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Un NO fermo e convinto al taglio dei parlamentari. di Alfonso Gianni

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Poiché si tratta di referendum su norme costituzionali non è necessario il raggiungimento di alcun quorum. In altre parole l’esito dipenderà dal rapporto fra i No e Sì, qualunque sarà ilnumero dei votanti. I sostenitori del Sì ritengono l’esito scontato perché i parlamentari non sono popolari, dopo anni di campagna qualunquista e populista. Certo: la battaglia è difficile. Ma il No intende intraprenderla con decisione, anche perchè non è detto che gli elettori del Pd e di Leu siano d’accordo con il voto dato nell’ultima votazione dai loro rappresentanti, dopo che per tre volte avevano votato contro. Non è la prima volta che i cittadini votano su quesiti referendari che concernono anche la riduzione dei parlamentari e sono stati sempre respinti. Mi riferisco alle revisioni costituzionali proposte dal centrodestra che prevedevano, tra le altre cose, una Camera di 518 deputati (elettivi) e un Senato di 252 membri: il referendum popolare del 2006, superando persino il quorum dei votanti che non è necessario, bocciò la legge di revisione costituzionale. La stessa cosa successe nel 2016 alla legge Renzi-Boschi, che, lasciando inalterato il numero dei deputati, riduceva il Senato a 95 membri elettivi di secondo grado (eletti dai Consigli regionali o provinciali autonomi).
Il taglio dei parlamentari lede il principio della rappresentanza politica. Infatti meno sono gli eletti e più distante è il loro rapporto con gli elettori e il territorio. E’ possibile fare una comparazione fra i paesi Ue, relativamente alla camera bassa, mentre per quella alta, il Senato, è cosa è impossibile data la diversità tra i vari paesi sul metodo di elezione e le funzioni dell’organo. Ora l’Italia risulta avere un numero di deputati per 100mila abitanti pari a 1 (96.006 abitanti per deputato) di un decimale superiore a Germania (0,9), Francia (0,9), Paesi Bassi (0,9) e di due rispetto alla Spagna (0,8). Tutti gli altri paesi, la maggioranza, sono al di sopra. Se entrasse in vigore la legge su cui è indetto il referendum, la percentuale italiana scenderebbe allo 0,7, inferiore a tutti gli altri paesi della Ue.
Abbiamo certamente bisogno di un Parlamento efficiente. Come è noto nel processo legislativo è cruciale il ruolo delle commissioni permanenti (14 alla Camera e 12 al Senato). Cui poi si aggiungono le varie Giunte, le commissioni speciali o straordinarie, le bicamerali. Le commissioni possono agire in sede referente (discutono un testo, nominano un relatore e lo affidano alla discussione e alla votazione finale all’aula plenaria), oppure in sede redigente ( la commissione vota sugli emendamenti e consegna all’aula un testo finale su cui essa vota articolo per articolo e sul testo complessivo), o in sede legislativa (dove la commissione si sostituisce in toto all’aula e vara la legge). Riducendo il numero dei parlamentari si lascia il processo legislativo in mano a pochi di pochissimi partiti. A un’oligarchia.Qualcuno dirà: riformeremo i regolamenti diminuendo il numero delle commissioni. Ma in questo modo si accorperebbero le materie ledendo il principio della specializzazione di competenze su cui le commissioni sono state previste e organizzate. In altre parole una simile riduzione dei parlamentari impedirebbe al Parlamento di funzionare correttamente.
Anche ora il Parlamento ha problemi di funzionamento. Ma non perché i suoi membri sono troppi. Questo deriva da un lato dalla pletora di decreti legge che il governo emana, dall’altro dalle leggi elettorali incostituzionali che si sono susseguite in questi anni, che hanno introdotto pesanti distorsioni maggioritarie e hanno impedito ai cittadini di scegliere i propri rappresentanti,giungendo così a un Parlamento di “nominati”. Il significato del No il 29 marzo è anche quello di chiedere una legge proporzionale pura con libera scelta da parte dei cittadini degli eletti. L’attuale proposta di legge in discussione alla Camera, il cosiddetto Germanicum, non garantisce nessuna di queste condizioni. La solidità dei governi – la famosa governabilità – non deriva dalla restrizione di democrazia, dalla riduzione del Parlamento a un esecutore dei voleri del consiglio dei ministri, ma al contrario da una corretta rappresentanza politica dei cittadini, che rende il Parlamento autorevole. Il risparmio che si otterrebbe con il taglio dei parlamentari equivale allo 0,007% del bilancio statale. Circa 1, 35 euro per singolo cittadino: un caffè all’anno. Se si volesse veramente risparmiare basterebbe, ad esempio, bloccare l’acquisto degli aerei di guerra F35.
Il NO ancora una volta è chiamato a difendere la Costituzione e la democrazia.
Alfonso Gianni
tratto dal sito: http://www.coordinamentodemocraziacostituzionale.it/
Referendum: Libertà e giustizia, no a riduzione numero dei parlamentari.

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Da sempre Libertà e Giustizia si è impegnata a difendere la Costituzione nella consapevolezza che essa è un corpo vivente, i cui mutamenti devono mirare a renderla meglio preparata a rispondere alle sfide della società che cambia ma senza stravolgerne l’identità. Difendere la Costituzione non significa necessariamente dire no alle proposte di riforma.
L’attuale proposta di diminuire il numero dei parlamentari non rappresenta in sé una violazione dei principi democratici e rappresentativi. Lo prova anche il fatto che, nel corso della storia repubblicana, sono state numerose e autorevoli le proposte di riforma che andavano in tale direzione.
Sarebbe però sbagliato non contestualizzare la proposta attuale, votata in Parlamento e oggetto di referendum il 29 marzo prossimo. Proponiamo soprattutto tre considerazioni che ci sembrano fondamentali per chiarire la nostra posizione in merito a questo referendum.
La prima considerazione è che un’alterazione della “quantità” dei seggi parlamentari dovrebbe mirare a un rafforzamento della “qualità” della rappresentanza, attraverso un insieme di norme – a partire dai regolamenti parlamentari alla legge elettorale – che mettano in sicurezza e anzi migliorino il principio rappresentativo nella ragionevole esigenza di assicurare un buon funzionamento dell’istituto parlamentare.
Al contrario, questa riforma indebolisce il potere dei rappresentanti delle due camere e la stessa efficacia della rappresentanza perché non accompagnata da una riforma della legge elettorale in senso proporzionale e da adeguate forme di composizione delle liste di candidati. Tale modifica del sistema di voto viene invece evocata più come tattica per fare accettare questa riforma che come un reale convincimento del fatto che un Parlamento così eletto possa garantire un rapporto coerente tra il suo potere legislativo e il potere dei cittadini.
La seconda considerazione muove dal fatto che i tentativi di modificare gli assetti costituzionali cercando di ridimensionare il più possibile l’organismo rappresentativo in nome di una supposta priorità del principio della governabilità è stato alla base (del fallimento) della Seconda Repubblica. Promuovere una riforma che muova ancora dall’ideologia della governabilità e dalla presunzione che una maggiore governabilità si possa ottenere attraverso l’indebolimento del potere legislativo è inattuale, oltre che il segno di una mancata lucidità nell’interpretazione dei processi strutturali di trasformazione che sono in atto nelle nostre democrazie e dei rischi che essi comportano.
Ovviamente, non riteniamo che questo referendum abbia un valore determinante, ma certamente crediamo che esso sia in piena continuità con questa delegittimazione sostanziale del valore del principio rappresentativo.
La terza considerazione invita a prendere seriamente il malessere profondo che ha accompagnato la scelta di una tale riforma. Ovviamente non stiamo parlando del grottesco movente contabile per cui la diminuzione del numero di rappresentanti rappresenterebbe un risparmio per le casse dello Stato, argomento rozzo e smentito dai numeri da non richiedere troppi commenti. Più profondamente, il vero movente della popolarità di questa riforma è una sensazione diffusa di ostilità nei confronti delle istituzioni rappresentative, quelle cioè più direttamente gestite dai partiti e che si traducono in “poltrone” alle quali i candidati ambiscono per acquisire privilegi, piuttosto che per rispondere alle esigenze espresse dagli elettori. Vi è in questa riforma il riverbero di una insofferenza da parte dei politici nei confronti della richiesta dei cittadini di chiedere loro conto dell’operato e di pretendere che le loro preferenze e i loro problemi siano ascoltati e rappresentati. Mentre si lamenta la distanza dei “territori” dai luoghi di decisione, si approda a una riforma che decurta con il numero dei parlamentari anche il potere dei cittadini che in quei territori vivono.
È un criterio fondamentale della democrazia rappresentativa che le norme e i comportamenti politici debbano tendere ad avvicinare “governanti” e “governati”. La crisi della rappresentanza che stiamo vivendo sembra aver accentuato la loro distanza. Ma credere che per diminuire la distanza e ripristinare il senso profondo della rappresentanza si debba ricorrere a un taglio tanto radicale del numero dei parlamentari ha il sapore dell’assurdo.
Se il Parlamento non funziona, è necessario immaginare riforme che permettano che torni ad assolvere degnamente alla sua funzione di mediazione senza “tagliare” le condizioni della nostra rappresentanza. Con questa riforma, l’Italia diventa il Paese dell’Ue con il minor numero di deputati in rapporto alla popolazione: con 0,7 “onorevoli” ogni 100mila abitanti (rispetto all’uno precedente), supera la Spagna che deteneva il primato con 0,8. Al primo posto, sotto questo profilo, c’è Malta: 14,4 deputati ogni 100mila abitanti.
Siamo consapevoli che questa campagna referendaria rappresenti quasi certamente una battaglia persa. Ma le battaglie perse non sono meno giuste perché perse; né, del resto, chi vince una competizione referendaria ha per questo ragione. Il nostro compito è di opporci alla semplificazione comunicativa, richiamando i cittadini alla necessità di decidere dopo aver ponderato i pro e i contro.
Per questi motivi, invitiamo i Circoli a portare sui rispettivi territori dei contributi critici e informati, che consentano ai cittadini di compiere la loro scelta con cognizione di causa. Li invitiamo anche, nel rispetto dell’autonomia di giudizio degli iscritti, ad aderire ai Comitati per il No.
tratto dal sito: http://www.libertaegiustizia.it/
Diminuire i parlamentari non aiuta la democrazia. di Alessandra Algostino

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Il 29 marzo prossimo saremo chiamati a pronunciarci sulla legge costituzionale pubblicata in Gazzetta ufficiale del 12 ottobre 2019, recante “Modifiche agli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero dei parlamentari”, in forza della quale il numero dei deputati dovrebbe passare da 630 a 400 (i 12 eletti nella circoscrizione estero scenderebbero a 8) e quello dei senatori da 315 a 200 (i 6 eletti nella circoscrizione estero diverrebbero 4). L’esito appare scontato e ciò induce a ragionare più che di referendum confermativo di referendum plebiscitario. Risulta, infatti, stravolta la ratio originaria del referendum costituzionale eventuale che, nell’orizzonte di tutela delle minoranze e del pluralismo presente nella società, è uno strumento oppositivo e non confermativo. Tale inversione di senso assume un significato vieppiù pericoloso in quanto si inscrive in un processo di progressiva atrofizzazione della società, di distruzione dei partiti politici quali strumenti di raccordo fra società e istituzioni, di anestetizzazione e repressione del dissenso, di distrazione e occultamento del conflitto sociale (in primis, attraverso la creazione di fittizi nemici, come, per tutti, i migranti). Così l’humus plebiscitario mistifica e favorisce la crescita di un regime oligarchico che alimenta le diseguaglianze, nazionali e globali, allontanandosi sempre più da un orizzonte costituzionale che ragiona di “partecipazione effettiva”, legando democrazia politica e democrazia sociale in un progetto di emancipazione individuale e collettiva (art. 3, comma 2, Cost.).
In questo contesto la riduzione del numero dei parlamentari si riverbera sul rapporto fra cittadini e parlamentari, incidendo sulla rappresentanza, abbassando il grado di potenziale identificazione del rappresentato con il rappresentante e comprimendo l’angolo visuale della lente che specchia la realtà e la complessità della società. Mentre, non da oggi, si ragiona di crisi della rappresentanza, si procede così in una direzione che, lungi dal creare le basi per una inversione di rotta, approfondisce il solco che separa società e istituzioni (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2019/10/03/rappresentanza-e-sovranita-popolare-alla-prova-della-riduzione-dei-parlamentari/). La riduzione del numero dei parlamentari è un tassello del processo in atto che vede il Parlamento sempre più depotenziato e la rappresentanza svuotata, mentre si afferma una progressiva presidenzializzazione. A fronte di questo processo c’è chi parla di deriva postdemocratica (Crouch) e di forma di Stato «liberal-populista» (Dogliani), o ancora, per citare alcune espressioni dall’allusione immediata, di «autocrazia elettiva» (Bovero), di democrazia plebiscitaria (Revelli) o dispotica (Ciliberto), di democrazia senza democrazia (Salvadori), per accedere, infine, alla definizione “democrazia eterodiretta”, che ne sottolinea il carattere embedded a servizio della global economic governance delle istituzioni statali.
Non è, dunque, la riduzione del numero dei parlamentari a infettare rapporti istituzionali rispettosi del principio di separazione ed equilibrio fra i poteri, così come la formazione di una rappresentanza che garantisca il pluralismo sociale, ma la riforma in discussione indubbiamente aggrava le condizioni del malato. Nella prospettiva di una democrazia rappresentativa, la rappresentanza è l’elemento che traduce, se pur con una finzione, il principio di sovranità popolare, o, meglio, ne costituisce una delle principali estrinsecazioni. La sovranità popolare non vive solo nelle forme della rappresentanza, richiedendo in modo imprescindibile una partecipazione attiva dei cittadini attraverso l’esercizio dei diritti e la mobilitazione dal basso, ma, indubbiamente, la rappresentanza ne costituisce una declinazione significativa. Attraverso il suffragio elettorale universale, l’elezione dei rappresentanti e il ruolo dei partiti politici, infatti, si dà voce a tutti i cittadini e forma e organizzazione alle diverse rivendicazioni e visioni del mondo, consentendo in Parlamento il loro scontro e la loro mediazione (nel senso alto che questo termine può evocare).
Una visione irenica? Certamente in parte sì, perché lo stato di salute della democrazia rivela non tanto la presenza di un vivace confronto tra visioni del mondo che riflettono il pluralismo (e il conflitto) sociale, quanto, molto spesso, un governo delle élites. Ma se la cattiva prova o l’imperfezione della democrazia è motivo per una sua lettura realistica e demistificatrice, non lo è per un atteggiamento remissivo di fronte allo status quo: la rappresentanza può essere non il mezzo attraverso il quale si legittima il governo delle élites ma lo strumento per consentire l’espressione della società e dei conflitti che la agitano, esercitando un ruolo contro-egemonico. Ora, ammesso e non concesso che la riduzione dei componenti determini – come affermano i suoi sostenitori – una maggior efficienza e compattezza dell’organo, quale Parlamento verrebbe con essa rafforzato?
Affiora qui la concezione secondo cui forza e autorevolezza discendono in primis dall’efficienza e dalla “governabilità”, assunta come un valore a prescindere dal suo rapporto con la rappresentanza, e anche quando comporta un sacrificio in termini di rappresentanza. Non è così. La governabilità può essere un valore, ma in sé non è necessariamente democratica; anzi, nella misura in cui segna il distacco rispetto alla rappresentanza, ovvero sacrifica pluralismo (reale o potenziale), costituisce, rispetto all’ideale democratico, una regressione. Quando si ragiona di efficienza, sorge ineludibile un interrogativo: efficienza in nome di che cosa? e a favore di chi? Si palesa qui la connessione fra governabilità ed esigenze del mercato e appare evidente che il fine dell’efficienza perseguita non è costruire un Parlamento forte perché sede di discussione politica e di compromesso fra differenti visioni del mondo, ma in quanto organo preposto a ratificare decisioni assunte altrove, nella nebulosa della global economic governance, e – ça va sans dire – ancillare rispetto al Governo. Emerge chiaro il parallelismo, per non ragionare di mera traduzione, con le tendenze egemoniche delle élites del finanzcapitalismo (Gallino): nella società, così come nelle relazioni industriali, la negazione del conflitto segna la vittoria di una classe. In sintesi, se evocare la rappresentanza come specchio della realtà sociale disegna un’immagine della democrazia idilliaca e lontana dalla realizzazione storica (posto che la rappresentanza degrada facilmente in rappresentazione e il medium rappresentativo si risolve in una finzione) resta che, nella incompiutezza e imperfezione della democrazia, la scelta di ridurre il numero dei parlamentari segna comunque una regressione.
Con l’opzione “Camere mini” e la restrizione degli spazi della rappresentanza, si espellono di fatto le minoranze e si scardinano presupposti ineliminabili della democrazia: il pluralismo e il conflitto. La diseguaglianza sociale ed economica tracima nella sfera politica, segnando la distanza rispetto al sogno – scritto nelle costituzioni novecentesche perché divenisse realtà – di un’emancipazione, insieme, sociale, politica ed economica. La riforma costituzionale oggetto di referendum è, certo, solo un piccolo passo, ma occorre essere consapevoli della direzione nella quale essa si inserisce: un regime che marginalizza e criminalizza il disagio sociale, reprime il dissenso, mira a costruire un consenso plebiscitario, abbandona il lavoratore alla mercé di un capitalismo sempre più aggressivo, esternalizza (con la politica criminale) le frontiere, veicolando diseguaglianza e sudditanza.
Il referendum, come si è detto, si annuncia plebiscitario e da fine marzo le Camere (quasi sicuramente) saranno ridotte, ma non per questo è meno rilevante dire di “no” (https://volerelaluna.it/politica/2020/01/24/riduzione-dei-parlamentari-perche-no/). Ciò significa, ancora una volta, stare “dalla parte del torto” (Montanari), muovere dalla “tradizione degli oppressi” – che «ci insegna che lo “stato di emergenza” in cui viviamo è la regola» (Benjamin) – per ribaltarla, pensare, per restare all’orizzonte costituzionale, non tanto a modificare la Costituzione, quanto ad attuarla, a partire dal suo cuore, l’art. 3, comma 2, l’emancipazione e la giustizia sociale.
Alessandra Algostino (docente di Diritto costituzionale all’Università di Torino)
tratto dal sito: https://volerelaluna.it
Referendum 29 marzo. Un piccolo promemoria. di Alberto Benzoni

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Vi si chiede di ridurre il numero dei parlamentari per “ridurre i costi della politica”.
Ma ci si dimentica di dirvi che il risparmio così ottenuto è assolutamente modesto: e che, in materia di riduzione delle spese dello stato si può fare infinitamente di più e nelle più diverse direzioni; e che, se non si fa, questo dipende dalla mancanza di volontà politica.
Le leggi che vogliamo abrogare con un sì non sono state varate per rendere più efficiente la politica o più razionale il lavoro del Parlamento. Ma perchè si considerano i politici in generali e i parlamentari in particolare come dei privilegiati nullafacenti alla stregua dei nobili alla corte di Versailles. Con la differenza fondamentale che allora questa critica era giustificata anche in nome di un terzo stato e di un popolo soggetti a infiniti gravami e privi di qualsiasi potere; mentre la crociata di oggi è il frutto estremo e perciò più rancido, di quel giustizialismo antipolitico nato con la seconda repubblica.
Una ragione per abrogarle; ma non certo l’unica o anche solo la principale. Perché quello che intendiamo proporre agli elettori è una riflessione sul ruolo e la dignità del Parlamento; e sulla natura e la pericolosità degli attacchi alla sue prerogative e alla sua stessa dignità.
La nascita del Parlamento; la lotta di secoli per difenderlo; e ancora e ancora la nascita del suffragio universale ( l’unica sede dove uno vale uno) sono i due pilastri su cui si è costruita la democrazia liberale. e la democrazia liberale è un pò come l’aria che respiriamo;non presa in considerazione quando c’è; invocata, ma troppo tardi, quando comincia a mancare.
Il Parlamento, dovunque nasce, nasce per contestare e limitare il Potere. Nella convinzione, fondata sempre, che il potere tende per sua natura a degenerare. A crescere intorno a sè stesso. A ignorare le regole. Ad opprimere senza scrupoli i più deboli e i senza potere.
Il Parlamento è fatto per parlare. Per discutere e approfondire provvedimenti la cui efficacia dipende dal tempo dedicato alla loro elaborazione. E il parlamento è il luogo di uomini liberi; nel loro voto; nelle loro diverse opinioni.
Oggi tutto questo in discussione. Nel nome dell’economia e del mercato. E delle loro leggi. In nome di un ipotetico popolo e della conseguente svalutazione delle sue rappresentanze. In nome di un’efficienza intesa come rapidità delle decisioni. In nome,delle prerogative dell’esecutivo anche in materia di formulazione delle leggi. in nome di vertici che non hanno bisogno di base. E, infine e soprattutto, in nome di maggioranze che, in quanto tali si sentono autorizzate a fare tutto e il contrario di tutto senza controlli, senza regole e senza intralci.
Stiamo parlando di quanto sta accadendo in tutto il mondo e anche in Italia. Stiamo parlando dello svuotamento graduale dei principi e delle regole della democrazia liberale. Di un processo che deve essere contrastato dovunque e in ogni occasione.
Il referendum del 29 marzo è una di queste. Dobbiamo raccoglierla.
Alberto Benzoni
No alla riforma costituzionale per taglio parlamentari. di Giuseppe Musolino

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Il prossimo 29 marzo saremo chiamati a votare il Referendum per confermare o respingere la legge di riforma costituzionale con cui si dispone un significativo taglio del numero dei parlamentari.
Il CDC-Coordinamento per la Democrazia Costituzionale ha avversato questa “riforma” sin dall’inizio del dibattito parlamentare e, conseguentemente, ha costituito un Comitato per il NO a livello nazionale.
Si ritiene necessario un impegno su questo terreno anche a Varese e provincia, con modi liberi e forme aperte a tutte le energie individuali e collettive.
A tal fine proponiamo un primo incontro dove decidere, in una data immediatamente successiva, la costituzione formale del Comitato provinciale e di Comitati locali.
L’incontro si terrà lunedì 10 febbraio, alle ore 18.30 presso la sede dell’Associazione “Un’Altra Storia”, via Francesco Del Cairo 34, Varese.
All’incontro parteciperanno Pierpaolo Pecchiari – già Coordinatore nel 2016 del Comitato milanese per il NO – e Pietro Moraca, responsabile organizzativo del Comitato stesso.
Apparentemente questa sembra essere “causa persa” dovendoci confrontare con più di vent’anni di anti-politica e di elucubrazioni e vaneggiamenti contro la casta: lavoro duro, ma non impossibile, da fare in poco tempo.
Le battaglie perse sono sicuramente quelle che non si combattono e, comunque, questa è una di quelle che è necessario affrontare. Il disegno da contrastare é sempre lo stesso:1)ridurre il Parlamento a un ruolo del tutto formale; 2)assicurare alle segreterie dei partiti un ferreo controllo dei gruppi parlamentari, continuando a proporre leggi elettorali che impediscono ai cittadini di eleggere i propri rappresentanti col voto di preferenza; 3)rafforzare sempre più i poteri dell’esecutivo.
Si tratta di un disegno – con altre diverse implicazioni e conseguenze – che può essere esiziale per la nostra stessa Democrazia che sicuramente può essere migliorata ma che, intanto, va preservata.
E’ urgente e indispensabile smontare tale disegno perché non è possibile lasciare senza una sponda politica quanti – nel Paese, nella società – credono ancora che le nostre istituzioni debbano conservare le caratteristiche proprie di una Democrazia parlamentare.
Si richiede, perciò, disponibilità ad affrontare tale fondamentale impegno, sapendo di poter contare – visti i tempi della campagna referendaria – su una funzione di supporto organizzativo persino superiore a quella del passato, potendo quindi ragionevolmente pensare a un nuovo successo, possibile quanto necessario.
Per il Comitato promotore Giuseppe Musolino
tratto dal sito: https://www.varese7press.it
La forza dirompente del Referendum. di Franco Astengo

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“La forza dirompente del referendum”: sotto questo titolo il Corriere della Sera pubblica un intervento dell’ex-ministro Giulio Tremonti sul tema del referendum confermativo al riguardo della legge costituzionale che riduce il numero dei parlamentari da 945 a 600.
Nel suo articolo Tremonti sostiene, tra l’altro, che la portata politica di questo referendum è enormemente più forte di quello che, con il suo esito, decretò nel 1993 il passaggio dalla formula elettorale proporzionale a quella maggioritaria.
Formula maggioritaria poi temperata dal mantenimento di una quota del 25% riservata al proporzionale (con tanto di “scorporo” e di “liste civetta”) come stabilito dalla legge di cui fu relatore l’attuale presidente della Repubblica Sergio Mattarella (Giovanni Sartori in quell’occasione coniò la definizione “Mattarellum”).
Subito dopo il varo della nuova legge l’allora presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi sciolse i due rami del Parlamento (la Camera era presieduta da Giorgio Napolitano, il Senato da Giovanni Spadolini) motivando a questo modo “ “Lo scioglimento trova la sua principale motivazione, non già in una disfunzione creatasi nel rapporto tra Parlamento – governo, bensì nel radicale cambiamento delle regole elettorali imposta dal referendum popolare del 18 aprile 1993, nonché nei profondi mutamenti emersi nel corpo elettorale e nelle stesse realtà politiche organizzate”.
Tremonti dunque sostiene che il referendum che dovrebbe svolgersi il prossimo 29 marzo risulti molto più incisivo sulla realtà istituzionale del Paese che non quello promosso dai Comitati Segni ventisette anni or sono: la ragione di questa superiore capacità d’incidenza risiederebbe non solo nella mutata composizione numerica ma anche nella funzione di rappresentanza territoriale che dovrebbe essere svolta dai due rami del Parlamento e nella meccanica della sua efficienza decisionale.
Ancora: una volta entrati in vigore Camera e Senato a ranghi ridotti rispetto all’attuale composizione si stabilirebbero anche rapporti diversi tra maggioranza e opposizione e di riflesso tra le forze politiche come queste sarebbero rappresentate in un Senato ridotto a 200 membri.
Sono tutti elementi da considerare e da riflettere per quanti si sono già schierati per il “NO” a questo ennesimo tentativo di deformazione costituzionale.
C’è da aggiungere che non solo il referendum previsto per il 29 marzo è assolutamente più dirompente di quello del 1993 ma che, sul piano della valenza costituzionale, equivale perlomeno a quello del 4 dicembre 2016, allorquando la proposta di revisione della nostra Carta Fondamentale portata avanti dal PD a segreteria Renzi fu respinta a grande maggioranza dal voto popolare.
Oggi siamo di fronte a una situazione che deriva dall’aver sparso a piene mani il veleno dell’antipolitica e il referendum stesso sulla riduzione del numero dei parlamentari (riduzione posta come pregiudiziale dal M5S al PD soltanto per aprire la trattativa sulla formazione del nuovo governo) assume un evidente ulteriore effetto di delegittimazione complessiva di un Parlamento ormai ridotto ad una sostanziale autoreferenzialità.
E’ il caso di ricordare come la caduta di credibilità del Parlamento abbia una delle sue principali cause nel reiterarsi ormai da tre legislature di elezioni legislative svoltesi su liste bloccate.
Scrive ancora Tremonti e vale la pena riprenderne le argomentazioni: “Ma ciò che è peggio è l’infima cifra della politica che viene così espressa: mai nella nostra storia così pochi hanno pesato e pesano tanto male sul presente e sul futuro di tutti gli altri”.
Tra pochi giorni ci troveremo dentro a una campagna elettorale che non solo sarà sbilanciata nell’attribuzione del peso mediatico tra le diverse opinioni in campo ma sarà anche invasa dalla facile mistificazione circa l’abbattimento delle poltrone e dei privilegi della “casta” (posizione paradossalmente sostenuta da chi della “casta” fa ormai interamente e integralmente parte).
Più o meno lo stesso tipo di mistificazione con cui ci trovammo a fare i conti nel già ricordato referendum del 1993, con l’idea facilmente propagandata e colpevolmente amplificata dai media di allora della semplificazione nel ruolo del Parlamento intesa come panacea di tutti i mali della democrazia italiana in quella fase alle prese con Tangentopoli, lo smarrimento dovuto alla caduta del muro di Berlino e all’inopinato scioglimento del PCI, al ritardo accumulato sulla strada dall’adeguamento ai dettati dell’appena firmato trattato di Maastricht e dell’avvio del percorso verso la moneta unica.
L’analisi fin qui compiuta ci dimostra che l’oggetto del contendere, nel referendum del 2020, non è certo quello della semplificazione del meccanismo parlamentare : ancora una volta, come già nel 2006 e nel 2016, siamo di fronte alla determinazione di arrivare ad un mutamento nell’equilibrio dei poteri così come questi sono stati configurati nel modello di democrazia repubblicana stabilito dalla Costituzione del ‘48.
Il tema, almeno dal nostro punto di vista di chi intende sostenere il “NO”, non deve quindi essere quello della conservazione del numero dei parlamentari ma quello del mantenimento e se possibile del rafforzamento di una “balance of power” della quale è parte indispensabile la rappresentazione nelle massime istituzioni legislative delle più importanti sensibilità politiche, sociali, culturali presente in una dimensione rilevante nel Paese.
Così come è fondamentale la presenza nei due rami del Parlamento di un equilibrio nella rappresentanza territoriale che, invece, sarà massacrata dalla riduzione numerica che, alla fine, presenterà situazioni di sicuro profilo incostituzionale.
E’ necessario inoltre ripensare alla formula elettorale, al meccanismo di scelta individuale dei parlamentari, di distribuzione della rappresentanza sul territorio.
Soprattutto va ripreso e avviato un diverso discorso culturale al riguardo dell’agire politico: la difesa dell’integrità anche numerica delle Camera può rappresentare, in questo senso, un primo passo perché si riaffermerebbe la centralità della Costituzione Repubblicana e uscirebbe sconfitta una inaccettabile idea di mortificazione della rappresentanza politica.
Franco Astengo
tratto dal sito https://www.socialismoitaliano1892.it
Dopo la decisione della Corte ripartire da una legge proporzionale. di Felice Besostri ed Enzo Paolini
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La inammissibilità del referendum pro maggioritario proposto da otto regioni (ma sostanzialmente dalla Lega), dichiarata dalla Corte costituzionale in seguito agli argomenti da noi avanzati, rimette al centro del dibattito politico la questione della legge elettorale. Che è la madre di tutte le questioni, essendo relativa alle modalità di selezione della classe dirigente e quindi alla qualità della nostra politica.
Partiamo da cosa ha detto la Corte con la sentenza di ieri, sul piano generale in ordine all’uso dello strumento referendario (su quello tecnico specifico dovremo aspettare le motivazioni). Tre principi: 1) il quesito da rivolgere ai cittadini deve essere chiaro ed intellegibile per tutti, senza incomprensibili richiami o rimandi. 2) Il parlamento può delegare il governo ad emanare un atto avente forza e forma di legge. La stessa delega non può, però, darla il popolo attraverso il referendum perché così si creerebbe un corto circuito nella architettura della democrazia parlamentare. 3) Il quesito referendario non può essere «eccessivamente manipolativo», cioè proposto mediante un cosiddetto «ritaglio per sottrazione», per incastro linguistico e terminologico, così che la normativa residuale all’abrogazione abbia l’effetto di creare una nuova norma senza passare per il percorso legislativo parlamentare. Ad esempio, nel caso specifico: cambiare il metodo elettorale mediante l’abrogazione per via di referendum di parole o frasi inserite in leggi non afferenti al metodo elettorale.
La Corte ha ritenuto la proposta priva dei requisiti della chiarezza e della omogeneità logica del quesito, insomma della semplicità essenziale necessaria ed indispensabile per sottoporre ai cittadini questioni importanti, e non ve n’è di più importante sul piano istituzionale di quella del metodo elettorale. Da qui dobbiamo (ri)partire se vogliamo convincere anche chi, destato dal campanello della Corte, si riassopisce subito con le tranquillanti, superficiali e pericolosissime parole di Prodi e Veltroni (ieri) e di Beppe Sala (oggi): dobbiamo pensare alla «governabilità», dunque al maggioritario. Ma in nessuna parte della Costituzione è scritto che le elezioni debbano garantire la «governabilità» o, addirittura, che la sera dello scrutinio si debba sapere chi ha vinto e chi ha perso. Questo succede alla Domenica sportiva.
La governabilità non è la ragione, il fine delle elezioni, ma il necessario, auspicato effetto, determinabile dalla convergenza delle forze politiche rappresentate in parlamento sui programmi proposti agli elettori e sulle mediazioni imposte dalle alleanze atte a costruire le maggioranze utili per governare. Questa è la governabilità. Dunque non è affatto vero che con il maggioritario (cioè con un sistema che assegna alla formazione che non ha raggiunto la maggioranza ma è prima in classifica, un premio in seggi), sia assicurata ipso facto la «governabilità» stabile. A meno di un risultato elettorale con una maggioranza assoluta (i «pieni poteri»), ci vogliono sempre un’alleanza e un compromesso. La differenza tra i due sistemi, cioè tra quello attuale, con le nomine dei capi partito e quello proporzionale con le preferenze degli elettori è decisiva: la qualità della classe dirigente.
La storia di questo ultimo anno e mezzo e dell’annesso cambio al governo (ma possiamo dire la storia del paese da quando c’è il maggioritario per nomina, sia esso Porcellum, Italicum o Rosatellum con i suoi ribaltoni, cambi di casacche, compravendita di parlamentari) lo dimostra. La spiegazione è semplice: il sistema pensato dai costituenti, cioè il proporzionale puro con le preferenze, non fu scelto solo per impedire nuove temute derive autoritarie. La paura o meglio il rifiuto della tirannide era il presupposto. Ma il sistema recava in sé un fine tessuto di ingegneria costituzionale. Esso fotografava la realtà politica, il sentire del popolo italiano, fino a quello dell’ultimo cittadino, con un voto «diretto, libero ed uguale» per cui la sera dello scrutinio si sapeva chi eravamo, cosa pensavamo, quali erano gli orientamenti condivisi e in quale misura, appunto proporzionale, si traducevano in seggi parlamentari.
Così che i rappresentanti istituzionali sin da subito potevano/dovevano avviare i confronti per giungere alle alleanze con le quali costituire le maggioranze necessarie affinché un governo potesse avere la fiducia delle camere. Un lavoro duro e affascinante che si chiama politica. Così il quadro era stabile, poteva mutare sulla base di questioni politiche non di migrazioni di senatori e deputati fondate su posizionamenti e convenienze personali. E ciò per il semplice fatto che, essendo i parlamentari eletti con le preferenze, rispondevano del loro comportamento agli elettori che tali preferenze avevano espresso e non, come oggi avviene, al capo del partito che li nomina o che gli promette la rinomina.
In questo sciagurato mo(n)do il parlamento viene nominato dai cosiddetti leader, non viene assicurata alcuna governabilità politica, le maggioranze sono drogate dai premi, la vera volontà popolare non conta niente e le elezioni sono solo esercizi di posizionamento personale. Ciò è peraltro affermato dalle ripetute sentenze della Corte costituzionale sui parlamenti che ormai da un decennio sono eletti sulla base di leggi dichiarate incostituzionali. Il problema si acuirà con la riduzione del numero dei parlamentari. Meno rappresentanti, più potere nella nomina, più controllo di pochi. Si chiama oligarchia.
In pieno mese di agosto questo giornale ha pubblicato un appello, «Il governo riparta dalla Costituzione», sottoscritto da tanti autorevoli osservatori. Ne riproponiamo il brevissimo, fulminante ed imprescindibile punto 1: «Legge elettorale, proporzionale pura: l’unica che faccia scattare tutte le garanzie previste dalla Costituzione. Per mettere in sicurezza la Costituzione stessa, cioè la democrazia».
Felice Besostri ed Enzo Paolini
da “Democrazia Socialista” Anno XVI n. 3, 30 gennaio/2 febbraio 2020
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