Senato
Perché votare NO, di Angelo Sollazzo

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Le eccessive semplificazioni nel dibattito politico sul Referendum del 4 Dicembre, allontanano l’attenzione sul contenuto e sulla portata politica della consultazione referendaria.
Di Renzi e delle sue pericolose giravolte ed esternazioni diremo più in avanti, ma occorre, per evitare equivoci, trattare la materia nel contesto in cui si chiede la modifica della Costituzione ed i contenuti della cosiddetta riforma.
Siamo di fronte alla proposta di modificare 47 Articoli della Legge suprema che regola la convivenza di un comunità.
Da chi arriva tale proposta? Da un Premier diventato tale con il tradimento nei confronti di un collega di Partito (Letta stai sereno!!), mai eletto dal popolo, da una giovane avvenente avvocato, senza esperienza alcuna della materia, dello stesso giro fiorentino, e con l’ausilio di altro fiorentino, Verdini, plurindagato e vero ispiratore del renzismo degli ultimi tempi.
Ma non basta la proposta di Riforma viene approvata da un Parlamento dichiarato illegittimo dalla Corte Costituzionale per via della legge elettorale (Porcellum) e con una trasmigrazione di 230 parlamentari da un partito all’altro e quindi non corretti con il mandato ricevuto dagli elettori.
Insomma la Costituzione Italiana promulgata il 1° Gennaio del 1948, considerata da tutta la società politica la migliore in assoluto, redatta,tra gli altri, da Croce,Einaudi, De Gasperi, Lombardi e Togliatti, subisce una ferita profonda da Renzi, Verdini e Boschi. Ci sarebbe da ridere se non fosse una materia tanto delicata.
Da qui è partito il festival delle bugie. Renzi presenta la sua Riforma come atto fondamentale per la crescita economica, a parte i risultati di cui parleremo più in avanti, ma come c’entra una riforma delle istituzioni con l’intervento in economia nessuno può capirlo. Altra bugia sul risparmio del costi della politica.Il Nostro era partito lo scorso anno dichiarando che si sarebbe risparmiato un miliardo, da destinare alle pensioni basse, poi ,rendendosi conto di averla sparata grossa, è sceso ad un risparmio di 500 milioni, in fine quando la Ragioneria dello Stato, non gli avversari politici, hanno rifatto i conti il risparmio si vedeva ridotto a 48 Milioni, a cui sottrarre la tassazione per i mancati emolumenti ai Senatori , si arrivava a 24 Milioni, considerando trasferte e diarie il risparmio diventa vicino allo zero. Dell’argomento il Premier non parla più, ma si sofferma in maniera subdola sulla diminuzione dei politici in carriera. bel coraggio se si pensa che ha riempito Palazzo Ghigi ed Enti pubblici di amici, quasi sempre fiorentini, e occupa ogni spazio possibile con i suoi uomini, vedi RAI.
L’aspetto più allarmante è nella riduzione degli spazi di democrazia. Con la nuova legge elettorale i deputati vengono non eletti dal popolo ma nominati dai Segretari di Partito, con l’artificio dei capo-lista bloccati e degli accordi tra le correnti. Per il Senato ancora peggio, poiché i senatori verrano nominati dai Consigli Regionali, frutto di accordi su incarichi vari, Giunta,Commissioni ed ora anche Senatori. Dopo gli scandali che hanno colpito quasi tutte le Regioni italiane sui costi dei Gruppi, ora diamo il premio di divenire parlamentari del fine-settimana con l’aggiunta dell’immunità parlamentare. Bel capolavoro!!!
Il popolo sovrano, come recita la Costituzione, può ,se approvata la Riforma, anche astenersi dall’andare a votare visto che decide tutto il vertice del Partito.
La soluzione logica sarebbe stata quella di dimezzare il numero dei parlamentari, 400 deputati e 100 senatori, con l’elezione diretta da parte dei cittadini, ovvero abolendo del tutto il Senato. Questo pastrocchio è davvero indigeribile.
Se andiamo all’articolato, vediamo un obbrobrio nell’articolo 70, riguardante l’esercizio legislativo, che ad oggi affida alle Camere tale potere con solo nove parole, nella proposta di modifica le parole sono diventate 442, con errori grammaticali, con riferimenti confusi, e con un contenuto incomprensibile. Il cittadino comune di fronte ad un quesito che dovrebbe spiegare il tipo di modifica resta basito e non riesce ad esprimere il suo orientamento. Altro che quesiti brevi e chiari.
Il nuovo Senato può richiamare per discuterla, entro 10 giorni, una legge approvata dalla Camera, si occupa in modo prevalente dei Trattati internazionali, interviene sulle controversie tra le istituzioni dello Stato etc. Insomma che Riforma è, se bastava togliere la doppia lettura delle leggi ed il voto di fiducia al Governo?
Quanto sopra senza considerare le difficoltà logistiche ed operative dei Senatori che, in quanto Consiglieri Regionali, hanno da seguire da vicino gli aspetti legislativi ed amministrativi del proprio territorio e la incombenza di andare Roma settimanalmente per assolvere al compito di parlamentare diventa pressoché impossibile. Ridicola è la motivazione di velocizzare il varo delle leggi evitando lungaggini. In Italia il tempo di approvazione delle leggi è il più breve in Europa, Renzi governa a colpi di voti di fiducia, il Parlamento è stato quasi del tutto svuotato delle proprie prerogative. Siamo di fronte ad una metamorfosi della democrazia che diventa gestione padronale, al di là delle stesse volontà renziane.
Occorre aggiungere che per il CNEL sarebbe bastata una legge ordinaria per svuotarlo, e per le Regioni un controllo più puntuale sulle loro attività, anche attraverso la Corte dei Conti, visto che il titolo V era stato partorito proprio dal Centro-Sinistra. Da Stato federale, come si voleva, ritorniamo a Stato accentratore.
La Costituzione americana ha 230 anni ed è stata modificata solo due volte, la prima, nel 1920, per dare il voto alle donne, e la seconda nel 197i per dare il voto ai 18enni. Noi, votati al suicidio, modifichiamo ciò che ancora non abbiamo applicato compiutamente.
Il giudizio da dare di fronte a tali macroscopici errori è che siamo capitati in mano a dilettanti, non eletti e non preparati nella materia, ma presuntuosi ed arroganti, convinti che il solo giovanilismo possa coprire le carenze culturali.
Vi sono giovani vecchi, come vi sono vecchi giovani, ed un impegno tanto gravoso non può essere affidato a seconda dei dati anagrafici.
All’inizio dell’impresa renziana molti prestavamo attenzione con simpatia a questo nuovo modo di far politica, basato sugli annunci tracotanti, sulla velocità degli interventi e sulla sicumera di essere capaci di fare tutto ed in fretta. Sembrava che finalmente era arrivato qualcuno che la facesse pagare ai vecchi politici, che pure di danni ne avevano fatti tanti, e ringiovanisse l’ambiente con rottamazioni varie e con nuove qualità.
Risultato? Un disastro!!! Dopo tre anni non esiste una sola riforma renziana che funzioni. Dopo tre anni la crescita economica tanta sbandierata è a zero, il famoso JobsAct è risultato un colossale fallimento ed un regalo a Fiat e soci. I dati di oggi rilevano una diminuzione di oltre il 30% dei contratti a tempo indeterminato e, senza l’articolo 18, una impennata dei licenziamenti, alla faccia delle tutele crescenti, la RAI sembra diventata la TV del PCUS, la buona scuola è diventata pessima, nelle mense dei poveri della Caritas il 60% sono italiani, la povertà assoluta supera i 4milioni di cittadini, quella percepita altri 4 milioni per un totale di 8, la disoccupazione naviga attorno al 12% , quella giovanile attorno al 40%, i consumi ristagnano e la produzione industriale è ferma, l’emigrazione italiana verso l’estero è ritornata a crescere e dal 2008 ad oggi circa 800mila italiani si sono rifugiati all’estero. Gli scandali di questi anni fanno rimpiangere la Prima Repubblica con Mose Expo,Terremoti Aquila ecc., Petrolio-Basilicata per non parlare delle Banche con Etruria,Vicenza Marche e Popolari varie. La seconda batte la prima repubblica 100 a 1.
E’ questo il nuovissimo che si voleva, questo è il modo di rinnovare la politica e la classe dirigente?
Ancora più convintamente NO
Angelo Sollazzo
Questa voce è stata pubblicata in CNEL, Corte Costituzionale, Costituzione americana, Costituzione italiana, democrazia, Parlamento, Porcellum, Riforma Renzi Boschi, Senato, Senza categoria, Socialismo, Riforme, Referendum, Governo Renzi, PSI, Comitato socialista per il NO.
La democrazia dell’Assemblea Costituente e una legge elettorale efficace (pensiero e politica nel primo Francesco De Martino), di Marco Zanier

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Io credo che parlare di Assemblea Costituente, anche in campo socialista, senza citare chiaramente le idee degli uomini e delle donne che ne hanno fatto parte non sia corretto.
Dico questo perché durante il periodo compreso tra il 25 giugno 1946 ed il 31 gennaio 1948 a discutere, ragionare e materialmente scrivere la nostra Costituzione c’erano delle persone reali, con idee ed impostazioni differenti, ma con un passato condiviso : la lotta clandestina contro il fascismo e gli occupanti tedeschi, combattuta a lungo con le armi e con le idee da fronti politici diversi uniti da una grande voglia di libertà.
Tenere conto di tutte le istanze che vennero portate avanti dalle componenti politiche più differenti ma ugualmente vincitrici del conflitto contro il regime e quindi in grado di sedersi assieme per decidere su quali basi e con quale impostazione organizzare la struttura fondamentale del nostro Stato è un lavoro complesso, enorme, se preso nella sua interezza. Ci si sono impegnate con ottimi risultati menti più duttili e sicuramente più preparate della mia. Non credo sia utile tentare di ricostruirlo in questa sede. Al contrario, penso che possa essere ancora di qualche interesse e certamente di grande attualità riannodare in parte il filo dei ragionamenti che portarono alcuni esponenti di una parte della sinistra, quella che poi contribuì a rimettere in piedi il Partito socialista italiano, ed in particolare di quello che ne sarebbe divenuto presto un protagonista importante e più tardi per tre volte il segretario, dopo aver guidato a lungo il partito al fianco di Nenni: sto parlando di Francesco De Martino.
Nato a Napoli il 31 maggio 1907 da una famiglia della media borghesia, dopo aver frequentato l’Università Federico II di quella città nella Facoltà di Giurisprudenza, in cui insegnava anche Arturo Labriola, esservisi laureato nel 1933 ed essere diventato professore ordinario nel 1941, venendo poi chiamato dall’Università di Bari a ricoprire la cattedra di Storia del diritto romano, Francesco De Martino nel 1943 si era iscritto al Partito d’Azione. L’anno successivo, dopo la liberazione di Napoli, si era schierato all’interno della componente di ispirazione socialista, che aveva in Emilio Lussu il suo principale esponente. Come membro autorevole della corrente di sinistra, in contrasto con la parte più moderata capeggiata da Ugo La Malfa e Adolfo Omodeo, aveva partecipato attivamente al dibattito interno e al congresso di Cosenza nell’agosto di quell’anno, presentando assieme ad Emilio Lussu un ordine del giorno, approvato a larga maggioranza dai delegati, contribuendo alla affermazione di una linea politica più marcatamente socialista ed entrando a far parte dell’esecutivo nazionale. Nel Partito d’Azione sarebbe restato fino al suo scioglimento, confluendo, nel 1947, nel Partito socialista italiano, aderendo alla corrente di Lelio Basso, eletto segretario dopo la scissione socialdemocratica di Palazzo Barberini voluta da Giuseppe Saragat.
È con questa impostazione e queste premesse che Francesco De Martino,che non era ancora eletto in Parlamento (vi entrerà nel 1948 e vi resterà fino al 1983), contribuisce, dall’interno del Partito d’Azione, con proposte ed articoli pubblicati sul giornale di riferimento “L’Azione”, a stimolare alcuni temi oggetto dei lavori dell’Assemblea Costituente, elaborando un suo percorso, a mio avviso interessante, da cui si può capire molto del suo socialismo degli anni seguenti.
Le scelte del giovane Francesco De Martino
Per capire meglio il personaggio ed il contesto politico in cui si trovò ad operare, è utile secondo me, consultare due fonti dirette, vale a dire due testimonianze dello stesso Francesco De Martino rilasciate più tardi in occasione di occasione di studi approfonditi sul Partito d’Azione a Napoli e sul suo ruolo politico in quegli anni. La prima è questa, del 1975:
Nel 1943 chi scrive si era buttato nella lotta politica con l’entusiasmo e la passione di chi per lunghi anni aveva atteso la caduta del fascismo e la restituzione della libertà e nell’insegnamento universitario e nell’attività scientifica aveva trovato una certa tranquillità della coscienza di fronte alla miseria dei tempi. La scelta del P d’A fu una scelta per questa rottura ed anche per qualcosa di nuovo, di diverso dai vecchi partiti, che quasi ragazzi avevamo visto dissolversi nel 1922-25 e che coscientemente o meno ritenevamo responsabili per errori o debolezze della vittoria del fascismo. La questione istituzionale si poneva a noi come un’esigenza morale prima ancora che politica, una necessità della nostra coscienza. […] 1
La seconda è questa, del 1991:
Ma allora perché non eravate andati col Partito socialista? Si potrebbe obiettare. Perché non ci credevamo, perché credevamo che il Partito socialista fosse il responsabile o uno dei responsabili degli errori compiuti all’avvento del Fascismo e anche perché, come partito, non singole personalità attive nella lotta, era stato assente in Italia durante il periodo clandestino. Per queste ragioni, cercavamo qualcosa di nuovo: perciò molti intellettuali e non, me compreso, che si sentivano tendenzialmente socialisti, scelsero il Partito d’azione e non il Partito socialista. Errore grave di analisi e valutazione, perché evidentemente non avevamo valutato un altro elemento che non dovrebbe essere assente in nessuna ricerca storico-politica, cioè la grande forza di una tradizione che spingeva verso il Partito socialista un’infinità di persone che non aveva saputo niente della politica perché nata e vissuta sotto il Fascismo, ma aveva sentito dai padri, dagli antenati, vagamente parlare di questo socialismo e che intravedeva nel socialismo lo strumento per realizzare un’ansia di uguaglianza, di libertà, di progresso. […]2
Insomma il giovane professore universitario e futuro segretario del PSI Francesco De Martino, negli anni dell’Assemblea Costituente era entrato nel Partito d’Azione per creare qualcosa di nuovo e di utile al Paese, non conoscendo la reale portata dell’attrattiva che il socialismo italiano esercitava ancora su tantissime persone e soprattutto, aggiungo, ignorando il grandissimo lavoro politico clandestino che portato avanti negli anni Trenta soprattutto nell’Italia settentrionale dal Centro socialista interno guidato per tanti anni da Rodolfo Morandi e che aveva visto tra le sue fila Lelio Basso, Eugenio Colorni, Lucio Luzzatto ed Eugenio Curiel3.
Una testimonianza autorevole e diretta, la voce narrante di Gaetano Arfé, lo storico più importante del socialismo italiano, ci aiuta disegnare con chiarezza i contorni del socialismo meridionale di quegli anni4:
Il Sud ha conosciuto gli eccidi contadini nell’età giolittiana, ma la violenza squadristica è stata episodica e localizzata e non vi ha creato i fermenti necessari allo sviluppo di una cospirazione potenzialmente di massa, non vi è passata la resistenza. […] Tra le eredità di segno negativo è anche quella che Napoli non è mai stata il centro di irradiazione di idee e di impulsi all’azione in direzione delle altre regioni del Mezzogiorno e della sua stessa provincia. […] Non stupisce perciò che negli anni del fascismo il socialismo sopravviva soltanto in alcune figure di rilievo, tra le quali il salernitano Luigi Cacciatore, prematuramente scomparso, ed il lucano Oreste Lizzadri, operante però a Roma, avranno parte di primo piano nella condotta del partito e del movimento sindacale nei primi anni della repubblica. Noti alla polizia e vigilati, isolati e senza rapporti tra loro, relegati in un ambiente dove il socialismo, come il Cristo di Carlo Levi, fuori che in pochi casi si era fermato alle soglie delle campagne ed era mal penetrato anche nelle città, privi di riferimenti specifici ai temi meridionalistici, nella tradizione socialista, i socialisti meridionale non riescono a costruire l’embrione di un gruppo potenzialmente dotato di un autonomo sviluppo.
Un clima non propizio all’emergere di figure nuove interessate a far rinascere il socialismo nel Meridione, se non fosse che, come spiega ancora Arfé:
Il richiamo al socialismo può essere a questo punto riproposto in una dimensione che travalica i confini politici del partito e quelli geografici del Mezzogiorno. Nel meridionalismo della sinistra confluiscono infatti, in un clima di appassionato impegno, i motivi della antica polemica salveminiana che dall’interno del movimento socialista aveva preso le mosse e quelli maturati nella Torino operaia di Gramsci e di Gobetti, gli studi e le riflessioni del gruppo di giovani comunisti raccolti da Amendola, addottorati più d’uno di essi presso la facoltà di Agraria di Portici, e le esperienze nazionali e internazionali di rivoluzionari professionali quali Di Vittorio e Grieco.
Quindi se non nel Partito socialista (poco radicato nel Meridione e senza i fermenti necessari che portarono il Settentrione alla Resistenza) ma dall’interno del Partito d’Azione stando bene attento all’attrattiva forte che esercitava il socialismo su moltissime persone, se non nel clima culturale assonnato della sua Napoli ma nel meridionalismo della sinistra, inteso anche in chiave gramsciana, con lo sguardo rivolto a quello che si muoveva a sinistra nel Sud del Paese, di cosa parlava il giovane Francesco De Martino negli anni cruciali che vanno dall’armistizio alla caduta del fascismo? Guardava alla necessaria fondazione della Repubblica italiana, come uomo di sinistra sempre più vicino al socialismo, consapevole dei problemi seri e complessi che bisognava impostare e risolvere. Così affrontava in quegli anni la responsabilità di porre i problemi più importanti del nuovo Stato italiano in costruzione, magari per poterlo governare quanto prima insieme alle altre forze della sinistra.
Il ruolo dell’Assemblea Costituente
In pratica, il tema fondamentale di quegli ani non era il meridionalismo, ma era la Repubblica e per la Repubblica ci si batteva, oltre che nelle questioni interne per la definizione del partito5.
È con questo spirito che guardava all’Assemblea Costituente. Ma questa cos’era esattamente? Una definizione efficace ce la fornisce proprio lui nel 19456:
L’Assemblea costituente è un organo sovrano, al quale il popolo conferisce, per mezzo delle elezioni, i più ampi poteri rispetto alla formazione del nuovo Stato italiano. Non si può porre alcun limite preventivo a quest’organo: il potere di sovranità ad esso conferito è illimitato per sua natura ed essenza. Esso è molto più vasto dei poteri di un qualunque capo di stato, perché questo è sottoposto a leggi preesistenti mentre la Costituente non è sottoposta a nessuna legge costituzionale, in quanto essa è la fonte delle leggi costituzionali. […] Com’è ovvio, la posizione sovrana dell’assemblea costituente non può confondersi con quella di un qualunque organo dispotico, perché essa deriva i suoi poteri dal popolo, convocato da liberi comizi, è destinata ad una vita del tutto tranquilla e di breve durata, è composta dai rappresentanti di tutti i partiti, e garantisce ad essi il pieno rispetto del metodo democratico.
L’Assemblea Costituente era stata creata per dare vita alla Carta fondamentale dello Stato italiano ed aveva poteri superiori a qualsivoglia governo perché il suo mandato derivava dal popolo e si esprimeva attraverso il confronto democratico dei rappresentanti di tutti i partiti. Una precisazione che oggi, in tempi di riscrittura e stravolgimento dell’impianto complessivo della Costituzione da parte della sola maggioranza di governo risulta ancora molto molto utile ed attuale.
La ricerca di una legge elettorale efficace
L’altro tema da chiarire oggi, sfogliando le carte del Francesco De Martino non membro della Costituente ma del Partito d’Azione napoletano, è quali problemi si ponesse nell’affrontare la creazione di una legge elettorale giusta ed efficace. Molto utile, a questo fine, è continuare la lettura di quello stesso articolo:
È noto che, a grandi linee, i sistemi elettorali possono dividersi in due categorie: quelli che lasciano le minoranze senza tutela e quelli che ad esse riconoscono una rappresentanza più o meno adeguata alla loro entità. I primi hanno il vantaggio di permettere quasi sempre la formazione di maggioranze compatte ed omogenee, le quali nelle democrazie parlamentari possono esprimere governi forti ed autorevoli. Ma essi hanno il grave difetto di opprimere le minoranze e di trasformarsi in veri e propri strumenti di potere egemonico e dispotico del partito più forte, con il pericolo implicito di spingere le minoranze sul terreno della lotta illegale e rivoluzionaria. I secondi hanno vantaggi e vizi precisamente opposti. Essi assicurano una larga tutela alle minoranze, creano una rappresentanza politica che rispecchia fedelmente le divisioni del paese e consolidano il gioco normale della democrazia, che consiste nel perenne alternarsi delle varie correnti politiche al potere. Ma, soprattutto in paesi dove mancano grandi partiti politici con ricche esperienze e solide tradizioni, quei sistemi producono il frazionamento dei gruppi parlamentari, donde consegue la necessità di governo di coalizione, con tutti i mali connessi alle coalizioni politiche, vale a dire debolezza del potere centrale, tendenza piuttosto all’accordo sul non fare che all’accordo sul fare, soprattutto frequenti e lunghe crisi di governo.
Ma allora se i sistemi elettorali che non tutelano le minoranze, che danno via a governi forti, non vanno bene perché spingono implicitamente le minoranze alla lotta illegale ed alla prassi rivoluzionaria, se quelli che tutelano di più le minoranze non vanno bene perché danno vita ad esecutivi deboli, all’alternarsi di differenti correnti politiche al potere e spesso basati sull’accordo sul non fare tipico delle coalizioni, cosa aveva in testa nell’immediato secondo dopoguerra e cosa proponeva all’attenzione dei lettori de «L’Azione» ?
Un’ approfondimento di questi limiti lo troviamo in un altro suo intervento, un inedito non concluso, datato 1946, che è un lungo e articolato ragionamento sui molti aspetti che doveva, secondo lui, risolvere in tempi brevi l’Assemblea Costituente7:
Ma il problema della rappresentanza non è autonomo. Esso va collegato con l’altro problema, non meno importante e fondamentale, della costruzione degli organi dell’esecutivo. L’esperienza storica ci ha insegnato che questi due problemi richiedono il più delle volte soluzioni contrastanti. Più fedele è la rappresentanza e più è difficile creare un governo che sia unito nella volontà di realizzare una politica omogenea. Nella migliore delle ipotesi il governo sarà paralizzato da forze antitetiche, che non riescono ad intendersi su di un minimo di azione collettiva. La grande crisi italiana, che aprì la strada al fascismo nel 1922, fu anche la crisi di un esecutivo debole e paralizzato dalla mancanza di omogeneità. […] Non credo sia il caso di fermarsi nel collegio uninominale. Esso è condannato nella coscienza civile del nostro paese da una lunga esperienza negativa. Indubbiamente attraverso quel sistema si affermarono forti personalità di politici e di statisti, sia in campo conservatore che in campo democratico. Ma si affermarono anche interessi particolaristici, clientele, grossi personalismi che furono causa di corruzione del metodo liberale e fecero degenerare il parlamento.
Ed in questo stesso intervento, poco più avanti, troviamo alcune risposte ai dubbi che ci sono sorti leggendo:
Si potrebbe altresì stabilire un limite al potere dell’assemblea di porre il governo in minoranza, richiedendo maggioranze qualificate e vietando che si abusi delle questioni di fiducia nei dibattiti secondari. […] tutte le minoranze devono essere rappresentate, ma il partito più forte deve essere in grado di governare da solo cioè di avere un numero di seggi che gli permetta di assicurarsi una maggioranza nell’ assemblea.
Rispetto delle differenti opinioni espresse dal voto popolare, rappresentazione di tutte le minoranze in Parlamento, ricerca di un meccanismo che consenta con chiarezza la governabilità del Paese al partito più forte uscito dalle urne. Questi i problemi sul piatto messi da De Martino nel 1945 e 1946.
Su questi temi ritornerà più tardi, negli anni dei governi di centro-sinistra, nel 35° Congresso del PSI del 19638, poco prima di essere nominato Segretario del Partito9:
Esiste, certo, in tutti i paesi d’Europa un problema di efficienza del potere legislativo. Le misure di massima che vengono indicate, non sono rivolte ad accrescere il potere del Parlamento, ma se mai – e questo si potrà constatare nel corso dell’azione legislativa – si risolvono nel liberare il Parlamento di cose secondarie e minute, per riservargli grandi compiti che gli sono propri, in una fase in cui si affronta per la prima volta una esperienza di programmazione economica.
Quindi è impostando la grande opera riformatrice del governo Moro, il primo che vedeva la partecipazione dei socialisti al potere accanto ai democristiani e l’inizio della fondamentale stagione del centro-sinistra che avrebbe ridisegnato con Tristano Codignola il profilo della scuola media pubblica e sancito i diritti fondamentali di tutti i lavoratori nello Statuto voluto da Giacomo Brodolini, che l’allora vice- segretario del PSI Francesco De Martino si poneva il problema di accrescere il potere del Parlamento per impostare coerentemente la programmazione economica. Esattamente l’opposto di quello che sta facendo oggi il governo Renzi con riforme contro gli interessi della scuola pubblica e contro gli interessi della grande massa dei lavoratori che si sono visti mutilare i loro diritti da leggi approvate a colpi di maggioranza ottenuta con la fiducia imposta dal governo al Parlamento su un programma di fatto conservatore portato avanti da un partito fintamente democratico coi voti determinanti di elementi di centro-destra.
La scelta obbligata dei socialisti oggi
Oggi gli italiani sono chiamati a decidere nel Referendum costituzionale del 4 dicembre se scardinare, votando SI, l’equilibrio costituzione garantito dai pesi e i contrappesi accuratamente elaborati dall’Assemblea Costituente o difendere questi delicati equilibri che permettono il rispetto del gioco democratico e il pluralismo, votando NO. I socialisti come noi non possono avere dubbi: dobbiamo votare e far votare NO.
Lo dobbiamo alla nostra lunga storia che va da Filippo Turati a Rodolfo Morandi, da Lelio Basso a Francesco De Martino, da Giacomo Brodolini a Tristano Codignola, da Riccardo Lombardi a Vittorio Foa. Lo dobbiamo al nostro essere stati la prima forza della sinistra nata in Italia più di centoventi anni fa ed aver voluto ricostruire l’unità del movimento operaio elaborando e praticando un’alternativa credibile al governo dei poteri forti e degli interessi dei pochi contro le necessità della maggioranza che lavora con fatica sperando di avere un giorno una vita migliore.
Lo dobbiamo a Francesco De Martino, che ancora nel 1988 ricordando l’amico e compagno di strada Giacomo Brodolini10 e i governi di centro-sinistra, condannava la tentazione della scorciatoia autoritaria:
Allora vuol dire che se c’è una volontà politica, se vi sono degli uomini impegnati che credono in certe cose non è detto che il sistema parlamentare debba essere lento ed inefficiente; lo diviene se non c’è omogeneità, se non vi è intesa, se manca una seria volontà politica di affrontare insieme i problemi del paese. Certo un regime autoritario non ha i freni della democrazia ed i ritardi che essi comportano, ma può condurre a grandi catastrofi per decisioni prese da una sola persona, come l’esperienza insegna.
Marco Zanier
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1 Dalla sua prefazione al libro di Antonio Alosco «Il partito d’azione a Napoli», Guida editore, Napoli 1975 (pp. 7- 8)
2 Dal suo intervento in «La sinistra meridionale nel secondo dopoguerra (1943-54) Giornate in onore di Francesco De Martino», Istituto socialista di studi storici, Firenze 1991 (pp. 115-116)
3 Un lavoro coraggioso sul campo, in contatto con le fabbriche in tempi difficilissimi sotto lo stretto controllo della polizia politica fascista che proprio con quel centro clandestino si accanì più volte incarcerando i suoi dirigenti più volte e stroncando la rete di collegamenti creata per anni faticosamente, ma un lavoro che il giovane Francesco De Martino, attivo ed operante nel meridione non poteva conoscere nel 1943, dato che era ancora in piedi il regime fascista e la sua terribile censura e dato che Rodolfo Morandi era in carcere dal 1937, proprio per aver organizzato la rete politica clandestina socialista in Italia dopo il fallimento di Giustizia e Libertà. Ne ricorderà però la figura molti anni dopo, nel 1980, in un memorabile discorso, facendo luce su tanti aspetti importanti della sua vita politica
4 Dall’intervento di Gaetano Arfé nel già citato «La sinistra meridionale nel secondo dopoguerra (1943-54) Giornate in onore di Francesco De Martino» (pp. 1-8)
5 Sono le parole di Francesco De Martino, riferite al Partito d’Azione, nal suo intervento nel già citato «La sinistra meridionale nel secondo dopoguerra (1943-54) Giornate in onore di Francesco De Martino» (p. 116)
6 «I problemi della costituente», pubblicato su «L’Azione» il 3 e il 10 agosto 1945, ora in Francesco De Martino, «La mia militanza nel Partito d’Azione (1943-1947» a cura e con introduzione di Antonio Alosco, Piero Lacaita editore, Manduria- Bari- Roma, 2003 (pp. 124-132)
7 «La Costituzione di uno Stato moderno», in Francesco De Martino «La mia militanza nel Partito d’Azione (1943-1947)», cit. pp. 181-186
8 Dal suo intervento al 35° Congresso Nazionale del PSI – Roma 25- 29 ottobre 1963, pubblicato in «Francesco De Martino Scritti politici (1943- 1963) Vol. I», a cura di Antonio Alosco e Carmine Cimmino, Guida editori, Napoli 1982 (p. 262)
9 Nell’utilissima cronologia «Cento anni del Partito Socialista Italiano» di Franco Pedone con prefazione di Gaetano Arfé, pubblicato da Teti Editore nel 1993 si legge in proposito alla data del 12 dicembre 1963: La Direzione del Partito socialista nomina F. De Martino segretario del Partito, G. Brodolini vice-segretario e R. Lombardi direttore dell’«Avanti!» (p.212)
10 Dalla commemorazione di Giacomo Brodolini tenuta il 30 aprile 1988 da Francesco De Martino, nell’Aula Magna del Comune di Recanati su invito della Fondazione Brodolini, ora in «Socialisti e comunisti nell’Italia repubblicana», a cura di Chiara Giorgi con presentazione di Gaetano Arfé, La Nuova Italia, 2000 (pp. 137-158)
Questa voce è stata pubblicata in Assemblea Costituente, Costituzione italiana, democrazia, Francesco De Martino, Lelio Basso, Parlamento, Riforma Renzi Boschi, Senato, Senza categoria, Socialismo, Riforme, Referendum, Governo Renzi, PSI, Comitato socialista per il NO, Voto.
La grande riforma di Craxi non c’entra nulla con la deforma Boschi, di Luciano Belli Paci

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Il dibattito sul referendum costituzionale del prossimo autunno è accompagnato dalla pubblicazione di numerosi saggi nei quali si ricostruisce la storia dei ripetuti tentativi di riformare la nostra Costituzione che, nel corso dei decenni e con alterne fortune, hanno visto impegnati esponenti politici, commissioni bicamerali e governi.
Tra i più recenti è il caso di menzionare il libro di Nadia Urbinati e David Ragazzoni “La vera Seconda Repubblica – l’ideologia e la macchina” e quello di Antonio Ingroia “Dalla parte della Costituzione – da Gelli a Renzi: quarant’anni di attacco alla Costituzione”.
Ho l’impressione che nessuno di questi autori si sottragga al vizio di inserire Craxi e la sua idea di Grande Riforma dello Stato in un indistinto calderone con tutti gli altri che nei decenni hanno mirato a stravolgere la nostra Carta fondamentale e questo mi induce, da socialista impegnato per il No alla deforma Renzi-Boschi, a proporre qualche considerazione critica.
Se si vuole evitare di fare di tutte le erbe un fascio, di appiattire disegni molto diversi tra loro in un coacervo senza tempo, nella classica notte in cui tutte le vacche sono nere, occorre tracciare alcune nette linee di demarcazione.
La prima è di carattere storico, giacché il diverso contesto politico nel quale le proposte di riforma si sono via via inserite è di decisiva importanza.
Fino alla caduta del muro di Berlino la nostra democrazia ha vissuto in una condizione patologica. Eravamo una democrazia bloccata perché, essendo l’opposizione di sinistra egemonizzata dal più grande partito comunista dell’occidente, non è mai stata possibile quella fisiologica alternanza tra diverse coalizioni di governo che invece altrove era la regola. Questo ha fatto sì che durante tutto il corso della cosiddetta Prima Repubblica vi fosse un gruppo di partiti permanentemente al potere, la Dc ed i suoi alleati, e che di conseguenza si creasse quella commistione insana tra partiti ed amministrazione pubblica che è stata chiamata partitocrazia. Anche la cronica instabilità dei governi di quell’epoca deriva principalmente dalla stessa patologia, visto che le normali fibrillazioni prodotte dalla dialettica politica, non potendo mai trovare sfogo in una vera alternanza, si traducevano in crisi governative foriere ogni volta di balletti di poltrone e limitati aggiustamenti programmatici, ma nell’ambito di una stabilità sostanziale tale da rasentare il rigor mortis.
L’idea di Craxi, peraltro rimasta a livello di ipotesi politica e mai trasfusa in definite proposte di revisione costituzionale, era quella che per forzare questa situazione di paralisi di cui all’epoca – si parla del 1979 ! – nessuno vedeva la fine potesse servire una riforma del sistema politico tale da imporre una competizione tra proposte di governo (e non solo tra singoli partiti come accadeva allora) e così stimolare una vera alternanza, una democrazia compiuta. Il sistema semipresidenziale francese, che proprio in quegli anni vedeva l’impetuosa crescita del partito socialista e del suo leader Mitterrand (che nel 1981 sarebbe stato eletto per la prima volta presidente), pareva il modello più adatto allo scopo.
È innegabile che dentro questa riflessione vi fosse anche un calcolo di parte perché solo un netto cambiamento dei rapporti di forza tra comunisti e socialisti avrebbe potuto consentire, proprio come stava accadendo in Francia, di rendere rassicurante e dunque competitiva una coalizione di sinistra; però la diagnosi del male italiano e la strategia per curarlo erano corrette.
Di tutt’altro segno sono i progetti di “Grande Riforma” che hanno accompagnato la nascita e poi il corso della cosiddetta Seconda Repubblica. Essi non hanno avuto più lo scopo di creare le condizioni dell’alternanza, che dopo la fine della guerra fredda e la trasformazione del Pci erano ormai acquisite, bensì quello di produrre un prosciugamento della democrazia, attraverso la trasformazione dei partiti in ectoplasmi, la personalizzazione forsennata della politica, lo svuotamento del parlamento e delle assemblee politiche locali, la concentrazione illimitata del potere negli esecutivi, la sterilizzazione della sovranità popolare attraverso leggi elettorali incostituzionali che stravolgono il principio di rappresentanza.
La seconda linea di demarcazione riguarda il merito dei disegni riformatori. Altro è delineare a viso aperto una riforma in senso presidenziale, riprendendo proposte che furono avanzate all’assemblea costituente da personaggi del calibro di Piero Calamandrei e Leo Valiani e che comprenderebbero sia nel modello statunitense sia in quello semipresidenziale francese tutti i pesi e contrappesi del caso, e altro è tentare di introdurre surrettiziamente adulterazioni del nostro modello costituzionale attraverso forme di premierato assoluto instaurate de facto da inediti e selvaggi meccanismi ultramaggioritari.
Quest’ultima tendenza, che è davvero eversiva sia nei metodi sia negli obiettivi, raggiunge l’apoteosi nella Grande Riforma prodotta dal governo Renzi e sulla quale saremo chiamati, prima o poi, ad esprimerci nel referendum. In essa, alcune mirate manomissioni della funzione legislativa, presentate come innocenti razionalizzazioni a fini di efficienza e risparmio, sono funzionali al solo scopo reale di portare a compimento lo stravolgimento della democrazia parlamentare innescato dall’Italicum, senza ahinoi portarci al vero presidenzialismo con la sua accurata separazione dei poteri.
No, obiettivamente Craxi non merita di essere annoverato tra i progenitori di questo scempio.
Luciano Belli Paci
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Perché bisogna votare NO, di Giovanni Scirocco

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L’amico Giuseppe Scirocco ci ha inviato questo contributo in risposta all’intervista di Giuliano Pisapia dei giorni scorsi.
Il manifesto dei 56 costituzionalisti per il no (aprile 2016) inizia così (a proposito di pregiudizi…): Di fronte alla prospettiva che la legge costituzionale di riforma della Costituzione sia sottoposta a referendum nel prossimo autunno, i sottoscritti, docenti, studiosi e studiose di diritto costituzionale, ritengono doveroso esprimere alcune valutazioni critiche.
Non siamo fra coloro che indicano questa riforma come l’anticamera di uno stravolgimento totale dei principi della nostra Costituzione e di una sorta di nuovo autoritarismo.
E poi prosegue
Siamo però preoccupati che un processo di riforma, pur originato da condivisibili intenti di miglioramento della funzionalità delle nostre istituzioni, si sia tradotto infine, per i contenuti ad esso dati e per le modalità del suo esame e della sua approvazione parlamentare, nonché della sua presentazione al pubblico in vista del voto popolare, in una potenziale fonte di nuove disfunzioni del sistema istituzionale e nell’appannamento di alcuni dei criteri portanti dell’impianto e dello spirito della Costituzione.
- Siamo anzitutto preoccupati per il fatto che il testo della riforma – ascritto ad una iniziativa del Governo – si presenti ora come risultato raggiunto da una maggioranza (peraltro variabile e ondeggiante) prevalsa nel voto parlamentare («abbiamo i numeri») anziché come frutto di un consenso maturato fra le forze politiche; e che ora addirittura la sua approvazione referendaria sia presentata agli elettori come decisione determinante ai fini della permanenza o meno in carica di un Governo. La Costituzione, e così la sua riforma, sono e debbono essere patrimonio comune il più possibile condiviso, non espressione di un indirizzo di Governo e risultato del prevalere contingente di alcune forze politiche su altre. La Costituzione non è una legge qualsiasi, che persegue obiettivi politici contingenti, legittimamente voluti dalla maggioranza del momento, ma esprime le basi comuni della convivenza civile e politica. È indubbiamente un prodotto “politico”, ma non della politica contingente, basata sullo scontro senza quartiere fra maggioranza e opposizioni del momento. Ecco perché anche il modo in cui si giunge ad una riforma investe la stessa “credibilità” della Carta costituzionale e quindi la sua efficacia. Già nel 2001 la riforma del titolo V, approvata in Parlamento con una ristretta maggioranza, e pur avallata dal successivo referendum, è stato un errore da molte parti riconosciuto, e si è dimostrata più fonte di conflitti che di reale miglioramento delle istituzioni.
- Nel merito, riteniamo che l’obiettivo, pur largamente condiviso e condivisibile, di un superamento del cosiddetto bicameralismo perfetto (al quale peraltro sarebbe improprio addebitare la causa principale delle disfunzioni osservate nel nostro sistema istituzionale), e dell’attribuzione alla sola Camera dei deputati del compito di dare o revocare la fiducia al Governo, sia stato perseguito in modo incoerente e sbagliato. Invece di dare vita ad una seconda Camera che sia reale espressione delle istituzioni regionali, dotata dei poteri necessari per realizzare un vero dialogo e confronto fra rappresentanza nazionale e rappresentanze regionali sui temi che le coinvolgono, si è configurato un Senato estremamente indebolito, privo delle funzioni essenziali per realizzare un vero regionalismo cooperativo: esso non avrebbe infatti poteri effettivi nella approvazione di molte delle leggi più rilevanti per l’assetto regionalistico, né funzioni che ne facciano un valido strumento di concertazione fra Stato e Regioni. In esso non si esprimerebbero le Regioni in quanto tali, ma rappresentanze locali inevitabilmente articolate in base ad appartenenze politico-partitiche (alcuni consiglieri regionali eletti – con modalità rinviate peraltro in parte alla legge ordinaria – anche come senatori, che sommerebbero i due ruoli, e in Senato voterebbero ciascuno secondo scelte individuali). Ciò peraltro senza nemmeno riequilibrare dal punto di vista numerico le componenti del Parlamento in seduta comune, che è chiamato ad eleggere organi di garanzia come il Presidente della Repubblica e una parte dell’organo di governo della magistratura: così che queste delicate scelte rischierebbero di ricadere anch’esse nella sfera di influenza dominante del Governo attraverso il controllo della propria maggioranza, specie se il sistema di elezione della Camera fosse improntato (come lo è secondo la legge da poco approvata) a un forte effetto maggioritario.
- Ulteriore effetto secondario negativo di questa riforma del bicameralismo appare la configurazione di una pluralità di procedimenti legislativi differenziati a seconda delle diverse modalità di intervento del nuovo Senato (leggi bicamerali, leggi monocamerali ma con possibilità di emendamenti da parte del Senato, differenziate a seconda che tali emendamenti possano essere respinti dalla Camera a maggioranza semplice o a maggioranza assoluta), con rischi di incertezze e conflitti.
- L’assetto regionale della Repubblica uscirebbe da questa riforma fortemente indebolito attraverso un riparto di competenze che alle Regioni toglierebbe quasi ogni spazio di competenza legislativa, facendone organismi privi di reale autonomia, e senza garantire adeguatamente i loro poteri e le loro responsabilità anche sul piano finanziario e fiscale (mentre si lascia intatto l’ordinamento delle sole Regioni speciali). Il dichiarato intento di ridurre il contenzioso fra Stato e Regioni viene contraddetto perché non si è preso atto che le radici del contenzioso medesimo non si trovano nei criteri di ripartizione delle competenze per materia – che non possono mai essere separate con un taglio netto – ma piuttosto nella mancanza di una coerente legislazione statale di attuazione: senza dire che il progetto da un lato pretende di eliminare le competenze concorrenti, dall’altro definisce in molte materie una competenza «esclusiva» dello Stato riferita però, ambiguamente, alle sole «disposizioni generali e comuni». Si è rinunciato a costruire strumenti efficienti di cooperazione fra centro e periferia. Invece di limitarsi a correggere alcuni specifici errori della riforma del 2001, promuovendone una migliore attuazione, il nuovo progetto tende sostanzialmente, a soli quindici anni di distanza, a rovesciarne l’impostazione, assumendo obiettivi non solo diversi ma opposti a quelli allora perseguiti di rafforzamento del sistema delle autonomie.
- Il progetto è mosso anche dal dichiarato intento (espresso addirittura nel titolo della legge) di contenere i costi di funzionamento delle istituzioni. Ma il buon funzionamento delle istituzioni non è prima di tutto un problema di costi legati al numero di persone investite di cariche pubbliche (costi sui quali invece è giusto intervenire, come solo in parte si è fatto finora, attraverso la legislazione ordinaria), bensì di equilibrio fra organi diversi, e di potenziamento, non di indebolimento, delle rappresentanze elettive. Limitare il numero di senatori a meno di un sesto di quello dei deputati; sopprimere tutte le Province, anche nelle Regioni più grandi, e costruire le Città metropolitane come enti eletti in secondo grado, anziché rivedere e razionalizzare le dimensioni territoriali di tutti gli enti in cui si articola la Repubblica; non prevedere i modi in cui garantire sedi di necessario confronto fra istituzioni politiche e rappresentanze sociali dopo la soppressione del Cnel: questi non sono modi adeguati per garantire la ricchezza e la vitalità del tessuto democratico del paese, e sembrano invece un modo per strizzare l’occhio alle posizioni tese a sfiduciare le forme della politica intesa come luogo di partecipazione dei cittadini all’esercizio dei poteri.
- Sarebbe ingiusto disconoscere che nel progetto vi siano anche previsioni normative che meritano di essere guardate con favore: tali la restrizione del potere del Governo di adottare decreti legge, e la contestuale previsione di tempi certi per il voto della Camera sui progetti del Governo che ne caratterizzano l’indirizzo politico; la previsione (che peraltro in alcuni di noi suscita perplessità) della possibilità di sottoporre in via preventiva alla Corte costituzionale le leggi elettorali, così che non si rischi di andare a votare (come è successo nel 2008 e nel 2013) sulla base di una legge incostituzionale; la promessa di una nuova legge costituzionale (rinviata peraltro ad un indeterminato futuro) che preveda referendum propositivi e di indirizzo e altre forme di consultazione popolare.
- Tuttavia questi aspetti positivi non sono tali da compensare gli aspetti critici di cui si è detto. Inoltre, se il referendum fosse indetto – come oggi si prevede – su un unico quesito, di approvazione o no dell’intera riforma, l’elettore sarebbe costretto ad un voto unico, su un testo non omogeneo, facendo prevalere, in un senso o nell’altro, ragioni “politiche” estranee al merito della legge. Diversamente avverrebbe se si desse la possibilità di votare separatamente sui singoli grandi temi in esso affrontati (così come se si fosse scomposta la Riforma in più progetti, approvati dal Parlamento separatamente).
Per tutti i motivi esposti, pur essendo noi convinti dell’opportunità di interventi riformatori che investano l’attuale bicameralismo e i rapporti fra Stato e Regioni, l’orientamento che esprimiamo è contrario, nel merito, a questo testo di riforma.
Giovanni Scirocco
Questa voce è stata pubblicata in consiglieri regionali, Costituzione italiana, democrazia, Parlamento, Riforma Renzi Boschi, Senato, Senza categoria, Socialismo, Riforme, Referendum, Governo Renzi, PSI, Comitato socialista per il NO, Voto.
Una sintesi dell’Appello dei Socialisti del NO alla Sinistra che sbaglia (votando Sì)

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La contro-riforma di Renzi-Boschi: “Torniamo allo Statuto”?
Lo Stato unitario ha avuto due Carte costituzionali: dal 1861 al 1946 lo Statuto Albertino e dal 1947 al 2016 la Costituzione repubblicana.
Lo Statuto Albertino nasce per concessione del Sovrano ed è una costituzione flessibile (flessibile perché può essere modificata con legge ordinaria).
La semplificazione del processo di revisione costituzionale apre la strada a modifiche costituzionali (sia nella parte relativa ai principi fondamentali sia in quella che disegna l’ordinamento istituzionale) da parte di maggioranze parlamentari senza maggioranza elettorale.
Con la flessibilità è possibile cambiare la forma di Stato democratico in regime autoritario senza il consenso della maggioranza degli elettori. Con lo Statuto Albertino morì lo Stato liberal-democratico e si impose il fascismo.
La Carta repubblicana è una Costituzione rigida.
E’ rigida perché è modificabile attraverso un lungo processo democratico, diretto e indiretto, posto a garanzia dei diritti politici, civili e sociali della comunità).
La rigidità rende difficile la reversibilità delle scelte democratiche.
La contro-riforma di Renzi-Boschi accelera e rende irreversibile l’effetto disastroso della erosione del principio di rigidità costituzionale (principio presente in tutte le costituzioni degli Stati moderni), perché si rifiuta di affrontare, anzi esaspera, il tema delle conseguenze prodotte dalle leggi elettorali maggioritarie su le garanzie di revisione costituzionale, e perché subisce passivamente le devastanti invasioni di campo del vincolo estero nel tessuto unitario della Carta costituzionale tra prima e seconda parte.
Inoltre, la contro-riforma di Renzi-Boschi si muove nel solco insidioso del populismo di Stato: il disprezzo per i partiti, l’alto costo della politica, la superiorità dell’invisibilità del potere di fronte ai “tempi lunghi” –così spregiativamente definiti- della partecipazione democratica.
La proposta riformatrice: un governo di scopo
Dopo la vittoria del NO si dovrà convocare una Assemblea Costituente che deve affrontare i temi cruciali del nostro tempo.
1-Cessione di sovranità nazionali in un nuovo federalismo europeo dei popoli, senza distruggere storia, cultura e religioni.
2-Difesa dei principi fondamentali della nostra Costituzione senza confliggere con i doveri di solidarietà sovranazionali.
3-Riequilibrare gli strumenti di democrazia diretta con quelli della rappresentanza.
Durante il periodo compreso tra la vittoria del NO e sino all’entrata in vigore della vera riforma costituzionale, il Parlamento potrà rivedere i suoi regolamenti per una semplificazione del processo legislativo e dovrà al più presto varare una legge ordinaria che disponga il referendum consultivo di indirizzo per il governo su tutte le disposizioni comunitarie europee che incidono sui principi costituzionali scritti nella prima parte della Carta Costituzionale.
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Le vere intenzioni del governo nella riforma costituzionale, di Vincenzo Russo

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Udite, udite le vere intenzioni del governo per la voce di Maria Elena Boschi, ministro dei rapporti con il Parlamento, che a torto o a ragione viene considerata vice-premier. A proposito della riforma costituzionale, ieri sera ha detto letteralmente: ” vogliamo ridurre i poteri delle regioni per semplificare la vita dei cittadini”. E’ questa la concezione della democrazia della Boschi e probabilmente anche del premier. Le regioni, il decentramento il federalismo non implementano la democrazia ma complicano la vita dei cittadini. E a complicarla sono proprio le regioni non il governo centrale che costringe un Parlamento di nominati e, per giunta, eletti con una legge elettorale dichiarata incostituzionale dalla Corte Costituzionale ad approvare leggi kilometriche incomprensibili ai più. Ma la Boschi non si rende conto che se si ridicono i poteri delle regioni e, conseguentemente, quelli dei comuni che insistono sul territorio delle stesse, alla fine si riducono i poteri dei cittadini. Non si rende conto che se si eliminano – si fa per dire – le province e si trasformano in aree metropolitane dov’è i dirigenti sono sempre i sindaci o politici non scelti direttamente dai cittadini, si annulla o si riduce la rappresentanza dei cittadini. Ma la Boschi e il governo dicono che, in questo modo, si riduce il costo della politica, alias, si riducono le poltrone. Argomento di un certo effetto ma sempre ingannevole. Perché i costi della politica non si riducono tagliando solo le poltrone ma verificando l’efficienza e l’efficacia delle funzioni svolte. Se fosse vera la premessa del ragionamento del governo, bisognerebbe abolire la Camera dei deputati e ogni organismo collegiale e affidare tutte le decisioni ad un solo uomo, all’Uomo della Provvidenza. Questa sì che sarebbe vera semplificazione. Ma il massimo di semplificazione distrugge la democrazia in una società moderna e complessa. Forse bisogna spiegare alla Boschi che riducendo le sedi di partecipazione dei cittadini alle scelte pubbliche, si riduce la democrazia, si conculcano i diritti dei cittadini, si scivola inesorabilmente verso la dittatura. Nel merito la costituzione del 1948 prevede un c.d. Stato regionale, qualcosa di molto diverso da quello centralizzato, come era stato il regime fascista, qualcosa di molto vicino allo stato federale. Per oltre 20 anni il parlamento italiano ha approvato leggi rubricate come provvedimenti mirati ad introdurre e attuare schemi federalisti. Adesso scopriamo che non solo non vogliamo più il federalismo ma non vogliamo neanche lo Stato regionale. La riprova è che nella riforma costituzionale che stiamo valutando il senato che rimane non è un senato federale, non è un senato delle regioni ma delle autonomie perché ci sono anche i sindaci e i Comuni hanno solo autonomia amministrativa. Renzi, che è stato sindaco per due mandati, abrogando le imposte di tipo patrimoniale sulla prima casa ha ridotto l’autonomia tributaria dei Comuni ma ora fa partecipare alcuni sindaci al processo legislativo e può quindi vantarsi di avere valorizzato il loro ruolo.
Vincenzo Russo
articolo tratto dal sito http://enzorusso2020.blog.tiscali.it/2016/09/05/le-vere-intenzioni-del-governo-nella-riforma-costituzionale/?doing_wp_cron
Questa voce è stata pubblicata in consiglieri regionali, Costituzione italiana, democrazia, Parlamento, Riforma Renzi Boschi, secondo mandato a Renzi, Senato, Senza categoria, Voto.
Un NO per restituire la Costituzione ai cittadini, di Nicolino Corrado

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Con grande risonanza su giornali e televisioni, Matteo Renzi ha lanciato la campagna elettorale per il referendum del prossimo autunno sulle modifiche alla Costituzione approvate dal Parlamento su iniziativa del governo.
A dire il vero, il dibattito si è animato solo all’interno di quel segmento della società composto da addetti ai lavori e da cittadini attenti alla vita politica. La grande massa dei cittadini, pressata da problemi più impellenti, come far quadrare il bilancio di fine mese o trovare un lavoro per i figli, non riesce a cogliere l’importanza della consultazione referendaria; per il popolo il referendum è qualcosa di astruso, un argomento denso di tecnicismi giuridici sul quale esprimono la loro opinione i vari esponenti politici nelle abituali comparsate nei telegiornali e nei talk-show.
Gli ambienti governativi hanno imposto al Parlamento, a colpi di ariete, il proprio progetto di riforma, ignorando l’ ammonimento che Piero Calamandrei, uno dei più autorevoli padri costituenti, lanciava nel 1947, durante i lavori dell’Assemblea Costituente:
“… nella preparazione della Costituzione il governo non ha alcuna ingerenza: il governo può esercitare per delega il potere legislativo ordinario, ma, nel campo del potere costituente, non può avere alcuna iniziativa neanche preparatoria. Quando l’assemblea discuterà pubblicamente la nuova Costituzione, i banchi del governo dovranno essere vuoti; estraneo del pari deve rimanere il governo alla formulazione del progetto, se si vuole che questo scaturisca interamente dalla libera determinazione dell’assemblea sovrana.”
Ammonimento valido ancora oggi, in quanto il Parlamento, in sede di revisione costituzionale, è ancora in possesso di un frammento di quell’originario potere costituente. Quindi, bene avrebbe fatto il governo ad astenersi dal prendere iniziative così estese e profonde in materia costituzionale, e ancor meglio avrebbero fatto le forze politiche a rimettere tutto il pacchetto di modifiche costituzionali ad un’assemblea costituente, come quella del 1946, eletta con il sistema proporzionale e, quindi, rappresentativa al massimo delle opinioni presenti nella società, come ripete da anni un “grande vecchio” della Repubblica, il senatore Rino Formica.
Invece, il governo ha cercato di accattivarsi, a priori e in blocco, la fiducia dell’opinione pubblica sulla riforma lanciando slogan efficientisti (“Le leggi verranno approvate solo dalla Camera dei Deputati”, “Il procedimento legislativo sarà velocizzato”) o ammiccanti verso gli umori dell’anti-politica (“Diminuirà il numero di coloro che vivono di politica”, “Si avranno risparmi sulla spesa pubblica”), e deviando l’attenzione dai contenuti specifici e dalle loro conseguenze una volta operanti.
Questa baldanza appare fuori luogo quando si pensi che la riforma è stata approvata da un Parlamento composto da designati dai vertici di partito, da un Parlamento formato in base ad una legge elettorale, cioè quella legge che lega il rappresentato al rappresentante, quella legge che più di ogni altra caratterizza la vita democratica e la capacità di garantire la continuità degli organi costituzionali, che è stata dichiarata incostituzionale (il famigerato Italicum). Anzi, secondo la maggior parte dei costituzionalisti, lo stesso Parlamento, che tra l’altro rappresenta poco più della metà del corpo elettorale, manca di quella legittimazione, derivante dal rispetto dei principi costituzionali, necessaria per modificare la “norma fondamentale”, il patto che lega tutti i cittadini.
Altro aspetto critico, l’esecutivo, uscito vincente dal doppio voto parlamentare sulla riforma, ma senza la maggioranza dei due terzi nella seconda votazione, ha snaturato la funzione del referendum confermativo con funzione oppositiva previsto dall’art. 138 della Costituzione. Questa norma, infatti, è prevista a garanzia delle forze contrarie al progetto di revisione costituzionale che, battute in Parlamento, vogliano appellarsi al corpo elettorale per ribaltare la decisione presa. Ma in questo caso sono stati i partiti governativi, con l’appoggio di Confindustria, CISL e altre organizzazioni di categorie professionali, a promuovere la raccolta delle 500.000 firme necessarie per la richiesta del referendum, con l’intento di ottenere una ratifica popolare che sanasse la mancanza di legittimazione del Parlamento e attuando così una torsione dell’istituto giuridico in senso plebiscitario.
Ed a togliere gli ultimi dubbi sul fatto che ci troviamo di fronte ad un qualcosa che formalmente è un referendum, ma di fatto è un plebiscito sia sul futuro ordinamento dello Stato, sia sulla persona dell’attuale Presidente del Consiglio, ci ha pensato lo stesso Renzi annunciando che in caso di sconfitta, si ritirerà dalla vita politica.
Quindi, i cittadini mai come in questa occasione farebbero bene ad interessarsi del referendum, e non solo perché l’espressione del diritto di voto dovrebbe essere meditata in ogni occasione, ma anche perché questa volta la riforma in gioco ha una forza d’urto in grado di scardinare gli equilibri tra organi e poteri dello Stato per come li abbiamo conosciuti finora, e tale da ridurre ai minimi termini la partecipazione dei cittadini alla vita dello Stato: in caso di vittoria del SI si avrebbe un accentramento di potere nel capo del governo ed un simmetrico allontanamento di settori di società dallo Stato, aumentando il distacco dalle istituzioni e ingrossando le fila dei movimenti a base populista.
Infatti, la filosofia che pervade il progetto di riforma è quella della verticalizzazione del potere, riscontrabile nel superamento del bicameralismo paritario attraverso una camera elettiva con pieni poteri legislativi formata, grazie alla vigente legge elettorale (Italicum), dai nominati dei vertici dei simulacri di partito di questo periodo storico e un Senato delle autonomie composto da consiglieri regionali e sindaci che risponderebbero non ai territori di riferimento, ma ai vertici politici che li hanno indicati. Una riforma del bicameralismo paritario é necessaria, ma é ancor più necessario evitare, in materia di riforme costituzionali, una eccessiva fretta ritornando al metodo di riflessione e di confronto che contraddistinse il lavoro dell’Assemblea Costituente.
Gli stessi istituti di democrazia diretta vengono piegati a questa logica: se le firme raccolte per il referendum abrogativo saranno 800.000, invece delle 500.000 richieste perché la proposta venga presa in esame, il quorum verrà abbassato e per approvare o respingere la proposta di abrogazione basterà che si raggiunga il 50% più uno dei votanti e non che si rechino alle urne il 50% più uno degli aventi diritto. Con questa “correzione” si vogliono favorire le minoranze più forti e non le maggioranze effettive nel Paese (come si è già fatto con l’Italicum). E diventerà più difficile proporre una legge d’iniziativa popolare: attualmente, per proporre una legge d’iniziativa popolare sono sufficienti 50.000 firme, mentre con la riforma saranno necessarie 150.000 mila firme, cioé il triplo.
Si vuole instaurare un rapporto diretto tra capo del governo e cittadini, unidirezionale, dall’alto verso il basso, utilizzando i media e internet, tagliando fuori i corpi intermedi istituzionali e associativi tra lo Stato e i cittadini (enti locali, sindacati, associazioni di categoria), in modo tale da produrre in tutti i campi una legislazione non rispondente ai bisogni del Paese, ma a quelli delle lobbies che sostengono il Presidente del Consiglio. Così, i meccanismi reali con i quali opera il potere verrebbero resi invisibili ai cittadini, allo scopo di garantire piena libertà d’azione (anche illegale) al complesso di gruppi e conventicole che dirige di fatto il Paese. Ma tutta questa opacità va a ledere uno dei principi fondamentali della democrazia, quello di trasparenza che, come diceva Norberto Bobbio, significa visibilità, conoscibilità, accessibilità, e quindi controllabilità degli atti di chi detiene il potere pubblico: perché senza quella visibilità, senza quelle informazioni, i cittadini vengono privati dell’unica arma che hanno per sanzionare l’operato del governo, il voto.
Per Bobbio, la persistenza delle oligarchie rappresentava il tradimento della democrazia, “una promessa non mantenuta della democrazia”. La perpetuazione del potere in mano a ristrette èlites, associata alla sua invisibilità, ha come effetto quello di ridurre le forme democratiche a mera rappresentazione esteriore, a copertura di un potere che agisce nell’ombra.
Ecco il punto essenziale in discussione con il referendum: con la riforma della Costituzione voluta da Renzi l’opinione pubblica diventa inerme, i cittadini tornano ad essere sudditi.
Nicolino Corrado
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Un salto di qualità nella campagna per il NO, anzi due. di Alberto Benzoni

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C’è stata in primo luogo l’entrata in campo dei leoni, tutt’altro che spelacchiati, della vecchia Dc. Sentire De Mita ( ebbene sì !) e lo stesso Cirino Pomicino ( ebbene sì !!!) demolire, con intelligenza e passione l’Oca giuliva di turno e le sue formulette imparate a memoria; e, attenzione, in nome dei valori della politica come persuasione, mediazione, inclusione, intelligenza delle persone e delle cose, mi ha ripagato, credetemi, di anni trascorsi in un silenzio impotente: vedere demoliti, giorno dopo giorno, i principi in cui credevo e le conquiste cui avevo assistito da parte del primo cialtrone nuovista di turno e senza che nessuno si azzardasse a difenderli pubblicamente è un’esperienza che non auguro a nessuno. Ma ora, finalmente, qualcuno aveva detto che il nuovo re era nudo; e l’incantesimo/incretinimento collettivo era rotto.
Ancora, più importante, e questa volta per il futuro della sinistra, la dichiarazione di Tocci a favore del no. Per le cose che dice. E per le prospettive che apre.
Sinora l’atteggiamento della minoranza del Pd ( e, per dirla tutta anche della Cgil ) era stato equivoco e subalterno a dir poco. “Caro Renzi e caro governo, noi siamo disposti ad appoggiare la riforma ma tu ci devi dare una mano, che so, modificando la legge elettorale, riaprendo la concertazione eccetera eccetera”.
Al di là di ogni considerazione di merito, una fuffa vergognosa. A contrastarla, il solo D’Alema, con la qualità intellettuali e le sue debolezze personali. Ma, l’entrata in campo di Tocci il quadro è destinato a cambiare radicalmente. Primo perchè le sue considerazioni vanno finalmente al cuore del problema: dimostrando che la riforma non è ,come molti pensano, una roba neutra resa negativa dal cappello dell’Italikum, ma una costruzione complessiva tenuta insieme da logiche e da principi del tutto estranee alla sinistra e alla democrazia. E ancora, e soprattutto, perchè, con la sua presenza, il “no” di sinistra acquisisce, finalmente, la massa critica che finora gli era mancata.
E questo, credetemi, cambierà molte cose. Nell’oggi, con la crescita della probabilità di vincere. E per il domani, nella formazione, attraverso le lotte, di una sinistra degna di questo nome.
Alberto Benzoni
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Comitati per il NO e socialismo largo, di Roberto Biscardini

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I Comitati socialisti per il No sono aperti a tutti coloro che si riconoscono in questa battaglia e riconoscono nelle ragioni ideali del socialismo le ragioni sostanziali per un No a questa riforma costituzionale.
I Comitati socialisti per il No che si stanno moltiplicando in tutta Italia e che stanno raccogliendo un grande interesse tra tanti compagni socialisti ma non solo, sono la riprova che, al di là delle logic…he parlamentari e indipendentemente dal sostegno che un partito o meno dà al governo, nel momento in cui sul piatto ci sono questioni che mettono in discussione le convinzioni democratiche più profonde, i socialisti, ma non solo loro, ragionano con la propria testa e si mettono alla testa di una battaglia di chiarezza e onestà.
La chiamata per andare a firmare per il Si in nome di una banale appartenenza ad un partito o le reiterate dichiarazioni di parte a favore del Si, per fare piacere a Renzi, scorrono via come acqua fresca, non bastano a cambiare le coscienze o a mutare la natura delle cose.
I socialisti riaffermano così con i Comitati per il No il valore originario della propria storia democratica e di libertà. Non tradiscono la loro storia e, di fronte ad una riforma costituzionale che rischierebbe di minare quelle libertà, reagiscono. Si fanno sostenitori e promotori di una battaglia destinata nelle prossime settimane e mesi ad allargarsi e a farsi ancora più dura.
I socialisti si riuniscono, parlano tra loro al di là della loro ormai vecchie scelte politiche. E d’altra parte non c’è centrodestra o centrosinistra che tenga: di fronte alle grandi questioni della vita democratica di un paese ognuno è solo con la propria coscienza, si riscatta e scopre le forza di una battaglia che non può non essere combattuta. I socialisti colgono l’opportunità di diventare protagonisti su una posizione di forte autonomia e di forte identità, perché hanno aderito ad un percorso delineato con assoluta chiarezza. Le ragioni socialiste del No non rispondono a logiche di parte ma stanno dalla parte del paese. Come ad un tempo: o Repubblica o il caos. Quindi per vincere bisogna abbattere steccati e parlare a tutti, ad un mondo socialista ancora potenzialmente largo, ma non solo. Parlare a tutti i socialisti che hanno ancora una coscienza, ma non hanno più una forte organizzazione politica di riferimento e parlare ad un mondo di sinistra democratica, che sta anche dentro il Pd, ma che ha assolutamente bisogno di uscire dalla ubriacatura del governo e della sola logica dell’esecutivo. Si, quel socialismo largo che i Comitati socialisti per il No possono far riemergere e contribuire a riorganizzare.
Il documento di ieri dei dieci parlamentari del Pd a favore del No è solo un inizio e poveracci coloro che pensano che i socialisti possano seguire la logica opportunistica del Si.
Roberto Biscardini
Questa voce è stata pubblicata in Costituzione italiana, Riforma Renzi Boschi, Senato, Senza categoria, Socialismo, Riforme, Referendum, Governo Renzi, PSI, Comitato socialista per il NO, Voto.
Renzi e soci e la linea del Piave, di Angelo Sollazzo

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La linea del Piave, la madre di tutte le battaglie, erano rappresentate per Renzi ed il suo Governo dalla nuova legge elettorale e dalle cosiddette riforme costituzionali.
Tali provvedimenti avrebbero risolto tutti i problemi del Paese, e non si capisce come e perché, a cominciare da quelli economici.
Anche gli osservatori più attenti facevano osservare che voler mischiare il diavolo e l’acqua santa non aveva senso, tranne che per lo sprovveduto Centro Studi della Confindustria renziana.
Ora la linea del Piave è caduta, le truppe di difesa si ritirano in disordine, l’Italicum può essere modificato, anzi non funziona più, nonostante le difese ad oltranza di Maria Boschi che non sa più che pesci pigliare, se il suo Capo accetta che il Parlamento cambi ciò che per mesi entrambi avevano definito intoccabile e la migliore legge elettorale possibile.
Ma già si sentono scricchiolii anche sul fronte delle pseudo-riforme costituzionali.
La paura di perdere il referendum, che sta divenendo una certezza, consigliano al Premier maggiore prudenza, nascono come funghi in tutta Italia i Comitati per il NO, e le motivazioni addotte sono inattaccabili e concrete.
Se poi tali provvedimenti dovevano risolvere i gravi problemi derivanti dalla crisi economico, gli effetti sono esattamente all’opposto.
La produzione industriale frena pericolosamente, il sistema bancario barcolla, dopo il capolavoro della Banca Etruria e delle Popolari, il Jobs Act è stato un totale fallimento ed un regalo al mondo confindustriale, con, nel 2016, un -78% dei contratti a tempo indeterminato e con un aumento del 43% dei voucher liberalizzati.
La “deforma “ della scuola avvantaggia quella privata e danneggia la pubblica che sta assumendo connotati aziendalistici e d’elite, nonostante la contrarietà di tutto il mondo scolastico, la deflazione blocca i consumi con il -0,2%, riportandoci ai valori del 1959 (fonte CGIA di Mestre), le bollette per le famiglie riprendono a salire. e infine per evitare l’aumento dell’IVA bisogna trovare almeno cinque miliardi di euro.
Nel passato Premier, ministri e vice-ministri quando sbagliavano analisi, proponevano e votavano leggi e provvedimenti errati si dimettevano.
Cambiare idea si può, importante e trarne le conclusioni facendosi da parte.
Angelo Sollazzo
Questa voce è stata pubblicata in CGIA di Mestre, Costituzione italiana, Parlamento, Riforma Renzi Boschi, secondo mandato a Renzi, Senato, Senza categoria, Socialismo, Riforme, Referendum, Governo Renzi, PSI, Comitato socialista per il NO.