarentigie”. La proposta fu bocciata con 191 voti contro 116. L’art. 139 (immodificabilità della forma repubblicana) passò con 274 voti favorevoli, 77 contrari e 205 assenti. La riforma di Renzi è fuorviante perché utilizza un linguaggio populista allo scopo di evitare il passaggio stretto della crisi costituzionale dello Stato-nazione. Gli argomenti di Renzi privi di consistenza giuridica sono: la riduzione del costo della politica (confonde gli sprechi da eliminare con il costo della democrazia da difendere); la riduzione del numero dei parlamentari (ignora che il problema non è la quantità ma la qualità degli eletti); la velocità di decidere (l’esperienza ci dice che il processo legislativo ha bisogno di attenta riflessione e non di ritmi cronometrabili). Questi argomenti sgraziati e sgradevoli, coprono il rifiuto a varare una vera e organica riforma costituzionale: a)-conciliare principi irrinunciabili con una più larga partecipazione alla decisione; b)-regolare la cessione di sovranità ad organismi sovranazionali fissando i criteri per l’adesione, le condizioni di permanenza e le modalità di recesso.

Cari Compagni che, sbagliando, votate SI’,

non vi attardate a negoziare improbabili modifiche alle leggi elettorali. Dovete aver chiaro che votare SI significa: · Ratificare ed approvare le politiche economiche e sociali imposte all’Italia dal vincolo estero anche per il futuro; · Aprire la strada alla soppressione di fatto della prima parte della Costituzione; · Scivolare verso l’irrilevanza del potere parlamentare e la unificazione del potere esecutivo con il potere legislativo; · Ritorno alla Costituzione “flessibile” dello Statuto Albertino; · Consegnare le garanzie Costituzionali e l’iniziativa per le revisioni costituzionali alle decisioni del partito prevalente anche se largamente minoritario nel Paese. Sappiamo anche che votare NO ci mette momentaneamente al riparo di temerarie azioni restauratrici di un servaggio costituzionale a poteri senza volto e a forze senza controllo democratico. La sinistra sul piano nazionale si oppose allo Statuto Albertino perché fu concesso dal Sovrano senza voto popolare. La sinistra fu postmonarchica nel 2° risorgimento. Il referendum istituzionale e l’Assemblea Costituente chiusero il ciclo storico della contrapposizione del popolo allo Stato. Oggi siamo ad un bivio: o sconfitta storica della sinistra per abbandono delle sue ragioni di lotta politica o nuova primavera della sinistra rinnovata per il 3° Risorgimento. Votare NO al Referendum è il primo passo, necessario ed indispensabile, per riguadagnare un ruolo di direzione nel rispetto del pluralismo politico e sociale.

Un governo di scopo

Dopo il referendum un governo di scopo con compiti da chiudere in un anno: 1-legge elettorale e definizione dei poteri dell’Assemblea Costituente 2-Impegno del governo a non assumere decisioni comunitarie che incidano sulla prima parte della Carta Costituzionale (per il referendum consultivo è sufficiente una legge ordinaria). Se la sinistra storica avrà qualche colpo d’ala, nascerà un socialismo largo aperto a tutti i ceti sociali colpiti dalla stolta politica dell’austerità. La sinistra riprenderà il filo del discorso di Colorni interrotto dall’uccisione per mano nazista; il riformismo dall’alto è la carità dei potenti, il riformismo dal basso è la certezza dei deboli. Il nodo politico che l’Assemblea costituente dovrà sciogliere è di grande rilievo storico perché si dovrà fissare un principio inedito: come cedere sovranità nazionale garantita dalla Costituzione nazionale ad enti sovranazionali senza Costituzione.

Rino Formica