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Perché NO, di Claudia Baldini

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C’è un club privato di alcune migliaia di persone, non eletti dai cittadini del mondo, che decide il destino in bene o in male di intere popolazioni. Queste persone con il loro seguito di partner manipolano a loro vantaggio i mercati finanziari e impongono la sudditanza della politica dei governi, strozzando gli Stati, o concedendo benessere. Chiunque si oppone a questa gang subisce o in povertà o in guerra aperta.

In questo modo i grandi Istituti commerciali, azionisti delle Banche Centrali, innanzitutto della Federal Reserve e della BCE, riescono a filtrare o trasferire quelle informazioni che servono a reggere il capitalismo mondiale. Il prezzo di beni primari, azioni, obbligazioni, titoli, valuta non sono il risultato di Economia reale e di contrattazioni libere, ma stabilite da questi banchieri liberticidi che conducono la massa dei piccoli risparmiatori e dei contribuenti e che si sono inventati le agenzie di rating specializzate come Moodys o Standard & Poor’s che determinano attraverso i governi alleati le crisi in modo da procurare cassa al capitalismo-liberismo globale.

Nessuna meraviglia che JP.Morgan entri nel governo americano direttamente, c’è sempre stato indirettamente. Nessuna meraviglia che si permettano di stilare un documento apposito a critica delle Costituzioni ‘socialiste’ dei Paesi europei del sud. Nessuna meraviglia che i potenti del mondo in ogni branchia della società si riuniscano per il Bildenberg con i loro amici a valutare ed indirizzare le economioe dei Paesi. Nessuna meraviglia che anche una insignificante giornalista, ma amica di molti, come Lilly Gruber quest’anno sia stata ammessa alla sessione annuale del Bildemberg.

Il cervello che guida il liberismo risiede in un migliaio o poco più di aziende la cui composizione azionaria è incrociata, ossia se si va a vedere sono sempre gli stessi azionisti che partecipano. Meno dell’ 1% delle multinazionali determina la gestione del 40% del totale
Perché ciò è possibile ed è un salto di qualità notevole rispetto al capitalismo del secolo scorso?
Perché il mondo ha perso le forze antagoniste.
Tutti convergono, con la ‘scusa’ della libertà di consumo, su questo modello globale. Sempre più governi di destra, sempre più dittatori disposti a massacrare i loro popoli, sempre più disinformazione, sempre più distrazioni, sempre più ignoranza. E sparisce la sinistra, non fanno sparire il nome che fa comodo per attrarre adesioni, ma hanno fatto sparire l’ideologia valoriale, convincendo che destra e sinistra non hanno più senso. Non è vero che non hanno senso, è vero che sono poca cosa.

Ancora baluardo di una forma di socialdemocrazia che si oppone al super sfruttamento e ai diritti, resta qualche Paese del nord Europa, mentre di nuovo l’America latina è nella bufera, la Cina si adegua, l’Africa ormai è della Cina. L’Europa l’abbiamo sotto i nostri occhi.
La riforma della Costituzione non è per risparmiare quel poco, non è per velocizzare le leggi è per andare verso un’oligarchia. Renzi e la sua banda di amici sono integrati in questa visione in cambio del potere.
Dobbiamo dare un segno, una spallatina a questa immonda logica di lestofanti.
E quelli che votano Sì li aiutano.
Smettiamola col dire che si o no non cambieranno nulla. Primo, già molto hanno cambiato e manca solo annullare le garanzie della legge madre. E in seguito ci si avvierebbe ad un governo di tipo presidenziale, senza contrappesi.
Non è solo la legge elettorale il male.
L’impianto da distruggere è contenuto nella Costituzione come dicono Lor Signori ‘socialista’.

Per questo il 4 deve essere NO, una valanga di NO.

Claudia Baldini

Tante ragioni per un NO, di Roberto Biscardini

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Biscardini

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Ci sono ragioni di fondo che mi hanno fatto decidere subito per il NO rispetto a questa brutta controriforma della nostra Costituzione.
Nel merito tre questioni.
Primo. Il dibattito si concentra di solito sui poteri demiurgici che dovrebbe aver questo nuovo Senato, mentre è solo un letterale pasticcio, un ibrido. Non elimina il bicameralismo paritario e rimane in piedi con poteri legislativi propri. Ancorché composto da consiglieri regionali e sindaci non eletti direttamente dai cittadini, avrà la possibilità di legiferare su materie assolutamente importanti quali le leggi di revisione costituzionale, i referendum popolari, le leggi elettorali, quelle riguardanti gli enti locali e soprattutto quelle relative alla partecipazione dell’Italia alle politiche dell’Unione Europea. Oggi circa l’80% delle leggi che approva il parlamento riguardano questa materia. Quindi per tutte queste leggi la cosiddetta “navetta” rimane esattamente in piedi come ora e i tempi di formazione delle leggi non solo non saranno ridotti ma potrebbero persino allungarsi per effetto di conflitti di competenza tra le due Camere. Insomma i tempi non si ridurranno.
Delle due l’una, se si voleva abolire drasticamente il bicameralismo paritario si doveva avere il coraggio di abolire il Senato tout court. Se invece si voleva come obiettivo ridurre il numero dei parlamentari, regolamentando pur in modo diverso il funzionamento delle due Camere, meglio ridurre da 630 a 400 i Deputati e da 315 a 150 i Senatori, con un risultato più marcato di quello previsto da questa riforma. Secondo. Si dice: ma abbiamo fatto il Senato delle Regioni. E non è vero neanche questo. Il Senato delle Regioni dovrebbe avere come propri rappresentanti non consiglieri sostanzialmente nominati dai partiti, ma rappresentanti dei governi regionali in carica come sul modello del Bundesrat tedesco. E poi si dice: ma noi con la riforma rafforziamo i poteri regionali. Ed invece per assurdo è vero esattamente il contrario. Con la riforma aumentano le competenze esclusive dello Stato e addirittura su proposta del Governo lo Stato può esercitare una “clausola di supremazia” degli interessi nazionali sulle competenze delle Regioni. Siamo ritornati al centralismo statale ante 1970, e ogni ipotesi federalista o regionalista è messa ormai totalmente in discussione.
Contemporaneamente rimangono totalmente in piedi le Regioni a statuto speciale, che rappresentano insieme un vecchio anacronismo e uno dei fattori di spesa più alti della finanza pubblica.
Terzo. Il tema della cosiddetta estensione della partecipazione popolare, questione vera, aperta dalla fine degli anni ’60, e che giustificherebbe una seria e meditata revisione costituzionale. Anche qui siamo al paradosso. L’esatto contrario di quello che si dice di voler fare. I cittadini per presentare delle proposte di legge di iniziativa popolare dovranno raccogliere 150.000 firme contro le 50.000 attuali e la procedura per i referendum è diventata assolutamente bizantina. Ma arriviamo ai punti politici. Il primo riguarda il metodo con il quale si è arrivati a questa riforma. Contro il parere e lo spirito dei padri costituenti si è introdotto il principio che una maggioranza parlamentare, eletta col sistema maggioritario e con legge oggi giudicata incostituzionale, senza la ricerca di un consenso largo nel parlamento, possa cambiare da sola 47 articoli della Costituzione, sostenendo demagogicamente che il referendum confermativo farà giustizia di questa anomalia. Siamo così ormai nel solco insidioso del populismo di Stato soprattutto perché il SI o il NO secco non consente al cittadino un giudizio sulle singole questioni poste in gioco. Da questo punto di vista è assolutamente ragionevole il ricorso avanzato dal Prof. Onida a favore dello spacchettamento del quesito. Secondo: le Carte Costituzionali dovrebbero essere scritte per le nuove generazioni e non per soddisfare o per ottenere una conferma più o meno plebiscitaria delle maggioranze parlamentari e dei governi in carica. L’attivismo dell’attuale Presidente del Consiglio e lo stesso fatto che la proposta di riforma sia stata avanzata dal Governo e non dal Parlamento, conferma l’anomalia di questa proposta. Ricordiamoci Calamandrei che invitava il governo a stare a casa quando il Parlamento discuteva la riforma costituzionale e persino De Gasperi, Presidente del Consiglio, che intervenne allora dai banchi del parlamento per non compromettere la sua indipendenza rispetto a quella dell’esecutivo. Terzo: nella propaganda del SI viene invocato “il nuovo contro il vecchio”: ma chi ha mai detto che di per sé le cose nuove siano sempre meglio delle cose vecchie? Anche il fascismo lo era rispetto alla fase precedente.
Viene invocato “il cambiamento” come un valore di per sé. Anche qui verrebbe da dire: negli ultime vent’anni in Italia e anche nel resto del mondo è cambiato pressoché tutto ma non in meglio. Non abbiamo più le preferenze, non abbiamo più i partiti, non abbiamo più le istituzioni, lo Stato è come si voleva, debole e leggero, l’economia e la finanza contano sopra la politica. Tutti cambiamenti di cui oggi potremmo pentirci. I cambiamenti non sono sempre positivi. Si invoca la stabilità dei governi, tema che i cittadini hanno capito benissimo che non dipende dalla riforma costituzionale o dalle leggi elettorali ma dalla politica infatti la prima repubblica, con i suoi circa 60 governi, è considerata da tutta la storiografia del mondo come il periodo più stabile del nostro paese. Infine si invoca “la velocità” come valore, anche questo un termine molto futurista e del tutto astratto rispetto al tema della efficienza. Non è assolutamente detto che l’efficienza marci insieme alla velocità.
Per finire: i sostenitori del SI chiedono il voto per evitare “salti nel buio”. L’esatto contrario. Con il SI si avvia una fase interminabile in cui qualunque maggioranza, anche quella più strampalata, frutto di una legge elettorale assolutamente non democratica come il Porcellum o l’Italicum per esempio, potrà a colpi di maggioranza piegare la Costituzione a sua immagine e somiglianza, fino alla sua totale abrogazione. Non dimentichiamoci che questo è stato l’obiettivo, persino non tanto nascosto, della destra storica, dallo Statuto Albertino sotto sotto fino ad oggi.
Dopo la vittoria del NO, invece, si dovrà eleggere e convocare inevitabilmente una Assemblea Costituente per ridare senso unitario alla nostra Costituzione e per impedire i continui rimaneggiamenti e ritocchi che già in parte l’hanno resa irriconoscibile. Non dimentichiamoci l’obbrobrio del pareggio di bilancio e dei vincoli europei già costituzionalizzati. Dopo i fallimenti delle bicamerali e con dei parlamenti eletti con il sistema maggioritario non ci sarà alternativa, se si vuole veramente cambiare la Costituzione, ad eleggere direttamente e con sistema proporzionale una nuova Assemblea Costituente indipendente dalla maggioranza parlamentare e dal governo in carica. Essa dovrà affrontare almeno due temi cruciali assolutamente necessari ed attuali, che questa riforma non affronta.
La necessità di riequilibrare gli strumenti di democrazia diretta con quelli della rappresentanza; come e con quali regole cedere sovranità nazionali senza distruggere la nostra storia, cultura e identità, contemporaneamente difendendo i principi fondamentali della nostra Costituzione.
Tutti coloro che dichiarano di votare SI devono sapere che con quel voto il “salto nel buio” è garantito. Si apre la strada alla soppressione di fatto della prima parte della Costituzione, si accettano politiche economiche e sociali imposte all’Italia dal vincolo estero anche per il futuro, il potere parlamentare e quindi del popolo sarà sempre più irrilevante. Il potere legislativo sarà sempre più unificato al potere dell’esecutivo.
La battaglia per il NO è quindi una battaglia consapevole per il bene dell’Italia e del suo futuro, perché non è vero che “una riforma qualsiasi è meglio di niente” e non è assolutamente vero che “piuttost che nient, l’è mei piuttost” quando il “piuttost” è una porcheria.

Roberto Biscardini

Renzi ricorre a tutte le scorrettezze istituzionali per il timore di perdere il referendum, di Gioacchino Assogna

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E’ scandaloso che un Presidente del Consiglio approfitti della sua carica Istituzionale per mettere in atto iniziative propagandiste al fine di attrarre voti in suo favore.

Lo fa sia per l’invio incredibile di una lettera per sollecitare il voto a suo favore, a tutti gli Italiani all’estero, in concomitanza con l’invio delle schede elettorali per il Referendum del 4 dicembre prossimo e sia per la strumentale iniziativa, smaccatamente anti-europea, di togliere la bandiera dell’Europa a fianco di quella Italiana a Palazzo Chigi per accentuare il polemico distacco da Bruxelles per mandare un messaggio agli euro-scettici in modo da ricavarne il consenso Referendario.

Balza evidente la forte contraddizione politica del bullo fiorentino che qualche settimana fa ha promosso un vertice con Hollande e la Merkel a Ventotene per esaltare il Manifesto di Spinelli e rilanciare l’Europa Unita necessaria per affrontare lo stato di crisi, insieme all’appuntamento della prossima primavera per celebrare i 50 anni della firma degli accordi per l’Europa firmati a Roma.

Oggi è ossessionato dal vantaggio dei NO al Referendum, che potrebbe significare il benservito del suo primo Governo e di un forte segnale ai suoi metodi arroganti certamente sbagliati e incomprensibili per un Presidente del Consiglio.

Sta cavalcando l’Anti-Europeismo becero al pari del Capo di Governo Ungherese Orban, portatore di posizione fasciste, egoiste e nazionaliste anti-storiche.

Renzi non si rende conto che su questa linea è stato lasciato solo in un preoccupane isolamento, considerato che nessun Capo di Governo, compresi quelli di estrazione Socialista, hanno espresso condivisione e sostegno per lo scontro in atto con la Commissione Europea che rivela e conferma la grave inadeguatezza ad un ruolo primario di responsabilità.

Dobbiamo accrescere il nostro impegno per far votare NO al Referendum in modo da sconfiggere la volontà di cancellare il diritto di voto e di scelta dei cittadini per il Senato e le Province, oltre per salvaguardare gli spazi di partecipazione democratica, incredibilmente colpiti da questa schiforma marcata dal trio Renzi-Verdini-Boschi.

Gioacchino Assogna

Otto motivi per cui la riforma Renzi è illegittima, di Vincenzo Russo

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Vincenzo Russo

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Come disse Churchill, la democrazia è un sistema con tanti difetti ed un solo vantaggio: non esiste un sistema migliore di essa. Con riguardo alla riforma costituzionale di Renzi, il problema non è se vuole migliorare la democrazia o se la vuole seppellire. Sappiamo che essa può apparire, nel breve termine, lenta e poco efficiente ma, nel medio-lungo termine, essa vince. Il problema generale è che le classi dirigenti, ormai da 30-40 anni, hanno la veduta corta. Aggiungo che per far funzionare al meglio la democrazia servono politici che ci credano e che siano disposti a fare grandi sforzi e sacrifici per farla funzionare. Di questi politici se ne vedono pochi in giro. Se date il metodo democratico in mano a politici che non ci credono e che vogliono concentrare il potere decisionale nelle proprie mani, è chiaro che saranno disposti a ridurla a sola parvenza.
Venendo al merito, come il governo chiede, a mio giudizio, è innegabile che la riforma Renzi riduce la democrazia rappresentativa sia a livello delle Aree metropolitane che dovrebbero essere livello di governo di secondo livello (al di sopra dei Comuni) molto più importante dei Comuni ma non è così perché, come sappiamo, i cittadini non possono votare. I consigli delle aree metropolitane saranno designati dai sindaci della stessa giurisdizione. Consiglieri metropolitani sono stati eletti a Milano e a Napoli ma nessuno se n’è accorto. La sindaca Raggi automaticamente sarà presidente dell’area metropolitana di Roma e dovrà occuparsi dei problemi comuni di altri 100 municipi come se non avesse abbastanza da fare con la gestione dei problemi della Capitale.
Ma i cittadini non possono votare neanche per il c.d. Senato delle Autonomie, così definito con l’avallo di gran parte della dottrina costituzionale che aggrappandosi all’art. 5 Cost non ha mai accettato l’idea di un Senato federale – come a suo tempo richiesto dal PD, da FI e dalla LN.
Oggi, nei paesi democratici più avanzati, il problema all’attenzione degli studiosi, esperti ed opinione pubblica è come passare dalla democrazia partecipativa a quella diretta e/o deliberativa specialmente ai livelli di governo sub-centrali, adottando referendum deliberativi, mandati imperativi e procedure di recall (richiamo). Il Italia questo implicherebbe modifiche ragionate dell’art. 67 Cost e delle regole statutarie di regioni, aree metropolitane e comuni.
La riforma di Renzi riduce le sedi di partecipazione, centralizza molte delle funzioni delle RSO, lasciate invariate quelle delle RSS e il governo ci vuol far credere che la sua riforma implementa la democrazia. In questi termini, detta riforma si pone in contrasto con la Costituzione europea (TFUE) che adotta il modello partecipativo e prevede a livello consultivo il Comitato delle regioni e il Comitato economico e sociale dove sono presenti le rappresentanze dei sindacati di tutti i Paesi membri.
Il bischero toscano probabilmente ritiene che gli italiani siano completamente stupidi e totalmente disinformati e, quindi, non capiscano l’imbroglio sottostante la propaganda governativa sulla semplificazione, il taglio delle poltrone e la presunta velocizzazione del processo decisionale.

Elencherò adesso una serie di argomenti che, a mio giudizio, minano la legittimità della riforma costituzionale ed elettorale di Renzi.
1) è illegittima perché le riforme costituzionali vanno fatte dai Parlamenti e/o dalle assemblee costituenti e non dai governi di turno che sono parte in causa rispetto all’opposizione; le regole fondamentali del gioco democratico non vanno scritte da una sola squadra mentre si sta svolgendo la partita; per contro le riforme costituzionali vanno scritte da costituenti “avvolti nel velo dell’ignoranza”, ossia, senza sapere chi saranno gli avvantaggiati e svantaggiati delle medesime;
2) la riforma presenta aspetti di illegittimità perché Renzi e il PD non hanno avuto alcun mandato popolare per farla; nelle elezioni politiche del 2013 il PD non aveva come punto qualificante la riforma di tutta la seconda parte della Costituzione ma sostanzialmente il problema del rafforzamento della democrazia; nel Manifesto dei valori del 2008 il PD affermava che bisognava porre fine alla stagione delle riforme costituzionali approvate a stretto voto di maggioranza, utilizzando le stesse parole usate da un parallelo Manifesto di quattordici Fondazioni politiche che coprivano tutto l’arco costituzionale; Renzi non era candidato alle elezioni del 2013; punti fondamentali di questo Manifesto sono stati ripresi recentemente da D’Alema e Quagliariello che hanno proposto un progetto di legge molto semplice che riduce il numero dei parlamentari, conferma l’elezione diretta di Deputati e senatori; semplifica il processo legislativo introduce la Commissione di conciliazione che evita la tanto deprecata navetta;
3) neanche i sistemi elettorali vanno votati dalla sola maggioranza di governo, tanto meno, di un presidente del consiglio nominato dal Presidente della Repubblica con procedura alquanto dubbia; i sistemi elettorali devono raccogliere il consenso più ampio possibile per il semplice motivo che essi determinano la composizione del Parlamento (monocamerale o bicamerale). Da qui l’ineludibile nesso tra riforma delle istituzioni e sistema elettorale. In situazioni di forte frammentazione delle forze politiche, congiunta ad una fortissima percentuale di astenuti, l’Italicum, attraverso il previsto premio, consegna la maggioranza e il governo nelle mani di una minoranza poco rappresentativa;
4) i sistemi elettorali e la riforma costituzionale non possono essere approvati da parlamentari in gran parte nominati ed eletti con un sistema elettorale dichiarato incostituzionale con la Sentenza della Corte Costituzionale n. 1/2014; come noto, la Corte costituzionale doveva pronunciarsi sull’Italicum il 4 ottobre ma per motivi di opportunità la Corte stessa ha deciso di rinviare la seduta finale. In fatto, questo rinvio favorisce la linea del governo perché una probabile censura dell’Italicum avrebbe fortemente favorito l’opposizione schierata per il NO.
A mio giudizio, un problema analogo si pone per la stessa legittimità del Parlamento su cui tutti chiudono gli occhi in nome della stabilità del sistema; ora è comprensibile che la stabilità sia assicurata per il breve termine, ossia, per il tempo necessario ad approvare una nuova legge elettorale ma non è accettabile che, in modo o nell’altro, la situazione si prolunghi per quattro anni oltre la sentenza per consentire la conclusione della legislatura; un tale prolungamento potrebbe trovare una qualche giustificazione in situazioni di assoluta emergenza come una guerra, una catastrofe naturale di immani proporzioni, ecc.. Nel 2012 in Grecia per altri motivi le elezioni politiche sono state ripetute a distanza di un solo mese;

5) i sistemi elettorali non possono essere studiati e adottati per evitare o prevenire il successo elettorale di una forza politica assunta senza fondamento come eversiva e anti-sistema; per essere chiari il M5S ha ottenuto la sua rappresentanza in Parlamento con lo stesso sistema elettorale con il quale sono state elette le rappresentanze di tutte le altre forze politiche; e nessuna forza politica ha contestato la regolarità dello svolgimento delle elezioni;
6) la riforma costituzionale presenta aspetti di illegittimità perché l’obiettivo di fondo di Renzi è quello della P2, del Sindaco d’Italia, di un uomo solo al comando, di Berlusconi del 2005 – che abbiamo rigettato con il referendum del 2006 – di Veltroni del 2007-2008; un obiettivo che in nome della velocizzazione del processo decisionale, svaluta il ruolo delle assemblee legislative e sposa la deriva autoritaria e tecnocratica in essere in Europa e nel mondo;
7) perché la riforma costituzionale è del tutto irrilevante ai fini della soluzione dei veri problemi degli italiani: sette milioni di persone senza lavoro tra disoccupati e c.d. scoraggiati, la stagnazione secolare, la bassa produttività, la giustizia sociale;
8) perché questa riforma non affronta i problemi dello stato di diritto in Italia anzi li aggrava. Da circa 250 anni (vedi Montesquieu) per stato di diritto nel c.d. mondo occidentale si intende la separazione dei poteri: legislativo, esecutivo, giudiziario. Questa è la suddivisione orizzontale dei poteri; poi è arrivata quella verticale adottata nella Costituzione USA; la doppia suddivisione dei poteri garantisce meglio – secondo i padri costituzionalisti americani (in particolare Madison) – i diritti e le libertà fondamentali dei cittadini, moltiplica le sedi di partecipazione dei cittadini, implementa la democrazia federale che è assetto istituzionale più avanzato di quello di uno Stato centralista. Nello stato di diritto che identifica un sistema democratico, il governo sarebbe solo il capo dell’esecutivo ma il suo ruolo si è evoluto o involuto nel tempo. Negli ultimi decenni il governo, in fatto, ha espropriato quasi del tutto il Parlamento della funzione legislativa concentrando così due poteri nelle proprie mani. Da due decenni almeno, i governi si affannano a delegittimare la magistratura (il giudiziario) e la burocrazia (l’esecutivo) di cui è a capo lo stesso governo. Si vorrebbero separare nettamente le carriere dei pubblici ministeri da quella dei giudici giudicanti mettendo i primi alle dipendenze del ministro della giustizia e, quindi, di nuovo, rafforzando il potere del governo. Il progetto non è passato ma sono stati assunti ben altri provvedimenti che condizionano l’attività dei magistrati.
Sul terreno dell’esecutivo, si è introdotto lo spoil system (sistema delle spoglie) per far nominare gli alti dirigenti al governo e così indebolendo quelli di carriera. Se applicato massicciamente la nomina dei dirigenti dello stato porta ad un ulteriore concentrazione del potere in testa al governo a detrimento degli altri due poteri. Al riguardo, va tenuto presente che i funzionari pubblici applicano le leggi giornalmente e, quindi, svolgono un’attività analoga a quella dei giudici che operano per eccezione. Anche i funzionari pubblici devono godere di un certo grado di indipendenza dal governo se devono rispettare rigorosamente il principio dell’imparzialità che l’art. 97 comma 1 Cost prescrive loro.
A questo riguardo, è singolare che sia Renzi che la Boschi, nella loro campagna di disinformazione, ripetano continuamente che la loro riforma non è contro la democrazia ma contro la burocrazia.
Ora è noto che gli uomini non sono angeli e più alta è la concentrazione del potere nelle loro amni più forte diventa la tentazione ad abusarne non solo per fini di conservazione del loro potere politico ma anche di accumulo di ricchezza ed influenza personale. In una fase storica in cui alla lotta classe si sono sostituite le categorie del politico di Carl Schimtt (amico/nemico) più forte diventa la tentazione di proteggere gli amici e indebolire o addirittura togliere di mezzo i nemici.
PQM ritengo di aver dimostrato, in fatto e in diritto, che la riforma costituzionale di Renzi indebolisce ulteriormente l’attuale democrazia che già non gode buona salute per via della deriva autoritaria e tecnocratica in corso a livello europeo e mondiale.

Vincenzo Russo

tratto dal Blog  http://enzorusso2020.blog.tiscali.it/

Messaggio per i socialisti per il NO, di Felice Besostri

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Care compagne e cari compagni

non posso essere con voi oggi, se non con il cuore. Dal Gennaio di quest’anno sono le decine di manifestazioni che ho fatto, dai dibattiti pubblici, in particolare i confronti tra esponenti del SI’ e del NO ai seminari di formazione. Un impegno preceduto dal coordinamento di azioni giudiziarie contro la legge elettorale l’ITALIKUM ( lo scrivo con la kappa per sottolineare la sua estraneità ai principi democratici della Costituzione italiana) iniziato nel Novembre 2015. Finora sono stati presentati 23 ricorsi in altrettanti Tribunali e 4 sono già approdati in Corte Costituzionale da Messina a Torino, da Perugia a Trieste, l’ultima in ordine di tempo del 5 ottobre scorso. Una decisione che ho preso coordinando gli avvocati anti-italikum, un centinaio di legali, che in tutta Italia si battono senza onorari per difendere il nostro diritto di votare secondo Costituzione un principio fatto affermare, insieme con gli avvocati Bozzi e Tani con l’annullamento del Porcellum con la famosa sentenza n. 1/2014. Bisognava agire con decisione per impedire che si votasse una volta con una legge incostituzionale, come è avvenuto con il Porcellum per ben 3 volte nel 2006, nel 2008 e nel 2013. Dopo quella sentenza un Presidente della repubblica rispettoso del suo ruolo aveva una sola decisione da prendere invitare le Camere ad approvare un nuova legge elettorale rispettosa dei principi costituzionali e sciogliere le Camere. Invece non solo ha mantenuto in piedi un Parlamento delegittimato, ma addirittura autorizzato ex art. 87 c. 4 Cost. il governo a presentare, formalmente per la prima volta, un disegno di legge costituzionale contro l’insegnamento del grande giurista, uno dei  padri della patria, il liberalsocialista Piero Calamandrei: quando si discute di Costituzione i banchi del Governo devono restare vuoti. De Gasperi intervenne una ola volta in Assemblea Costituente , ma parlando dal suo posto di deputato e non come Presidente del Consiglio. Altri tempi.

Questa Costituzione è la nostra la scelta Repubblicana è stata di Pietro Nenni con lo slogan “LA REPUBBLICA O IL CAOS!”. Socialista, Lelio Basso è la mano che ha scritto uno degli articoli più belli della nostra Costituzione la seconda parte dell’art. 3: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e la uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.”  Socialista è stata la più coerente e determinata opposizione alle leggi elettorali maggioritari Matteotti contro la legge Acerbi nel 1923 e Nenni contro la Legge truffa del 1953. Leggi peraltro che prevedevano una percentuale minima per far scattare il premio di maggioranza il 25% la legge Acerbo e addirittura il 50%+ 1 la legge truffa e nessuna soglia di accesso. Matteotti, Turati e Gramsci sono pur entrati in Parlamento, con percentuali inferiori al 4%. Legge elettorale e revisione costituzionale sono strettamente legate benché dal governo lo si voglia negare. Di questo si è reso conto il PSI con l’unico voto unanime del Consiglio Nazionale contro L’Italikum: un voto rapidamente tradito da Nencini e i suoi seguaci. Stiamo facendo un referendum truccato ridotto a spot pubblicitario a reti unificate RAI e Mediaset e grande stampa. Senza la 7, il Fatto Quotidiano e il Manifesto il NO non avrebbe voce , se no quella dei militanti e dei cittadini sul territorio. In questa situazione è stupefacente che nei sondaggi il NO sia sempre avanti.

Ma non dobbiamo stare tranquilli perché applicando il margine di errore dei sondaggi pari al 3% si tratta di una sostanziale parità. Ogni voto in assenza di  quorum sarà decisivo e quelli decisivi saranno quelli raccolti uno ad uno dai vostri familiari, amici, vicini, colleghi di lavoro o di studio. Il quesito referendario è distorsivo: “Approvate il testo della legge costituzionale concernente “disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del Cnel e la revisione del Titolo V della parte II della Costituzione”, approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta ufficiale n. 88 del 15 aprile 2016?”

Il primo aspetto problematico è legato al testo stesso del quesito, poiché la revisione costituzionale non contiene solo gli argomenti menzionati nel quesito referendario ma anche:

  1. Modifiche alla elezione del Presidente della Repubblica e Riduzione del suo potere di scioglimento delle Camere
  2. Modifiche alla elezione dei membri della Corte Costituzionale di nomina parlamentare
  3. Modifiche in materia referendaria e di partecipazione popolare
  4. Disposizioni sulle modifiche agli Statuti delle Regioni a Statuto speciale e della Province autonome di Trento e Bolzano

Questi argomenti sembrano più importanti della soppressione del CNEL( uno dei tanti finti risparmi), di cui tra l’altro, in caso di vittoria del sì,  l’intero personale resta a carico dello Stato, in quanto trasferito alla Corte dei Conti e i costi di manutenzione dell’immobile già sede del CNEL, di cui non è stata prevista l’alienazione.

Il risparmio sui costi del Senato 54  milioni su 560 milioni di costo non è un risparmio ma il prezzo per averci rubato il diritto di voto: ce lo pagano quanto un caffè all’anno per ogni cittadino elettore, nemmeno quello se consideriamo tutti gli italiani. Il presunto tetto alle indennità dei consiglieri regionali previsti dal nuovo articolo 122 Cost. in Lombardia se parametrato al Sindaco di Milano comporterebbe più del loro raddoppio.

Per far digerire la pillola ci dicono il nuovo senato sarà comunque rappresentativo perché voi eleggete i consigli regionale e questi eleggono i consiglieri reginali senatori CON METODO PROPORZIONALE ( nuovo art. 57 c. 2). Ebbene in 10 regioni e province autonome i senatori sono solo 2, di cui uno sindaco: come i faccia ad eleggere con metodo proporzionale UN SENATORE? O anche 2 in Sardegna e Calabria?

Le garanzie diminuiscono e soprattutto il Presidente della repubblica diventa un ostaggio nelle mani del Presidente della Repubblica: bastano 366 voti per metterlo in stato d’accusa, chi vince alla Camera parte da 340 seggi cui si aggiungo i rappresentanti delle regioni a statuto speciale , che conservano tutti i loro privilegi, che non possono essere diminuiti se non con il loro consenso , mentre le altre compresa la nostra hanno un’autonomia praticamente annullata. Ci sarebbero altre cose da aggiungere contro questa deforma costituzionale, basta usare la parola RIFORMA anche per criticarla. Per noi socialisti la parola RIFORMA è sacra non rubatela per le vostre manovre di controllo politico del Paese. Solo il NO è premessa di cambiamento che pone come primo compito di attuare la Costituzione  non di demolirla.

Buon lavoro e sempre AVANTI!

Felice Besostri

Fermiamoci finché siamo in tempo e proviamo a riflettere, di Alberto Benzoni

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Alberto Benzoni

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La lunghezza spropositata di questa campagna referendaria non ne sta migliorando certamente la qualità. Niente più, ammesso che ci sia mai stata, serena discussione tra esperti sul merito della proposta. E nessun chiarimento su alcuni punti dirimenti nel giudizio sulla medesima; che si tratti della legge elettorale o di un eventuale ripristino del meccanismo elettivo per quanto riguarda il Senato.
Stiamo andando, invece, irresistibilmente, verso l’Ok Corral; con la relativa eliminazione dei cattivi da parte dello Sceriffo e dei suoi aiutanti. E stiamo andando, anche, verso la delegittimazione, insieme politica e morale, dell’opposizione attraverso l’attacco personale e indiscriminato nei confronti dei suoi principali esponenti, accusati, in un amalgama del tutto abusivo, non solo di frenare l’avvento delle migliori sorti e progressive dell’Italia ma anche di farla precipitare nel caos e nell’avventura.
Tutto questo non deve indurci al vittimismo o, peggio ancora, a rispondere sullo stesso tono ( “tu attacchi D’Alema e io ti contesto Verdini”). Ma dobbiamo, questo sì,approfondire sino in fondo le ragioni del nostro no: per renderlo più radicale e al tempo meno di parte.
La “spropositata lunghezza”della campagna referendaria deve servire anche a questo. A sentire, e a comunicare agli altri il discrimine di fondo, quello su cui non è possibile alcuna mediazione, che separa i sostenitori del no da quelli del sì. E ad individuare questo discrimine nella visione che si ha dell’Italia: per quelli del sì un “sistema”in concorrenza con altri e da rendere più efficiente; per noi una comunità da rendere migliore.
Oggi, questa comunità è gravemente minacciata: non dal dispositivo del referendum ma dal disegno politico che l’ha determinato. E, ancora, non da Renzi e dal suo governo ma da quello che l’uno e l’altro rappresentano: la cultura e la visione politica della seconda repubblica.
Di referendum l’Italia ne ha visti tantissimi, alcuni dei quali divisivi e determinanti per la nostra collettività nazionale. Monarchia o Repubblica, Divorzio, Aborto. In tutti questi casi i verdetti sono stati accettati dagli sconfitti. E non comportavano né rese dei conti né ferite aperte. Questo, invece, lo si voglia o no, prelude, in caso di vittoria del sì ad una resa dei conti di entità imprecisata e incontrollabile; ed ha già, nel suo stesso svolgimento, intossicato gravemente il clima del paese.
Di referendum, le democrazie occidentali ne conoscevano, almeno sino ad oggi, due tipi: quello, necessariamente concordato tra le forze politiche, tendente a costruire ex novo o a correggere in alcuni punti, l’assetto costituzionale; quello nato da una crisi sistemica e proposto dal leader che possedeva le chiavi per la sua soluzione. In chiaro, da una parte la Costituzione del 1947 e gli emendamenti a quella americana; dall’altra De Gaulle e la sua V repubblica.
Quelli che non conoscevamo, quelli praticati nei paesi di “democrazia illiberale” sono, invece, di tutt’altro tipo: sono proposte varate dal partito o, più spesso, dal Leader al potere e tendono o a prolungare, nel tempo, il suo mandato o ( come in Italia) ad accrescerne i poteri.
Certo, Renzi non è né Putin né Erdogan. E non manderà, in caso di vittoria, giudici o agenti a chiudere “Il Fatto quotidiano”o a silenziare i suoi oppositori. Però la qualità del suo disegno è la stessa; e porta con sé, insieme, la radicalizzazione dello scontro e la totale delegittimazione dell’opposizione. Risuscitando così a suo uso e consumo, quel fattore K, ora P ( sta per populismo) e senza alcuna possibilità di dialogo e di collaborazione.
Da una parte, dunque, il governo senza alternative ( “c’è solo Renzi”nella vulgata dei sostenitori del sì); dall’altra una opposizione accusata di tutto e del suo contrario; di essere conservatrice e di essere eversiva.
E’ un clima irrespirabile. Ma è anche il clima costruito, anno dopo anno, dagli “intelligenti cretini” ( sono i più pericolosi) che hanno presieduto alla nascita della seconda repubblica, curandone i mali con sempre maggiori dosi della ricetta iniziale.
Parliamo, soprattutto, del bipolarismo come sciroppo di Dulcamara atto a rendere politica e politici più efficienti e virtuosi. Scellerata incoscienza in un paese segnato da secoli dal gusto della faida, con la relativa uccisione del vicino. Scellerata incoscienza in un paese che non aveva in sé nessuno dei necessari anticorpi- non il senso dello stato, non il rispetto delle regole, non la presenza di istituzioni e di autorità che godessero la fiducia dei cittadini, non il senso collettivo dell’appartenenza alla stessa collettività.
Scellerata incoscienza in un paese dove non c’era mai stata ( se non agli albori dello stato nazionale) una destra “liberale ed europea” e dove, sull’altro fronte, non avevamo la socialdemocrazia ma un partito che aveva “perso tutto salvo il suo Breil”; leggi il senso di superiorità morale e la spinta incoercibile a “fare politica con altri mezzi” ricorrendo alla magistratura o all’Europa per sbarazzarsi di un avversario che non era stato possibile battere sul terreno elettorale.
In questo quadro Renzi e il quesito referendario appaiono per quello che sono: il tentativo pericoloso di modificare a vantaggio di chi governa le regole del gioco; l’utilizzo senza freni dello schema bipolare; l’avallo definitivo di vent’anni segnati dalla diminuzione dei diritti; e, in conseguenza di tutto questo, l’imbarbarimento del confronto politico e del clima del paese.
Così stando le cose, a chi ci chiede cosa accadrà dopo la vittoria del no, dobbiamo rispondere ” pericolo scampato; linea del Piave difesa. E, adesso fermiamoci tutti; per ragionare, insieme, sul nostro futuro. A partire dalla riscoperta dei valori, dei protagonisti e delle istituzioni della democrazia”.

Albero Benzoni

Perché votare NO, di Angelo Sollazzo

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Angelo Sollazzo 2

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Le eccessive semplificazioni nel dibattito politico sul Referendum del 4 Dicembre, allontanano l’attenzione sul contenuto e sulla portata politica della consultazione referendaria.
Di Renzi e delle sue pericolose giravolte ed esternazioni diremo più in avanti, ma occorre, per evitare equivoci, trattare la materia nel contesto in cui si chiede la modifica della Costituzione ed i contenuti della cosiddetta riforma.
Siamo di fronte alla proposta di modificare 47 Articoli della Legge suprema che regola la convivenza di un comunità.
Da chi arriva tale proposta? Da un Premier diventato tale con il tradimento nei confronti di un collega di Partito (Letta stai sereno!!), mai eletto dal popolo, da una giovane avvenente avvocato, senza esperienza alcuna della materia, dello stesso giro fiorentino, e con l’ausilio di altro fiorentino, Verdini, plurindagato e vero ispiratore del renzismo degli ultimi tempi.
Ma non basta la proposta di Riforma viene approvata da un Parlamento dichiarato illegittimo dalla Corte Costituzionale per via della legge elettorale (Porcellum) e con una trasmigrazione di 230 parlamentari da un partito all’altro e quindi non corretti con il mandato ricevuto dagli elettori.
Insomma la Costituzione Italiana promulgata il 1° Gennaio del 1948, considerata da tutta la società politica la migliore in assoluto, redatta,tra gli altri, da Croce,Einaudi, De Gasperi, Lombardi e Togliatti, subisce una ferita profonda da Renzi, Verdini e Boschi. Ci sarebbe da ridere se non fosse una materia tanto delicata.
Da qui è partito il festival delle bugie. Renzi presenta la sua Riforma come atto fondamentale per la crescita economica, a parte i risultati di cui parleremo più in avanti, ma come c’entra una riforma delle istituzioni con l’intervento in economia nessuno può capirlo. Altra bugia sul risparmio del costi della politica.Il Nostro era partito lo scorso anno dichiarando che si sarebbe risparmiato un miliardo, da destinare alle pensioni basse, poi ,rendendosi conto di averla sparata grossa, è sceso ad un risparmio di 500 milioni, in fine quando la Ragioneria dello Stato, non gli avversari politici, hanno rifatto i conti il risparmio si vedeva ridotto a 48 Milioni, a cui sottrarre la tassazione per i mancati emolumenti ai Senatori , si arrivava a 24 Milioni, considerando trasferte e diarie il risparmio diventa vicino allo zero. Dell’argomento il Premier non parla più, ma si sofferma in maniera subdola sulla diminuzione dei politici in carriera. bel coraggio se si pensa che ha riempito Palazzo Ghigi ed Enti pubblici di amici, quasi sempre fiorentini, e occupa ogni spazio possibile con i suoi uomini, vedi RAI.
L’aspetto più allarmante è nella riduzione degli spazi di democrazia. Con la nuova legge elettorale i deputati vengono non eletti dal popolo ma nominati dai Segretari di Partito, con l’artificio dei capo-lista bloccati e degli accordi tra le correnti. Per il Senato ancora peggio, poiché i senatori verrano nominati dai Consigli Regionali, frutto di accordi su incarichi vari, Giunta,Commissioni ed ora anche Senatori. Dopo gli scandali che hanno colpito quasi tutte le Regioni italiane sui costi dei Gruppi, ora diamo il premio di divenire parlamentari del fine-settimana con l’aggiunta dell’immunità parlamentare. Bel capolavoro!!!
Il popolo sovrano, come recita la Costituzione, può ,se approvata la Riforma, anche astenersi dall’andare a votare visto che decide tutto il vertice del Partito.
La soluzione logica sarebbe stata quella di dimezzare il numero dei parlamentari, 400 deputati e 100 senatori, con l’elezione diretta da parte dei cittadini, ovvero abolendo del tutto il Senato. Questo pastrocchio è davvero indigeribile.
Se andiamo all’articolato, vediamo un obbrobrio nell’articolo 70, riguardante l’esercizio legislativo, che ad oggi affida alle Camere tale potere con solo nove parole, nella proposta di modifica le parole sono diventate 442, con errori grammaticali, con riferimenti confusi, e con un contenuto incomprensibile. Il cittadino comune di fronte ad un quesito che dovrebbe spiegare il tipo di modifica resta basito e non riesce ad esprimere il suo orientamento. Altro che quesiti brevi e chiari.
Il nuovo Senato può richiamare per discuterla, entro 10 giorni, una legge approvata dalla Camera, si occupa in modo prevalente dei Trattati internazionali, interviene sulle controversie tra le istituzioni dello Stato etc. Insomma che Riforma è, se bastava togliere la doppia lettura delle leggi ed il voto di fiducia al Governo?
Quanto sopra senza considerare le difficoltà logistiche ed operative dei Senatori che, in quanto Consiglieri Regionali, hanno da seguire da vicino gli aspetti legislativi ed amministrativi del proprio territorio e la incombenza di andare Roma settimanalmente per assolvere al compito di parlamentare diventa pressoché impossibile. Ridicola è la motivazione di velocizzare il varo delle leggi evitando lungaggini. In Italia il tempo di approvazione delle leggi è il più breve in Europa, Renzi governa a colpi di voti di fiducia, il Parlamento è stato quasi del tutto svuotato delle proprie prerogative. Siamo di fronte ad una metamorfosi della democrazia che diventa gestione padronale, al di là delle stesse volontà renziane.
Occorre aggiungere che per il CNEL sarebbe bastata una legge ordinaria per svuotarlo, e per le Regioni un controllo più puntuale sulle loro attività, anche attraverso la Corte dei Conti, visto che il titolo V era stato partorito proprio dal Centro-Sinistra. Da Stato federale, come si voleva, ritorniamo a Stato accentratore.
La Costituzione americana ha 230 anni ed è stata modificata solo due volte, la prima, nel 1920, per dare il voto alle donne, e la seconda nel 197i per dare il voto ai 18enni. Noi, votati al suicidio, modifichiamo ciò che ancora non abbiamo applicato compiutamente.
Il giudizio da dare di fronte a tali macroscopici errori è che siamo capitati in mano a dilettanti, non eletti e non preparati nella materia, ma presuntuosi ed arroganti, convinti che il solo giovanilismo possa coprire le carenze culturali.
Vi sono giovani vecchi, come vi sono vecchi giovani, ed un impegno tanto gravoso non può essere affidato a seconda dei dati anagrafici.
All’inizio dell’impresa renziana molti prestavamo attenzione con simpatia a questo nuovo modo di far politica, basato sugli annunci tracotanti, sulla velocità degli interventi e sulla sicumera di essere capaci di fare tutto ed in fretta. Sembrava che finalmente era arrivato qualcuno che la facesse pagare ai vecchi politici, che pure di danni ne avevano fatti tanti, e ringiovanisse l’ambiente con rottamazioni varie e con nuove qualità.
Risultato? Un disastro!!! Dopo tre anni non esiste una sola riforma renziana che funzioni. Dopo tre anni la crescita economica tanta sbandierata è a zero, il famoso JobsAct è risultato un colossale fallimento ed un regalo a Fiat e soci. I dati di oggi rilevano una diminuzione di oltre il 30% dei contratti a tempo indeterminato e, senza l’articolo 18, una impennata dei licenziamenti, alla faccia delle tutele crescenti, la RAI sembra diventata la TV del PCUS, la buona scuola è diventata pessima, nelle mense dei poveri della Caritas il 60% sono italiani, la povertà assoluta supera i 4milioni di cittadini, quella percepita altri 4 milioni per un totale di 8, la disoccupazione naviga attorno al 12% , quella giovanile attorno al 40%, i consumi ristagnano e la produzione industriale è ferma, l’emigrazione italiana verso l’estero è ritornata a crescere e dal 2008 ad oggi circa 800mila italiani si sono rifugiati all’estero. Gli scandali di questi anni fanno rimpiangere la Prima Repubblica con Mose Expo,Terremoti Aquila ecc., Petrolio-Basilicata per non parlare delle Banche con Etruria,Vicenza Marche e Popolari varie. La seconda batte la prima repubblica 100 a 1.
E’ questo il nuovissimo che si voleva, questo è il modo di rinnovare la politica e la classe dirigente?

Ancora più convintamente NO

Angelo Sollazzo

La democrazia dell’Assemblea Costituente e una legge elettorale efficace (pensiero e politica nel primo Francesco De Martino), di Marco Zanier

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Io credo che parlare di Assemblea Costituente, anche in campo socialista, senza citare chiaramente le idee degli uomini e delle donne che ne hanno fatto parte non sia corretto.

Dico questo perché durante il periodo compreso tra il 25 giugno 1946 ed il 31 gennaio 1948 a discutere, ragionare e materialmente scrivere la nostra Costituzione c’erano delle persone reali, con idee ed impostazioni differenti, ma con un passato condiviso : la lotta clandestina contro il fascismo e gli occupanti tedeschi, combattuta a lungo con le armi e con le idee da fronti politici diversi uniti da una grande voglia di libertà.

Tenere conto di tutte le istanze che vennero portate avanti dalle componenti politiche più differenti ma ugualmente vincitrici del conflitto contro il regime e quindi in grado di sedersi assieme per decidere su quali basi e con quale impostazione organizzare la struttura fondamentale del nostro Stato è un lavoro complesso, enorme, se preso nella sua interezza. Ci si sono impegnate con ottimi risultati menti più duttili e sicuramente più preparate della mia. Non credo sia utile tentare di ricostruirlo in questa sede. Al contrario, penso che possa essere ancora di qualche interesse e certamente di grande attualità riannodare in parte il filo dei ragionamenti che portarono alcuni esponenti di una parte della sinistra, quella che poi contribuì a rimettere in piedi il Partito socialista italiano, ed in particolare di quello che ne sarebbe divenuto presto un protagonista importante e più tardi per tre volte il segretario, dopo aver guidato a lungo il partito al fianco di Nenni: sto parlando di Francesco De Martino.

Nato a Napoli il 31 maggio 1907 da una famiglia della media borghesia, dopo aver frequentato l’Università Federico II di quella città nella Facoltà di Giurisprudenza, in cui insegnava anche Arturo Labriola, esservisi laureato nel 1933 ed essere diventato professore ordinario nel 1941, venendo poi chiamato dall’Università di Bari a ricoprire la cattedra di Storia del diritto romano, Francesco De Martino nel 1943 si era iscritto al Partito d’Azione. L’anno successivo, dopo la liberazione di Napoli, si era schierato all’interno della componente di ispirazione socialista, che aveva in Emilio Lussu il suo principale esponente. Come membro autorevole della corrente di sinistra, in contrasto con la parte più moderata capeggiata da Ugo La Malfa e Adolfo Omodeo, aveva partecipato attivamente al dibattito interno e al congresso di Cosenza nell’agosto di quell’anno, presentando assieme ad Emilio Lussu un ordine del giorno, approvato a larga maggioranza dai delegati, contribuendo alla affermazione di una linea politica più marcatamente socialista ed entrando a far parte dell’esecutivo nazionale. Nel Partito d’Azione sarebbe restato fino al suo scioglimento, confluendo, nel 1947, nel Partito socialista italiano, aderendo alla corrente di Lelio Basso, eletto segretario dopo la scissione socialdemocratica di Palazzo Barberini voluta da Giuseppe Saragat.

È con questa impostazione e queste premesse che Francesco De Martino,che non era ancora eletto in Parlamento (vi entrerà nel 1948 e vi resterà fino al 1983), contribuisce, dall’interno del Partito d’Azione, con proposte ed articoli pubblicati sul giornale di riferimento “L’Azione”, a stimolare alcuni temi oggetto dei lavori dell’Assemblea Costituente, elaborando un suo percorso, a mio avviso interessante, da cui si può capire molto del suo socialismo degli anni seguenti.

Le scelte del giovane Francesco De Martino

Per capire meglio il personaggio ed il contesto politico in cui si trovò ad operare, è utile secondo me, consultare due fonti dirette, vale a dire due testimonianze dello stesso Francesco De Martino rilasciate più tardi in occasione di occasione di studi approfonditi sul Partito d’Azione a Napoli e sul suo ruolo politico in quegli anni. La prima è questa, del 1975:

Nel 1943 chi scrive si era buttato nella lotta politica con l’entusiasmo e la passione di chi per lunghi anni aveva atteso la caduta del fascismo e la restituzione della libertà e nell’insegnamento universitario e nell’attività scientifica aveva trovato una certa tranquillità della coscienza di fronte alla miseria dei tempi. La scelta del P d’A fu una scelta per questa rottura ed anche per qualcosa di nuovo, di diverso dai vecchi partiti, che quasi ragazzi avevamo visto dissolversi nel 1922-25 e che coscientemente o meno ritenevamo responsabili per errori o debolezze della vittoria del fascismo. La questione istituzionale si poneva a noi come un’esigenza morale prima ancora che politica, una necessità della nostra coscienza. […] 1

La seconda è questa, del 1991:

Ma allora perché non eravate andati col Partito socialista? Si potrebbe obiettare. Perché non ci credevamo, perché credevamo che il Partito socialista fosse il responsabile o uno dei responsabili degli errori compiuti all’avvento del Fascismo e anche perché, come partito, non singole personalità attive nella lotta, era stato assente in Italia durante il periodo clandestino. Per queste ragioni, cercavamo qualcosa di nuovo: perciò molti intellettuali e non, me compreso, che si sentivano tendenzialmente socialisti, scelsero il Partito d’azione e non il Partito socialista. Errore grave di analisi e valutazione, perché evidentemente non avevamo valutato un altro elemento che non dovrebbe essere assente in nessuna ricerca storico-politica, cioè la grande forza di una tradizione che spingeva verso il Partito socialista un’infinità di persone che non aveva saputo niente della politica perché nata e vissuta sotto il Fascismo, ma aveva sentito dai padri, dagli antenati, vagamente parlare di questo socialismo e che intravedeva nel socialismo lo strumento per realizzare un’ansia di uguaglianza, di libertà, di progresso. […]2

Insomma il giovane professore universitario e futuro segretario del PSI Francesco De Martino, negli anni dell’Assemblea Costituente era entrato nel Partito d’Azione per creare qualcosa di nuovo e di utile al Paese, non conoscendo la reale portata dell’attrattiva che il socialismo italiano esercitava ancora su tantissime persone e soprattutto, aggiungo, ignorando il grandissimo lavoro politico clandestino che portato avanti negli anni Trenta soprattutto nell’Italia settentrionale dal Centro socialista interno guidato per tanti anni da Rodolfo Morandi e che aveva visto tra le sue fila Lelio Basso, Eugenio Colorni, Lucio Luzzatto ed Eugenio Curiel3.

Una testimonianza autorevole e diretta, la voce narrante di Gaetano Arfé, lo storico più importante del socialismo italiano, ci aiuta disegnare con chiarezza i contorni del socialismo meridionale di quegli anni4:

Il Sud ha conosciuto gli eccidi contadini nell’età giolittiana, ma la violenza squadristica è stata episodica e localizzata e non vi ha creato i fermenti necessari allo sviluppo di una cospirazione potenzialmente di massa, non vi è passata la resistenza. […] Tra le eredità di segno negativo è anche quella che Napoli non è mai stata il centro di irradiazione di idee e di impulsi all’azione in direzione delle altre regioni del Mezzogiorno e della sua stessa provincia. […] Non stupisce perciò che negli anni del fascismo il socialismo sopravviva soltanto in alcune figure di rilievo, tra le quali il salernitano Luigi Cacciatore, prematuramente scomparso, ed il lucano Oreste Lizzadri, operante però a Roma, avranno parte di primo piano nella condotta del partito e del movimento sindacale nei primi anni della repubblica. Noti alla polizia e vigilati, isolati e senza rapporti tra loro, relegati in un ambiente dove il socialismo, come il Cristo di Carlo Levi, fuori che in pochi casi si era fermato alle soglie delle campagne ed era mal penetrato anche nelle città, privi di riferimenti specifici ai temi meridionalistici, nella tradizione socialista, i socialisti meridionale non riescono a costruire l’embrione di un gruppo potenzialmente dotato di un autonomo sviluppo.

Un clima non propizio all’emergere di figure nuove interessate a far rinascere il socialismo nel Meridione, se non fosse che, come spiega ancora Arfé:

Il richiamo al socialismo può essere a questo punto riproposto in una dimensione che travalica i confini politici del partito e quelli geografici del Mezzogiorno. Nel meridionalismo della sinistra confluiscono infatti, in un clima di appassionato impegno, i motivi della antica polemica salveminiana che dall’interno del movimento socialista aveva preso le mosse e quelli maturati nella Torino operaia di Gramsci e di Gobetti, gli studi e le riflessioni del gruppo di giovani comunisti raccolti da Amendola, addottorati più d’uno di essi presso la facoltà di Agraria di Portici, e le esperienze nazionali e internazionali di rivoluzionari professionali quali Di Vittorio e Grieco.

Quindi se non nel Partito socialista (poco radicato nel Meridione e senza i fermenti necessari che portarono il Settentrione alla Resistenza) ma dall’interno del Partito d’Azione stando bene attento all’attrattiva forte che esercitava il socialismo su moltissime persone, se non nel clima culturale assonnato della sua Napoli ma nel meridionalismo della sinistra, inteso anche in chiave gramsciana, con lo sguardo rivolto a quello che si muoveva a sinistra nel Sud del Paese, di cosa parlava il giovane Francesco De Martino negli anni cruciali che vanno dall’armistizio alla caduta del fascismo? Guardava alla necessaria fondazione della Repubblica italiana, come uomo di sinistra sempre più vicino al socialismo, consapevole dei problemi seri e complessi che bisognava impostare e risolvere. Così affrontava in quegli anni la responsabilità di porre i problemi più importanti del nuovo Stato italiano in costruzione, magari per poterlo governare quanto prima insieme alle altre forze della sinistra.

Il ruolo dell’Assemblea Costituente

In pratica, il tema fondamentale di quegli ani non era il meridionalismo, ma era la Repubblica e per la Repubblica ci si batteva, oltre che nelle questioni interne per la definizione del partito5.

È con questo spirito che guardava all’Assemblea Costituente. Ma questa cos’era esattamente? Una definizione efficace ce la fornisce proprio lui nel 19456:

L’Assemblea costituente è un organo sovrano, al quale il popolo conferisce, per mezzo delle elezioni, i più ampi poteri rispetto alla formazione del nuovo Stato italiano. Non si può porre alcun limite preventivo a quest’organo: il potere di sovranità ad esso conferito è illimitato per sua natura ed essenza. Esso è molto più vasto dei poteri di un qualunque capo di stato, perché questo è sottoposto a leggi preesistenti mentre la Costituente non è sottoposta a nessuna legge costituzionale, in quanto essa è la fonte delle leggi costituzionali. […] Com’è ovvio, la posizione sovrana dell’assemblea costituente non può confondersi con quella di un qualunque organo dispotico, perché essa deriva i suoi poteri dal popolo, convocato da liberi comizi, è destinata ad una vita del tutto tranquilla e di breve durata, è composta dai rappresentanti di tutti i partiti, e garantisce ad essi il pieno rispetto del metodo democratico.

L’Assemblea Costituente era stata creata per dare vita alla Carta fondamentale dello Stato italiano ed aveva poteri superiori a qualsivoglia governo perché il suo mandato derivava dal popolo e si esprimeva attraverso il confronto democratico dei rappresentanti di tutti i partiti. Una precisazione che oggi, in tempi di riscrittura e stravolgimento dell’impianto complessivo della Costituzione da parte della sola maggioranza di governo risulta ancora molto molto utile ed attuale.

La ricerca di una legge elettorale efficace

L’altro tema da chiarire oggi, sfogliando le carte del Francesco De Martino non membro della Costituente ma del Partito d’Azione napoletano, è quali problemi si ponesse nell’affrontare la creazione di una legge elettorale giusta ed efficace. Molto utile, a questo fine, è continuare la lettura di quello stesso articolo:

È noto che, a grandi linee, i sistemi elettorali possono dividersi in due categorie: quelli che lasciano le minoranze senza tutela e quelli che ad esse riconoscono una rappresentanza più o meno adeguata alla loro entità. I primi hanno il vantaggio di permettere quasi sempre la formazione di maggioranze compatte ed omogenee, le quali nelle democrazie parlamentari possono esprimere governi forti ed autorevoli. Ma essi hanno il grave difetto di opprimere le minoranze e di trasformarsi in veri e propri strumenti di potere egemonico e dispotico del partito più forte, con il pericolo implicito di spingere le minoranze sul terreno della lotta illegale e rivoluzionaria. I secondi hanno vantaggi e vizi precisamente opposti. Essi assicurano una larga tutela alle minoranze, creano una rappresentanza politica che rispecchia fedelmente le divisioni del paese e consolidano il gioco normale della democrazia, che consiste nel perenne alternarsi delle varie correnti politiche al potere. Ma, soprattutto in paesi dove mancano grandi partiti politici con ricche esperienze e solide tradizioni, quei sistemi producono il frazionamento dei gruppi parlamentari, donde consegue la necessità di governo di coalizione, con tutti i mali connessi alle coalizioni politiche, vale a dire debolezza del potere centrale, tendenza piuttosto all’accordo sul non fare che all’accordo sul fare, soprattutto frequenti e lunghe crisi di governo.

Ma allora se i sistemi elettorali che non tutelano le minoranze, che danno via a governi forti, non vanno bene perché spingono implicitamente le minoranze alla lotta illegale ed alla prassi rivoluzionaria, se quelli che tutelano di più le minoranze non vanno bene perché danno vita ad esecutivi deboli, all’alternarsi di differenti correnti politiche al potere e spesso basati sull’accordo sul non fare tipico delle coalizioni, cosa aveva in testa nell’immediato secondo dopoguerra e cosa proponeva all’attenzione dei lettori de «L’Azione» ?

Un’ approfondimento di questi limiti lo troviamo in un altro suo intervento, un inedito non concluso, datato 1946, che è un lungo e articolato ragionamento sui molti aspetti che doveva, secondo lui, risolvere in tempi brevi l’Assemblea Costituente7:

Ma il problema della rappresentanza non è autonomo. Esso va collegato con l’altro problema, non meno importante e fondamentale, della costruzione degli organi dell’esecutivo. L’esperienza storica ci ha insegnato che questi due problemi richiedono il più delle volte soluzioni contrastanti. Più fedele è la rappresentanza e più è difficile creare un governo che sia unito nella volontà di realizzare una politica omogenea. Nella migliore delle ipotesi il governo sarà paralizzato da forze antitetiche, che non riescono ad intendersi su di un minimo di azione collettiva. La grande crisi italiana, che aprì la strada al fascismo nel 1922, fu anche la crisi di un esecutivo debole e paralizzato dalla mancanza di omogeneità. […] Non credo sia il caso di fermarsi nel collegio uninominale. Esso è condannato nella coscienza civile del nostro paese da una lunga esperienza negativa. Indubbiamente attraverso quel sistema si affermarono forti personalità di politici e di statisti, sia in campo conservatore che in campo democratico. Ma si affermarono anche interessi particolaristici, clientele, grossi personalismi che furono causa di corruzione del metodo liberale e fecero degenerare il parlamento.

Ed in questo stesso intervento, poco più avanti, troviamo alcune risposte ai dubbi che ci sono sorti leggendo:

Si potrebbe altresì stabilire un limite al potere dell’assemblea di porre il governo in minoranza, richiedendo maggioranze qualificate e vietando che si abusi delle questioni di fiducia nei dibattiti secondari. […] tutte le minoranze devono essere rappresentate, ma il partito più forte deve essere in grado di governare da solo cioè di avere un numero di seggi che gli permetta di assicurarsi una maggioranza nell’ assemblea.

Rispetto delle differenti opinioni espresse dal voto popolare, rappresentazione di tutte le minoranze in Parlamento, ricerca di un meccanismo che consenta con chiarezza la governabilità del Paese al partito più forte uscito dalle urne. Questi i problemi sul piatto messi da De Martino nel 1945 e 1946.

Su questi temi ritornerà più tardi, negli anni dei governi di centro-sinistra, nel 35° Congresso del PSI del 19638, poco prima di essere nominato Segretario del Partito9:

Esiste, certo, in tutti i paesi d’Europa un problema di efficienza del potere legislativo. Le misure di massima che vengono indicate, non sono rivolte ad accrescere il potere del Parlamento, ma se mai – e questo si potrà constatare nel corso dell’azione legislativa – si risolvono nel liberare il Parlamento di cose secondarie e minute, per riservargli grandi compiti che gli sono propri, in una fase in cui si affronta per la prima volta una esperienza di programmazione economica.

Quindi è impostando la grande opera riformatrice del governo Moro, il primo che vedeva la partecipazione dei socialisti al potere accanto ai democristiani e l’inizio della fondamentale stagione del centro-sinistra che avrebbe ridisegnato con Tristano Codignola il profilo della scuola media pubblica e sancito i diritti fondamentali di tutti i lavoratori nello Statuto voluto da Giacomo Brodolini, che l’allora vice- segretario del PSI Francesco De Martino si poneva il problema di accrescere il potere del Parlamento per impostare coerentemente la programmazione economica. Esattamente l’opposto di quello che sta facendo oggi il governo Renzi con riforme contro gli interessi della scuola pubblica e contro gli interessi della grande massa dei lavoratori che si sono visti mutilare i loro diritti da leggi approvate a colpi di maggioranza ottenuta con la fiducia imposta dal governo al Parlamento su un programma di fatto conservatore portato avanti da un partito fintamente democratico coi voti determinanti di elementi di centro-destra.

La scelta obbligata dei socialisti oggi

Oggi gli italiani sono chiamati a decidere nel Referendum costituzionale del 4 dicembre se scardinare, votando SI, l’equilibrio costituzione garantito dai pesi e i contrappesi accuratamente elaborati dall’Assemblea Costituente o difendere questi delicati equilibri che permettono il rispetto del gioco democratico e il pluralismo, votando NO. I socialisti come noi non possono avere dubbi: dobbiamo votare e far votare NO.

Lo dobbiamo alla nostra lunga storia che va da Filippo Turati a Rodolfo Morandi, da Lelio Basso a Francesco De Martino, da Giacomo Brodolini a Tristano Codignola, da Riccardo Lombardi a Vittorio Foa. Lo dobbiamo al nostro essere stati la prima forza della sinistra nata in Italia più di centoventi anni fa ed aver voluto ricostruire l’unità del movimento operaio elaborando e praticando un’alternativa credibile al governo dei poteri forti e degli interessi dei pochi contro le necessità della maggioranza che lavora con fatica sperando di avere un giorno una vita migliore.

Lo dobbiamo a Francesco De Martino, che ancora nel 1988 ricordando l’amico e compagno di strada Giacomo Brodolini10 e i governi di centro-sinistra, condannava la tentazione della scorciatoia autoritaria:

Allora vuol dire che se c’è una volontà politica, se vi sono degli uomini impegnati che credono in certe cose non è detto che il sistema parlamentare debba essere lento ed inefficiente; lo diviene se non c’è omogeneità, se non vi è intesa, se manca una seria volontà politica di affrontare insieme i problemi del paese. Certo un regime autoritario non ha i freni della democrazia ed i ritardi che essi comportano, ma può condurre a grandi catastrofi per decisioni prese da una sola persona, come l’esperienza insegna.

Marco Zanier

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1 Dalla sua prefazione al libro di Antonio Alosco «Il partito d’azione a Napoli», Guida editore, Napoli 1975 (pp. 7- 8)

2 Dal suo intervento in «La sinistra meridionale nel secondo dopoguerra (1943-54) Giornate in onore di Francesco De Martino», Istituto socialista di studi storici, Firenze 1991 (pp. 115-116)

3 Un lavoro coraggioso sul campo, in contatto con le fabbriche in tempi difficilissimi sotto lo stretto controllo della polizia politica fascista che proprio con quel centro clandestino si accanì più volte incarcerando i suoi dirigenti più volte e stroncando la rete di collegamenti creata per anni faticosamente, ma un lavoro che il giovane Francesco De Martino, attivo ed operante nel meridione non poteva conoscere nel 1943, dato che era ancora in piedi il regime fascista e la sua terribile censura e dato che Rodolfo Morandi era in carcere dal 1937, proprio per aver organizzato la rete politica clandestina socialista in Italia dopo il fallimento di Giustizia e Libertà. Ne ricorderà però la figura molti anni dopo, nel 1980, in un memorabile discorso, facendo luce su tanti aspetti importanti della sua vita politica

4 Dall’intervento di Gaetano Arfé nel già citato «La sinistra meridionale nel secondo dopoguerra (1943-54) Giornate in onore di Francesco De Martino» (pp. 1-8)

5 Sono le parole di Francesco De Martino, riferite al Partito d’Azione, nal suo intervento nel già citato «La sinistra meridionale nel secondo dopoguerra (1943-54) Giornate in onore di Francesco De Martino» (p. 116)

6 «I problemi della costituente», pubblicato su «L’Azione» il 3 e il 10 agosto 1945, ora in Francesco De Martino, «La mia militanza nel Partito d’Azione (1943-1947» a cura e con introduzione di Antonio Alosco, Piero Lacaita editore, Manduria- Bari- Roma, 2003 (pp. 124-132)

7 «La Costituzione di uno Stato moderno», in Francesco De Martino «La mia militanza nel Partito d’Azione (1943-1947)», cit. pp. 181-186

8 Dal suo intervento al 35° Congresso Nazionale del PSI – Roma 25- 29 ottobre 1963, pubblicato in «Francesco De Martino Scritti politici (1943- 1963) Vol. I», a cura di Antonio Alosco e Carmine Cimmino, Guida editori, Napoli 1982 (p. 262)

9 Nell’utilissima cronologia «Cento anni del Partito Socialista Italiano» di Franco Pedone con prefazione di Gaetano Arfé, pubblicato da Teti Editore nel 1993 si legge in proposito alla data del 12 dicembre 1963: La Direzione del Partito socialista nomina F. De Martino segretario del Partito, G. Brodolini vice-segretario e R. Lombardi direttore dell’«Avanti!» (p.212)

10 Dalla commemorazione di Giacomo Brodolini tenuta il 30 aprile 1988 da Francesco De Martino, nell’Aula Magna del Comune di Recanati su invito della Fondazione Brodolini, ora in «Socialisti e comunisti nell’Italia repubblicana», a cura di Chiara Giorgi con presentazione di Gaetano Arfé, La Nuova Italia, 2000 (pp. 137-158)

La grande riforma di Craxi non c’entra nulla con la deforma Boschi, di Luciano Belli Paci

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Il dibattito sul referendum costituzionale del prossimo autunno è accompagnato dalla pubblicazione di numerosi saggi nei quali si ricostruisce la storia dei ripetuti tentativi di riformare la nostra Costituzione che, nel corso dei decenni e con alterne fortune, hanno visto impegnati esponenti politici, commissioni bicamerali e governi.
Tra i più recenti è il caso di menzionare il libro di Nadia Urbinati e David Ragazzoni “La vera Seconda Repubblica – l’ideologia e la macchina” e quello di Antonio Ingroia “Dalla parte della Costituzione – da Gelli a Renzi: quarant’anni di attacco alla Costituzione”.
Ho l’impressione che nessuno di questi autori si sottragga al vizio di inserire Craxi e la sua idea di Grande Riforma dello Stato in un indistinto calderone con tutti gli altri che nei decenni hanno mirato a stravolgere la nostra Carta fondamentale e questo mi induce, da socialista impegnato per il No alla deforma Renzi-Boschi, a proporre qualche considerazione critica.
Se si vuole evitare di fare di tutte le erbe un fascio, di appiattire disegni molto diversi tra loro in un coacervo senza tempo, nella classica notte in cui tutte le vacche sono nere, occorre tracciare alcune nette linee di demarcazione.
La prima è di carattere storico, giacché il diverso contesto politico nel quale le proposte di riforma si sono via via inserite è di decisiva importanza.
Fino alla caduta del muro di Berlino la nostra democrazia ha vissuto in una condizione patologica. Eravamo una democrazia bloccata perché, essendo l’opposizione di sinistra egemonizzata dal più grande partito comunista dell’occidente, non è mai stata possibile quella fisiologica alternanza tra diverse coalizioni di governo che invece altrove era la regola. Questo ha fatto sì che durante tutto il corso della cosiddetta Prima Repubblica vi fosse un gruppo di partiti permanentemente al potere, la Dc ed i suoi alleati, e che di conseguenza si creasse quella commistione insana tra partiti ed amministrazione pubblica che è stata chiamata partitocrazia. Anche la cronica instabilità dei governi di quell’epoca deriva principalmente dalla stessa patologia, visto che le normali fibrillazioni prodotte dalla dialettica politica, non potendo mai trovare sfogo in una vera alternanza, si traducevano in crisi governative foriere ogni volta di balletti di poltrone e limitati aggiustamenti programmatici, ma nell’ambito di una stabilità sostanziale tale da rasentare il rigor mortis.
L’idea di Craxi, peraltro rimasta a livello di ipotesi politica e mai trasfusa in definite proposte di revisione costituzionale, era quella che per forzare questa situazione di paralisi di cui all’epoca – si parla del 1979 ! – nessuno vedeva la fine potesse servire una riforma del sistema politico tale da imporre una competizione tra proposte di governo (e non solo tra singoli partiti come accadeva allora) e così stimolare una vera alternanza, una democrazia compiuta. Il sistema semipresidenziale francese, che proprio in quegli anni vedeva l’impetuosa crescita del partito socialista e del suo leader Mitterrand (che nel 1981 sarebbe stato eletto per la prima volta presidente), pareva il modello più adatto allo scopo.
È innegabile che dentro questa riflessione vi fosse anche un calcolo di parte perché solo un netto cambiamento dei rapporti di forza tra comunisti e socialisti avrebbe potuto consentire, proprio come stava accadendo in Francia, di rendere rassicurante e dunque competitiva una coalizione di sinistra; però la diagnosi del male italiano e la strategia per curarlo erano corrette.
Di tutt’altro segno sono i progetti di “Grande Riforma” che hanno accompagnato la nascita e poi il corso della cosiddetta Seconda Repubblica. Essi non hanno avuto più lo scopo di creare le condizioni dell’alternanza, che dopo la fine della guerra fredda e la trasformazione del Pci erano ormai acquisite, bensì quello di produrre un prosciugamento della democrazia, attraverso la trasformazione dei partiti in ectoplasmi, la personalizzazione forsennata della politica, lo svuotamento del parlamento e delle assemblee politiche locali, la concentrazione illimitata del potere negli esecutivi, la sterilizzazione della sovranità popolare attraverso leggi elettorali incostituzionali che stravolgono il principio di rappresentanza.
La seconda linea di demarcazione riguarda il merito dei disegni riformatori. Altro è delineare a viso aperto una riforma in senso presidenziale, riprendendo proposte che furono avanzate all’assemblea costituente da personaggi del calibro di Piero Calamandrei e Leo Valiani e che comprenderebbero sia nel modello statunitense sia in quello semipresidenziale francese tutti i pesi e contrappesi del caso, e altro è tentare di introdurre surrettiziamente adulterazioni del nostro modello costituzionale attraverso forme di premierato assoluto instaurate de facto da inediti e selvaggi meccanismi ultramaggioritari.
Quest’ultima tendenza, che è davvero eversiva sia nei metodi sia negli obiettivi, raggiunge l’apoteosi nella Grande Riforma prodotta dal governo Renzi e sulla quale saremo chiamati, prima o poi, ad esprimerci nel referendum. In essa, alcune mirate manomissioni della funzione legislativa, presentate come innocenti razionalizzazioni a fini di efficienza e risparmio, sono funzionali al solo scopo reale di portare a compimento lo stravolgimento della democrazia parlamentare innescato dall’Italicum, senza ahinoi portarci al vero presidenzialismo con la sua accurata separazione dei poteri.
No, obiettivamente Craxi non merita di essere annoverato tra i progenitori di questo scempio.

Luciano Belli Paci

Perché bisogna votare NO, di Giovanni Scirocco

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L’amico Giuseppe Scirocco ci ha inviato questo contributo in risposta all’intervista di Giuliano Pisapia dei giorni scorsi.

Il manifesto dei 56 costituzionalisti per il no (aprile 2016) inizia così (a proposito di pregiudizi…): Di fronte alla prospettiva che la legge costituzionale di riforma della Costituzione sia sottoposta a referendum nel prossimo autunno, i sottoscritti, docenti, studiosi e studiose di diritto costituzionale, ritengono doveroso esprimere alcune valutazioni critiche.

Non siamo fra coloro che indicano questa riforma come l’anticamera di uno stravolgimento totale dei principi della nostra Costituzione e di una sorta di nuovo autoritarismo.
E poi prosegue

Siamo però preoccupati che un processo di riforma, pur originato da condivisibili intenti di miglioramento della funzionalità delle nostre istituzioni, si sia tradotto infine, per i contenuti ad esso dati e per le modalità del suo esame e della sua approvazione parlamentare, nonché della sua presentazione al pubblico in vista del voto popolare, in una potenziale fonte di nuove disfunzioni del sistema istituzionale e nell’appannamento di alcuni dei criteri portanti dell’impianto e dello spirito della Costituzione.

  1. Siamo anzitutto preoccupati per il fatto che il testo della riforma – ascritto ad una iniziativa del Governo – si presenti ora come risultato raggiunto da una maggioranza (peraltro variabile e ondeggiante) prevalsa nel voto parlamentare («abbiamo i numeri») anziché come frutto di un consenso maturato fra le forze politiche; e che ora addirittura la sua approvazione referendaria sia presentata agli elettori come decisione determinante ai fini della permanenza o meno in carica di un Governo. La Costituzione, e così la sua riforma, sono e debbono essere patrimonio comune il più possibile condiviso, non espressione di un indirizzo di Governo e risultato del prevalere contingente di alcune forze politiche su altre. La Costituzione non è una legge qualsiasi, che persegue obiettivi politici contingenti, legittimamente voluti dalla maggioranza del momento, ma esprime le basi comuni della convivenza civile e politica. È indubbiamente un prodotto “politico”, ma non della politica contingente, basata sullo scontro senza quartiere fra maggioranza e opposizioni del momento. Ecco perché anche il modo in cui si giunge ad una riforma investe la stessa “credibilità” della Carta costituzionale e quindi la sua efficacia. Già nel 2001 la riforma del titolo V, approvata in Parlamento con una ristretta maggioranza, e pur avallata dal successivo referendum, è stato un errore da molte parti riconosciuto, e si è dimostrata più fonte di conflitti che di reale miglioramento delle istituzioni.
  2. Nel merito, riteniamo che l’obiettivo, pur largamente condiviso e condivisibile, di un superamento del cosiddetto bicameralismo perfetto (al quale peraltro sarebbe improprio addebitare la causa principale delle disfunzioni osservate nel nostro sistema istituzionale), e dell’attribuzione alla sola Camera dei deputati del compito di dare o revocare la fiducia al Governo, sia stato perseguito in modo incoerente e sbagliato. Invece di dare vita ad una seconda Camera che sia reale espressione delle istituzioni regionali, dotata dei poteri necessari per realizzare un vero dialogo e confronto fra rappresentanza nazionale e rappresentanze regionali sui temi che le coinvolgono, si è configurato un Senato estremamente indebolito, privo delle funzioni essenziali per realizzare un vero regionalismo cooperativo: esso non avrebbe infatti poteri effettivi nella approvazione di molte delle leggi più rilevanti per l’assetto regionalistico, né funzioni che ne facciano un valido strumento di concertazione fra Stato e Regioni. In esso non si esprimerebbero le Regioni in quanto tali, ma rappresentanze locali inevitabilmente articolate in base ad appartenenze politico-partitiche (alcuni consiglieri regionali eletti – con modalità rinviate peraltro in parte alla legge ordinaria – anche come senatori, che sommerebbero i due ruoli, e in Senato voterebbero ciascuno secondo scelte individuali). Ciò peraltro senza nemmeno riequilibrare dal punto di vista numerico le componenti del Parlamento in seduta comune, che è chiamato ad eleggere organi di garanzia come il Presidente della Repubblica e una parte dell’organo di governo della magistratura: così che queste delicate scelte rischierebbero di ricadere anch’esse nella sfera di influenza dominante del Governo attraverso il controllo della propria maggioranza, specie se il sistema di elezione della Camera fosse improntato (come lo è secondo la legge da poco approvata) a un forte effetto maggioritario.
  1. Ulteriore effetto secondario negativo di questa riforma del bicameralismo appare la configurazione di una pluralità di procedimenti legislativi differenziati a seconda delle diverse modalità di intervento del nuovo Senato (leggi bicamerali, leggi monocamerali ma con possibilità di emendamenti da parte del Senato, differenziate a seconda che tali emendamenti possano essere respinti dalla Camera a maggioranza semplice o a maggioranza assoluta), con rischi di incertezze e conflitti.
  2. L’assetto regionale della Repubblica uscirebbe da questa riforma fortemente indebolito attraverso un riparto di competenze che alle Regioni toglierebbe quasi ogni spazio di competenza legislativa, facendone organismi privi di reale autonomia, e senza garantire adeguatamente i loro poteri e le loro responsabilità anche sul piano finanziario e fiscale (mentre si lascia intatto l’ordinamento delle sole Regioni speciali). Il dichiarato intento di ridurre il contenzioso fra Stato e Regioni viene contraddetto perché non si è preso atto che le radici del contenzioso medesimo non si trovano nei criteri di ripartizione delle competenze per materia – che non possono mai essere separate con un taglio netto – ma piuttosto nella mancanza di una coerente legislazione statale di attuazione: senza dire che il progetto da un lato pretende di eliminare le competenze concorrenti, dall’altro definisce in molte materie una competenza «esclusiva» dello Stato riferita però, ambiguamente, alle sole «disposizioni generali e comuni». Si è rinunciato a costruire strumenti efficienti di cooperazione fra centro e periferia. Invece di limitarsi a correggere alcuni specifici errori della riforma del 2001, promuovendone una migliore attuazione, il nuovo progetto tende sostanzialmente, a soli quindici anni di distanza, a rovesciarne l’impostazione, assumendo obiettivi non solo diversi ma opposti a quelli allora perseguiti di rafforzamento del sistema delle autonomie.
  3. Il progetto è mosso anche dal dichiarato intento (espresso addirittura nel titolo della legge) di contenere i costi di funzionamento delle istituzioni. Ma il buon funzionamento delle istituzioni non è prima di tutto un problema di costi legati al numero di persone investite di cariche pubbliche (costi sui quali invece è giusto intervenire, come solo in parte si è fatto finora, attraverso la legislazione ordinaria), bensì di equilibrio fra organi diversi, e di potenziamento, non di indebolimento, delle rappresentanze elettive. Limitare il numero di senatori a meno di un sesto di quello dei deputati; sopprimere tutte le Province, anche nelle Regioni più grandi, e costruire le Città metropolitane come enti eletti in secondo grado, anziché rivedere e razionalizzare le dimensioni territoriali di tutti gli enti in cui si articola la Repubblica; non prevedere i modi in cui garantire sedi di necessario confronto fra istituzioni politiche e rappresentanze sociali dopo la soppressione del Cnel: questi non sono modi adeguati per garantire la ricchezza e la vitalità del tessuto democratico del paese, e sembrano invece un modo per strizzare l’occhio alle posizioni tese a sfiduciare le forme della politica intesa come luogo di partecipazione dei cittadini all’esercizio dei poteri.
  4. Sarebbe ingiusto disconoscere che nel progetto vi siano anche previsioni normative che meritano di essere guardate con favore: tali la restrizione del potere del Governo di adottare decreti legge, e la contestuale previsione di tempi certi per il voto della Camera sui progetti del Governo che ne caratterizzano l’indirizzo politico; la previsione (che peraltro in alcuni di noi suscita perplessità) della possibilità di sottoporre in via preventiva alla Corte costituzionale le leggi elettorali, così che non si rischi di andare a votare (come è successo nel 2008 e nel 2013) sulla base di una legge incostituzionale; la promessa di una nuova legge costituzionale (rinviata peraltro ad un indeterminato futuro) che preveda referendum propositivi e di indirizzo e altre forme di consultazione popolare.
  5. Tuttavia questi aspetti positivi non sono tali da compensare gli aspetti critici di cui si è detto. Inoltre, se il referendum fosse indetto – come oggi si prevede – su un unico quesito, di approvazione o no dell’intera riforma, l’elettore sarebbe costretto ad un voto unico, su un testo non omogeneo, facendo prevalere, in un senso o nell’altro, ragioni “politiche” estranee al merito della legge. Diversamente avverrebbe se si desse la possibilità di votare separatamente sui singoli grandi temi in esso affrontati (così come se si fosse scomposta la Riforma in più progetti, approvati dal Parlamento separatamente).

 

Per tutti i motivi esposti, pur essendo noi convinti dell’opportunità di interventi riformatori che investano l’attuale bicameralismo e i rapporti fra Stato e Regioni, l’orientamento che esprimiamo è contrario, nel merito, a questo testo di riforma.

Giovanni Scirocco