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Dopo il successo del NO al referendum del 4 dicembre

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Care compagne e cari compagni,

i socialisti che in questa lunga campagna referendaria hanno sostenuto le ragioni del No dando vita ad un proprio Comitato ringraziano tutti coloro che fin dalle prime ore hanno accolto il nostro appello, hanno fatto proprio il senso di una battaglia democratica figlia della nostra storia e della nostra cultura riformista e con un impegno e una passione, che sono andati ben oltre ogni migliore aspettativa, hanno contribuito a conseguire questo straordinario risultato di popolo.

Abbiamo così, tutti insieme, difeso la nostra identità e costruito le condizione per allargare la nostra comunità, reagendo all’arroganza e alle intimidazioni di chi voleva ingessare l’iniziativa socialista nel disegno autocratico di Matteo Renzi.

Come la maggioranza degli italiani, cosi la maggioranza dei socialisti si è ribellata e ha prodotto una “valanga di No” per difendere il proprio diritto di voto, lo spirito democratico della Costituzione, contestando sia il merito che il significato politico della proposta del governo.

Con il nostro Comitato abbiamo costruito rapporti nuovi con tanti socialisti dispersi, giovani e anziani, quelli che potranno consentire presto la rinascita di un Psi su base nuove, quelle del No, e contemporaneamente promuovere la riorganizzazione di un’area socialista larga, partendo dalla vecchia convinzione che non c’è sinistra senza una sinistra socialista riconoscibile.

I socialisti del No hanno potuto intercettare in questi mesi le speranze e il sentimento della maggioranza del popolo italiano, e dei giovani in particolare, quelli che aldilà dei partiti e delle logiche di schieramento hanno fatto una scelta di campo per difendere il potere della propria sovranità e aprendo una strada di profondo cambiamento rispetto all’involuzione politica che l’Italia ha conosciuto in questi ultimi vent’anni.

Come accadde nel ’74 con il referendum del divorzio, gli italiani hanno espresso con il NO il bisogno di un grande cambiamento politico e sociale, hanno voluto fermare un processo di continua degenerazione, hanno dato un segnale preciso, che non assolve né la politica né le istituzioni, ma rivendica una politica nuova.

Spetta quindi adesso anche a noi socialisti del No non interrompere il percorso e come avevamo annunciato prima del voto andare avanti, non disperdendo le energie che abbiamo messo in campo, ben sapendo che le forze sconfitte, sia interne che esterne al paese, non si fermeranno davanti alla battuta d’arresto che hanno subito il 4 dicembre.

Per questo dobbiamo presto moltiplicare le occasioni di incontro sia a livello nazionale che a livello locale. e presto convocheremo una riunione per una valutazione collettiva del voto e delle sue conseguenze.

Come socialisti per il No parteciperemo ad ogni manifestazione e confronto con tutti coloro che hanno vissuto la grande esperienza del No con altre sigle e altri comitati e con le forze riformiste della sinistra che hanno sostenuto il No dobbiamo sentirci impegnati a costruire un progetto politico duraturo.

Da subito possiamo individuare tre obbiettivi.

La battaglia contro l’Italicum, per seppellire ogni ulteriore tentativo di ripristino di leggi maggioritarie e contemporaneamente incostituzionali, facendo la nostra parte perché il Parlamento, libero dai condizionamenti del Governo e forte del consenso polare, approvi una legge elettorale rappresentativa del popolo, quindi proporzionale, per sostituire un parlamento di nominati con un parlamento di deputati e senatori eletti direttamente dai cittadini.

Dobbiamo saper cogliere dal voto referendario il senso profondo della riscoperta dell’amore popolare per la democrazia, da allargare alla partecipazione dei cittadini e non da restringere; dobbiamo saper cogliere il grido d’insoddisfazione che si é levato con il voto referendario che ha sottolineato quanto siano aumentate le diseguaglianze tanto nel nord industrializzato come nel sud del nostro paese; quanto sia aumentato il numero dei poveri e dei disoccupati giovani e non e il conseguente disagio sociale della popolazione. Un impegno che può essere favorito dall’approfondimento e dalla conoscenza della storia e delle esperienza del movimento socialista italiano.

Infine contribuire a riorganizzare con tutti coloro che ci stanno un’area larga della sinistra socialista italiana capace di essere influente nelle scelte di politica economica e internazionale, con un progetto chiaro di riforma per uno Stato più giusto, garante di diritti sociali uguali per tutti e di libertà, con l’obiettivo primario di dare una risposta di governo convincente ai nuovi e vecchi problemi del paese. Un’area socialista larga in grado di affrontare le prossime scadenze elettorali ed avere una significativa ed autonoma rappresentanza parlamentare.

Riepilogo delle bugie di Renzi, di Angelo Sollazzo

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1)Non è vero che la pseudo-Riforma Renzi propone un processo di semplificazione politica. L’unico risultato è che per i cittadini non sarà più necessario andare a votare in quanto avremo solo parlamentari nominati.I deputati con il trucco dei capi-lista bloccati ed i Senatori espressione dei vertici di partito locali con accordi di bassa lega(chi fa l’Assessore, chi il Senatore, chi il presidente di Commissione). Gli italiani nella misura dell’82% vogliono scegliersi i propri rappresentanti in Parlamento con il voto di preferenza. Si attenta in modo palese alla sovranità popolare.
L’unica semplificazione è che non si abolisce il Senato ma gli elettori.
2)Non è vero che l’attuale Parlamento poteva procedere all’approvazione di una Riforma Costituzionale in quanto dichiarato illegittimo dall’Alta Corte, poiché é espressione del Porcellum, con 270 Parlamentari che hanno cambiato Partito e tradito i loro elettori e con un Capo del Governo diventato tale con il tradimento nei confronti di un suo collega di Partito, rassicurato prima e pugnalato dopo: Renzi Premier non eletto nonostante avesse garantita la sua disponibilità solo dopo un voto popolare.
3)Non è vero che il costo della politica si riduce con un risparmio di mille milioni(prima versione) di cinquecento(seconda versione) ma secondo la Ragioneria dello Stato il risparmio è di soli 48 milioni, ridotti a 24, per le trattenute che venivano fatte ai senatori, e di seguito con le trasferte e le diarie per i consiglieri regionali neo senatori il risparmio è vicino allo zero. Il Senato resta com’è, sarebbe bastato ridurre i deputati a 400 ed i senatori a 100 per un vero risparmio sui costi della politica.
4)Non è vero che viene sveltita l’approvazione delle leggi. Oggi il Parlamento italiano è il più veloce in Europa. Il problema consiste nell’eccessivo numero delle leggi e la incompetenza dei legislatori con errori marchiani per i quali l’Italia è divenuta lo zimbello d’Europa, vedi Codice degli appalti,Riforma pubblica amministrazione, Buona Scuola,Jobs Act, Riforma RAI etc. Non esiste una sola legge renziana che funzioni.
5)Non è vero che vengono ridotti i poteri delle Regioni, anzi vengono premiate con la nascita del Senato espresso da loro e con una diversa rappresentatività tra le stesse, mentre un assurda differenziazione viene riservata a quelle a Statuto Speciale(5).Dopo gli scandali degli ultimi tempi per premio diverranno anche senatori con l’immunità parlamentare.
6) Non è vero che è un buon testo in quanto vi sono errori , periodi sgrammaticati(art.70), omissioni e dimenticanze varie, come quella dell’età dei senatori che potranno essere 18enni, (Senato da senes=anziano) ovvero attacco alla sovranità nazionale( Art.117).

Angelo Sollazzo

Appello finale del Comitato socialista per il NO

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Compagne e compagni,
se è vero che prudenza ed esperienza ci inducono a non dare per certa una vittoria percepita, non è certamente imprudente prepararsi a gestire la difficile fase politica che si aprirà dopo il voto referendario e a predisporre idee, strumenti e iniziative per far fronte a due possibili scenari.
Se prevarrà il NO, verrà bloccato l’assalto all’impianto democratico della Costituzione. E’ questo un obiettivo essenziale ma dobbiamo essere consapevoli che non si bloccherà, da parte dello schieramento battuto, il tentativo di svuotamento dei contenuti di autonomia e del carattere di sovranità statale e democratica della Carta. I tentativi di rivincita riemergeranno anche perché vasto è il fronte, interno ed esterno, dai connotati non solo economici ma anche politici e culturali, che ormai colloca le Costituzioni dei popoli come reperti di archeologia, inadatte a farsi permeabili ai processi di globalizzazione, alle necessità di unificazione e omogeneizzazione della governance, alle leggi del mercato.
L’obiettivo di questo largo fronte è chiaro, più volte dichiarato ed anche teorizzato: le Costituzioni devono perdere la “rigidità” fondata sulla sovranità nazionale e popolare, unica titolare della difesa e della revisione del sistema dei diritti e dei poteri democraticamente conquistati; le Costituzioni – in sostanza – devono perdere la loro forma storica a favore di una forma “flessibile”, di “legge-regolamento” la cui malleabilità deve seguire i cicli congiunturali dell’economia mondiale e dell’equilibrio dei poteri che di volta in volta si ridisegnano.
Da tempo forze potenti si stanno muovendo contro il costituzionalismo democratico, individuato soprattutto in quei sistemi politici dell’Europa “periferica”, marginale, come viene classificata l’Italia. In un noto report di J.P. Morgan del maggio del 2013 (The Euro area adjustment: about halfway there) tali sistemi si sono ricostruiti in seguito a dittature e sono segnati da tali esperienze. Le Costituzioni “tendono a mostrare una forte impronta socialista, riflettono la forza delle Sinistre politiche, una forza conquistata nella lotta al fascismo”. Sistemi politici da correggere, quindi, perché da questa forza discendono: esecutivi deboli, un debole centralismo dello Stato rispetto alle regioni, la costituzionalizzazione dei diritti dei lavoratori, il clientelismo e tanto altro da raddrizzare. Ma non è solo l’opinione di una Banca mondiale. Recentemente molti rappresentanti di interessi forti si sono espressi a favore di un “riorientamento” della nostra Costituzione nel senso del “vento” dei mercati, dalla Goldman Sachs (settembre 2016) alla Confindustria.
La riforma costituzionale di Renzi è dentro questa “tendenza”. L’obiettivo della Costituzione malleabile era già dentro la nascita di questo Governo. Nel disegno di legge costituzionale presentato dal Presidente del Consiglio l’8 aprile del 2014, si legge con chiarezza che il processo di revisione deve seguire “l’esigenza di adeguare l’ordinamento interno alla recente evoluzione della governance economica europea (…) e alle relative stringenti regole di bilancio.” Il governo Renzi, senza alcuna dichiarazione al Parlamento, ha annullato il processo di revisione costituzionale dell’articolo 138 già avviato e a buon punto dell’iter parlamentare, sostituendolo con una iniziativa, non del Parlamento ma di una commissione, che ha dato al governo centralità di iniziativa nel ridisegno costituzionale.
La riforma costituzionale del governo segue il “vento” dei mercati. La “nuova” Costituzione, secondo Renzi, è pensata per far fronte alle “sfide derivanti dalla internazionalizzazione delle economie e dal mutato contesto della competizione globale” e a questo imperativo si deve sacrificare l’impianto del costituzionalismo democratico.
A dividere il Paese e a infiammare la campagna referendaria non è stata certamente la comune e sentita richiesta di ridurre il numero dei parlamentari (e non secondo le recenti pulsioni populistiche del nostro premier) oppure il superamento del bicameralismo paritario (ben dibattuto sin dentro la Costituente del 1947!) o –ancora- il superamento del CNEL. Quello che divide e dividerà anche dopo il 4 dicembre, è la natura della nostra Costituzione declassata a legge-regolamento. Non si fa fatica a riconoscere che la vittoria del SI’ aprirebbe la prospettiva di una revisione “permanente” della Costituzione perché la forza politica che vincerà le elezioni, con il premio di maggioranza che trasforma le minoranze politiche in maggioranze parlamentari, potrà prendere in ogni momento iniziative nel solco della demolizione del costituzionalismo democratico.
Questo sarà il terreno di battaglia politica dei socialisti a partire dal 5 dicembre e su questo terreno lavoreremo con le forze riformiste che hanno scelto il NO e quella parte della sinistra che avrà la forza e l’intelligenza di non farsi trascinare in una battaglia di pura difesa dell’esistente.
I socialisti per il NO, come hanno già detto nella Lettera aperta a tutta la sinistra, rivolgono un appello a tutte le forze democratiche e riformiste per aprire un confronto che prenda atto della necessità di dar vita a una Costituzione che si collochi in una dimensione globale partendo dall’identificazione del confine tra sovranità nazionale inalienabile e parti di sovranità nazionale negoziabili.
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Comitato Socialista per il NO
Presidente Onorario Rino Formica
Presidente Bobo Craxi
Angelo Sollazzo
Roberto Biscardini
Gerardo Labellarte
Pieraldo Cucchi
Aldo Potenza
seguono oltre tremila firme

Il bicameralismo della discordia, di Nicolino Corrado

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1) Non sarà sfuggito ai più lo stile da imbonitori da fiera – consentito, peraltro, dalla legge elettorale – del quesito posto agli elettori per il referendum del prossimo 4 dicembre. Come si può rimanere indifferenti di fronte al superamento del bicameralismo paritario, della revisione del Titolo V della parte II della Costituzione – cose non facilmente comprensibili dal cittadino medio – quando si assicurano allo stesso tempo, in anni di problemi economici e di colossali brutte figure per la classe politica, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del CNEL? L’uso delle parole e la loro miscela sembrano studiati apposta per carpire al cittadino medio e poco informato quel SI alla riforma costituzionale che, secondo gli ambienti governativi,  guarirà tutti i mali dello Stato italiano.

Peccato che le cose siano più complicate rispetto a come le presentano gli spin-doctors di Matteo Renzi.

E’ vero, questa riforma nasce da esigenze giustificate, espresse già quasi quarant’anni fa dal Partito Socialista sotto lo slogan della ”grande riforma”, che diedero luogo a diverse commissioni bicamerali per la riforma della Costituzione senza alcun risultato; ma la riforma Renzi-Boschi realizza  queste esigenze in forme pasticciate, ambigue e tecnicamente inadeguate. La riforma si rende necessaria anche alla luce dell’evoluzione recente del sistema politico, soprattutto dopo i risultati elettorali del 2013, e della struttura istituzionale, a causa dei cambiamenti dell’ordinamento europeo a seguito della crisi economica e finanziaria degli ultimi anni.

Venendo all’esame del quesito-slogan del referendum, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni dovrebbe essere raggiunto soprattutto attraverso la soppressione del CNEL, la riduzione del numero dei senatori e la loro sostituzione con consiglieri regionali e sindaci (muniti già di una loro indennità di carica).  Ma, a ben veder, si può parlare di un’effettiva riduzione di costi solo nel caso della cancellazione del CNEL,  organo consultivo che, per ammissione generale, ha dato scarsi segni di vitalità nei settant’anni di vita repubblicana, la quale frutterebbe un risparmio di 20 milioni di euro secondo la ministra Boschi, di circa 9 milioni in base alle più tecniche analisi della Ragioneria generale dello Stato.

Infatti, la riduzione dei senatori da trecentoquindici (più i senatori a vita) a cento, è lontana dal rappresentare una riduzione dei costi, e soprattutto significativa. Verrebbe ridotto l’ammontare degli stipendi e delle indennità spettanti ai senatori, ma rimarrebbero intatti i costi molto più pesanti del funzionamento dell’istituzione (personale, spese per servizi vari, per forniture ecc.). Insomma, si tratta di pura propaganda fondata sulla mistificazione. Per la ministra Boschi “il taglio del 33% delle indennità parlamentari e dei rimborsi dei senatori fa risparmiare 80 milioni all’anno”, inoltre, 70 milioni all’anno vengono, poi, dal “funzionamento delle commissioni, dalla riduzione dei rimborsi ai gruppi al Senato, a cui possiamo aggiungere la progressiva riduzione nel tempo dei funzionari che saranno necessari”. Ma la Ragioneria Generale dello Stato controbatte che “la minore spesa conseguente … è stimabile in circa 49 milioni di euro”; dei quali 40 milioni ottenuti dall’abolizione dell’indennità per i futuri senatori e i rimanenti 9 dalla cessazione della corresponsione della diaria mensile (3.500 euro mensili pro capite).  Quindi, poiché il  bilancio del Senato prevede per il 2016 una spesa di 540 milioni di euro, la riduzione del numero dei senatori produrrà un risparmio soltanto del 9%.

L’intervento della riforma sull’organo costituzionale – Senato non è significativo, dunque, per gli scarsi risparmi economici.  Il Senato rappresenta , invece, il vero punto di rottura degli equilibri costituzionali che l’ariete della riforma Renzi intende colpire, per consentire al governo (ed ai gruppi di potere che lo sostengono) di raggiungere il reale obiettivo politico mascherato dalla riforma costituzionale (assieme alla legge elettorale super-truffa Italicum): avere le mani completamente libere da condizionamenti e controlli nella gestione delle risorse economiche e finanziarie.

2) L’assetto delle camere ed i loro rapporti, reciproci e con il governo, costituiscono la carta d’identità che identifica ogni singolo e specifico Stato democratico. Nella configurazione attuale i due rami del Parlamento italiano svolgono le stesse funzioni (è la caratteristica del bicameralismo paritario). Secondo la critica più diffusa, ciò provoca lungaggini nell’attività legislativa. Un disegno di legge, per diventare legge, deve essere approvato nello stesso testo dalla Camera e dal Senato; l’aggiunta di emendamenti, da parte di una camera, provoca il rinvio del testo così emendato alla camera che l’ha esaminato per primo e così via, a raffigurare il fenomeno designato dai costituzionalisti francesi come “navette”.

Ma il Parlamento, negli Stati di diritto, è depositario anche della funzione di indirizzo politico: il governo è nella pienezza dei suoi poteri solo se riceve la fiducia della maggioranza dei membri di ognuna delle due camere. Due camere, due voti di fiducia, con conseguente raddoppio di tutte le occasioni (e dei tempi di discussione) in cui il governo pone al parlamento la questione di fiducia o uno più parlamentari presentano all’assemblea una mozione di sfiducia contro il governo.

Il Senato o camera alta, negli Stati europei, rappresenta un’eredità delle epoche in cui i primi parlamenti concessi dai re erano composti da esponenti della nobiltà. Fu solo dopo la vittoria dei principi liberali che alla Camera alta fu affiancata una camera bassa, espressione della volontà dei cittadini e formata da rappresentanti delle classi borghesi. L’estensione del voto alle classi popolari e l’avvento dei partiti di massa fecero aumentare il peso istituzionale della camera elettiva nei confronti della seconda camera di nomina ereditaria o regia. Venuta meno l’esigenza di rappresentare classi diverse della società, l’unica esigenza residua per giustificare l’esistenza di due camere con uguali funzioni rimase quella che Costantino Mortati, all’Assemblea Costituente, definì una funzione “ritardatrice”, cioè una funzione di riflessione e di correzione reciproca delle deliberazioni.

Il Partito Socialista, i comunisti e gli azionisti nel dibattito alla Costituente sostennero l’abolizione del Senato, sulla base della considerazione che, se la radice della sovranità popolare è unica, unica deve esserne la rappresentanza. Il bicameralismo paritario fu una soluzione di compromesso raggiunta con la Democrazia Cristiana e gli altri partiti, favorevoli a vari modelli di bicameralismo differenziato, sulla spinta dell’incipiente divisione del mondo in due blocchi contrapposti; essa, ripartendo la sovranità democratica tra due Camere, aveva lo scopo di garantire reciprocamente tutti i partiti per il futuro, evitando possibili dittature di qualsiasi maggioranza.

Secondo il costituzionalista Vezio Crisafulli, in questo modo la Costituente disegnò un bicameralismo “assurdo ed ingombrante”.Con il passare degli anni, la complessità nelle procedure ha prodotto tanto una maggiore lentezza nell’attività legislativa quanto una maggiore instabilità nella vita e nell’azione dei governi.

3) Con il passaggio al bicameralismo differenziato (la forma di bicameralismo più diffusa), il nuovo Senato perde l’elezione diretta dei senatori, il voto di fiducia al Governo, il voto sulla legge di bilancio, l’indennità di carica ai senatori; sarà composto da consiglieri regionali e sindaci, sarà privato della funzione d’indirizzo politico. La Camera dei deputati diventa così titolare in via esclusiva del rapporto di fiducia e di controllo sul Governo, mentre il Senato diventa l’organo rappresentativo degli enti territoriali.

La riforma dichiara d’ispirarsi al Bundesrat, la camera alta austriaca: al pari di questo, infatti, il Senato riformato viene eletto dalle assemblee legislative regionali.

Un sistema con forti autonomie territoriali può funzionare solo se esistono a livello nazionale idonee sedi istituzionali di raccordo e di bilanciamento tra gli interessi dello Stato centrale e delle realtà locali.

Il Senato è un’assemblea parlamentare: un organo, cioè, a cui è connaturato il principio della rappresentanza. In un Senato costruito come organo di secondo grado, il titolo di legittimazione dei membri non può non essere costituito dall’elezione da parte degli enti che essi sono chiamati a rappresentare.

Ma la struttura e le modalità di funzionamento del Senato riformato sono del tutto inadeguate alla varietà e alla rilevanza delle funzioni che all’organo stesso si è inteso assegnare sulla carta.

Si pensi, in particolare, all’obbligo del doppio mandato che, adottato nei confronti di persone già oberati da incarichi gravosi in sede locale, appare destinato a ridurre il prestigio e l’operatività dell’organo, con il rischio di trasformarlo da perno centrale dello Stato regionale (così come dovrebbe essere) in una stanza di compensazione di interessi meramente localistici o in un organo di mera opposizione nei confronti dell’azione della Camera dei Deputati. Per la composizione del Senato si sarebbe potuto prevedere una elezione, da parte dei Consigli regionali, di soggetti esterni ai Consigli stessi.

Un altro punto critico è rappresentato dal sistema usato per distribuire i seggi tra le Regioni: un sistema a base due, in forza del quale alle Regioni di più ridotta consistenza demografica (ed alle due province autonome di Trento e Bolzano) saranno assegnati soltanto due seggi. Questa soluzione, infatti, non consente di costruire le rappresentanze, ottemperando alla giusta esigenza di proporzionalità. Non solo perché, in una delegazione composta da due senatori, non può garantirsi la proporzionalità della rappresentanza (la quale richiede che la maggioranza non abbia lo stesso peso della minoranza); ma anche perché il metodo proporzionale è previsto dall’art. 57, comma 2, limitatamente all’elezione dei senatori-consiglieri regionali. Ed è evidente che, quando la delegazione al Senato comprende soltanto un membro del Consiglio regionale, esso non è tecnicamente applicabile.

Il pericolo maggiore a cui è esposta un’assemblea formata da componenti espressi con elezione di secondo grado, però, è quello che essa finisca per obbedire ad una logica esclusivamente partitica, con conseguente aggregazione dei componenti in gruppi a base, non già territoriale, ma partitica, analogamente a quanto avviene in Austria. Se la composizione della seconda camera coincide con quella della prima, il valore aggiunto dell’organo chiamato a rappresentare le Regioni, nella loro individualità istituzionale, rischia di essere del tutto vanificato. Si potevano cercare dei correttivi: il voto di delegazione (con la conseguenza che, se nella delegazione regionale non si raggiunge l’unanimità, la Regione risulta astenuta dal voto come in Germania), o l’inclusione nell’organo anche di un membro della giunta regionale.

E’ criticabile anche la soluzione prescelta con riferimento ai sindaci, la quale rappresenta il non riuscito compromesso tra l’idea che il Senato debba rappresentare le sole Regioni e quella secondo cui in esso dovrebbero trovare la propria proiezione istituzionale tutte le autonomie territoriali presenti nell’ordinamento.

A tutto ciò va aggiunta l’assoluta anomalia della presenza in Senato dei cinque senatori di nomina presidenziale in ragione dei loro meriti, figure del tutto fuori posto in un organo a cui la Costituzione affida il compito di rappresentare il sistema delle autonomie.

4) Dal punto di vista del procedimento di formazione della legge, la riforma si pone in netto contrasto col fine di semplificazione che dichiara di voler perseguire. La moltiplicazione delle procedure di approvazione delle leggi bicamerali e monocamerali (circa una decina di tipologie differenti a seconda della natura o degli strumenti di volta in volta utilizzati), legate a una diversa articolazione delle materie, rischia seriamente di dare corso ad una elevata conflittualità tra le camere; conflittualità destinata ad aggiungersi a quella tra Stato e Regioni che la sconsiderata riforma del titolo V della Costituzione (attuata nel 2001 dal centrosinistra) ha aggravato e che la riforma attuale si pone come fine di ridurre. Invece di semplificare e accelerare il percorso della legislazione, si finisce per complicare e ritardare l’iter delle deliberazioni parlamentari senza la previsione di rimedi efficaci per i possibili conflitti, non sembrando tale “l’intesa” non procedimentalizzata tra i Presidenti delle due Camere a differenza della commissione paritaria presente nel sistema tedesco.

E’ auspicabile che al nuovo Senato non tocchi il destino del suo modello, il Bundesrat  austriaco.  A novant’anni dalla sua istituzione, se ne discute l’abolizione, almeno per far risparmiare al contribuente più di 30 milioni di euro l’anno.

L’obiettivo dei padri della Costituzione austriaca del 1920 (che è poi la stessa oggi in vigore, ripristinata dopo la parentesi austrofascista e dopo l’Anschluss tedesco) era di costituire un contraltare alla camera bassa, il Nationalrat. Tutte le leggi approvate da questo dovevano poi passare anche all’approvazione del Bundesrat, che avrebbe potuto respingerle o correggerle, ma senza che le sue decisioni fossero vincolanti. La legge sarebbe poi ritornata alla camera bassa, che avrebbe sempre avuto la facoltà di riapprovarla nella sua versione originale. In tutti questi anni di vita il Bundesrat non ha mai rinviato una legge alla camera bassa.

Il visitatore dell’edificio neoclassico, sede del parlamento di Vienna, ha la rappresentazione visiva di questa inutilità: dopo aver visitato la grandiosa aula “storica” del Nationalrat viene accompagnato verso l’aula arredata in stile anni ’60 in cui si svolgono abitualmente i suoi lavori; a metà del corridoio, sulla destra, s’intravede un salone che può contenere sì e no una sessantina di persone, con alle pareti gli stendardi degli Stati-regione: la guida, a questo punto, si premura di informare che quella è la sede del Bundesrat.

Certamente, se accadesse questo anche in Italia la prospettiva monocamerale s’imporrebbe per forza di cose.

5) L’impressione complessiva che si trae da questo progetto di riforma è che attraverso di esso più che costruire un qualcosa di nuovo (cioè un Senato inteso come perno di un nuovo Stato regionale), si è inteso in primo luogo depotenziare la realtà esistente collegata al potere della seconda Camera e del complessivo impianto regionale: e questo al fine di una maggiore concentrazione della forma di governo a danno della forma dello Stato.

Sarebbe stata necessaria una riflessione parlamentare condotta, non a colpi di maggioranze governative, ma con il metodo della Costituente: condivisione dei contenuti, pazienti mediazioni tra le forze politiche ed il richiamo ad un superiore fine comune. Un consenso finalizzato ad abbinare – come ha scritto il costituzionalista Enzo Cheli – una forma di governo parlamentare più razionalizzata con una forma di Stato regionale più caratterizzato nel suo tono politico, individuando, senza sovrapposizione di ruoli, nella Camera il cardine della forma di governo e nel Senato il cardine della forma dello Stato. Anche per porre fine alla sequenza di riforme costituzionali d’iniziativa governativa realizzate nella Seconda Repubblica e rivelatesi fallimentari proprio per mancanza di riflessione e di condivisione.

Per questo, Matteo Renzi ha commesso un grave errore istituzionale nel voler dare a questo referendum il significato di un voto popolare di fiducia sul governo, cancellando la linea di confine che dovrebbe sempre distinguere la politica costituzionale dalla politica governativa.

Secondo molti oppositori, la riforma Renzi-Boschi rappresenterebbe il primo passo della trasformazione del nostro Stato regionale e, in prospettiva, della nostra forma di governo in direzione autoritaria. Si tratta solo di un’enfatizzazione polemica; questa riforma, pur con tutti i suoi aspetti critici, non presenta in prospettiva un rischio di questa natura. Il rischio della riforma, a parte quello già evidenziato dell’arbitrio governativo in materia economica e finanziaria, riguarda invece il funzionamento del modello adottato – sia con riferimento al bicameralismo sia all’ordinamento regionale – che potrebbe essere compromessa dalla conflittualità derivante dalla confusa determinazione dei rapporti tra le due Camere e tra lo Stato e le Regioni.

La vittoria del NO al referendum, respingendo la manovra avventuristica di Renzi, consentirebbe la riapertura del dibattito pubblico su di una riforma della Costituzione meditata e condivisa, possibilmente affidata ad una nuova Assemblea Costituente, rappresentativa di tutto il popolo e operante nello spirito e nel metodo come quella dei padri della Repubblica del 1946.

Nicolino Corrado

Perché NO, di Claudia Baldini

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C’è un club privato di alcune migliaia di persone, non eletti dai cittadini del mondo, che decide il destino in bene o in male di intere popolazioni. Queste persone con il loro seguito di partner manipolano a loro vantaggio i mercati finanziari e impongono la sudditanza della politica dei governi, strozzando gli Stati, o concedendo benessere. Chiunque si oppone a questa gang subisce o in povertà o in guerra aperta.

In questo modo i grandi Istituti commerciali, azionisti delle Banche Centrali, innanzitutto della Federal Reserve e della BCE, riescono a filtrare o trasferire quelle informazioni che servono a reggere il capitalismo mondiale. Il prezzo di beni primari, azioni, obbligazioni, titoli, valuta non sono il risultato di Economia reale e di contrattazioni libere, ma stabilite da questi banchieri liberticidi che conducono la massa dei piccoli risparmiatori e dei contribuenti e che si sono inventati le agenzie di rating specializzate come Moodys o Standard & Poor’s che determinano attraverso i governi alleati le crisi in modo da procurare cassa al capitalismo-liberismo globale.

Nessuna meraviglia che JP.Morgan entri nel governo americano direttamente, c’è sempre stato indirettamente. Nessuna meraviglia che si permettano di stilare un documento apposito a critica delle Costituzioni ‘socialiste’ dei Paesi europei del sud. Nessuna meraviglia che i potenti del mondo in ogni branchia della società si riuniscano per il Bildenberg con i loro amici a valutare ed indirizzare le economioe dei Paesi. Nessuna meraviglia che anche una insignificante giornalista, ma amica di molti, come Lilly Gruber quest’anno sia stata ammessa alla sessione annuale del Bildemberg.

Il cervello che guida il liberismo risiede in un migliaio o poco più di aziende la cui composizione azionaria è incrociata, ossia se si va a vedere sono sempre gli stessi azionisti che partecipano. Meno dell’ 1% delle multinazionali determina la gestione del 40% del totale
Perché ciò è possibile ed è un salto di qualità notevole rispetto al capitalismo del secolo scorso?
Perché il mondo ha perso le forze antagoniste.
Tutti convergono, con la ‘scusa’ della libertà di consumo, su questo modello globale. Sempre più governi di destra, sempre più dittatori disposti a massacrare i loro popoli, sempre più disinformazione, sempre più distrazioni, sempre più ignoranza. E sparisce la sinistra, non fanno sparire il nome che fa comodo per attrarre adesioni, ma hanno fatto sparire l’ideologia valoriale, convincendo che destra e sinistra non hanno più senso. Non è vero che non hanno senso, è vero che sono poca cosa.

Ancora baluardo di una forma di socialdemocrazia che si oppone al super sfruttamento e ai diritti, resta qualche Paese del nord Europa, mentre di nuovo l’America latina è nella bufera, la Cina si adegua, l’Africa ormai è della Cina. L’Europa l’abbiamo sotto i nostri occhi.
La riforma della Costituzione non è per risparmiare quel poco, non è per velocizzare le leggi è per andare verso un’oligarchia. Renzi e la sua banda di amici sono integrati in questa visione in cambio del potere.
Dobbiamo dare un segno, una spallatina a questa immonda logica di lestofanti.
E quelli che votano Sì li aiutano.
Smettiamola col dire che si o no non cambieranno nulla. Primo, già molto hanno cambiato e manca solo annullare le garanzie della legge madre. E in seguito ci si avvierebbe ad un governo di tipo presidenziale, senza contrappesi.
Non è solo la legge elettorale il male.
L’impianto da distruggere è contenuto nella Costituzione come dicono Lor Signori ‘socialista’.

Per questo il 4 deve essere NO, una valanga di NO.

Claudia Baldini

Tante ragioni per un NO, di Roberto Biscardini

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Biscardini

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Ci sono ragioni di fondo che mi hanno fatto decidere subito per il NO rispetto a questa brutta controriforma della nostra Costituzione.
Nel merito tre questioni.
Primo. Il dibattito si concentra di solito sui poteri demiurgici che dovrebbe aver questo nuovo Senato, mentre è solo un letterale pasticcio, un ibrido. Non elimina il bicameralismo paritario e rimane in piedi con poteri legislativi propri. Ancorché composto da consiglieri regionali e sindaci non eletti direttamente dai cittadini, avrà la possibilità di legiferare su materie assolutamente importanti quali le leggi di revisione costituzionale, i referendum popolari, le leggi elettorali, quelle riguardanti gli enti locali e soprattutto quelle relative alla partecipazione dell’Italia alle politiche dell’Unione Europea. Oggi circa l’80% delle leggi che approva il parlamento riguardano questa materia. Quindi per tutte queste leggi la cosiddetta “navetta” rimane esattamente in piedi come ora e i tempi di formazione delle leggi non solo non saranno ridotti ma potrebbero persino allungarsi per effetto di conflitti di competenza tra le due Camere. Insomma i tempi non si ridurranno.
Delle due l’una, se si voleva abolire drasticamente il bicameralismo paritario si doveva avere il coraggio di abolire il Senato tout court. Se invece si voleva come obiettivo ridurre il numero dei parlamentari, regolamentando pur in modo diverso il funzionamento delle due Camere, meglio ridurre da 630 a 400 i Deputati e da 315 a 150 i Senatori, con un risultato più marcato di quello previsto da questa riforma. Secondo. Si dice: ma abbiamo fatto il Senato delle Regioni. E non è vero neanche questo. Il Senato delle Regioni dovrebbe avere come propri rappresentanti non consiglieri sostanzialmente nominati dai partiti, ma rappresentanti dei governi regionali in carica come sul modello del Bundesrat tedesco. E poi si dice: ma noi con la riforma rafforziamo i poteri regionali. Ed invece per assurdo è vero esattamente il contrario. Con la riforma aumentano le competenze esclusive dello Stato e addirittura su proposta del Governo lo Stato può esercitare una “clausola di supremazia” degli interessi nazionali sulle competenze delle Regioni. Siamo ritornati al centralismo statale ante 1970, e ogni ipotesi federalista o regionalista è messa ormai totalmente in discussione.
Contemporaneamente rimangono totalmente in piedi le Regioni a statuto speciale, che rappresentano insieme un vecchio anacronismo e uno dei fattori di spesa più alti della finanza pubblica.
Terzo. Il tema della cosiddetta estensione della partecipazione popolare, questione vera, aperta dalla fine degli anni ’60, e che giustificherebbe una seria e meditata revisione costituzionale. Anche qui siamo al paradosso. L’esatto contrario di quello che si dice di voler fare. I cittadini per presentare delle proposte di legge di iniziativa popolare dovranno raccogliere 150.000 firme contro le 50.000 attuali e la procedura per i referendum è diventata assolutamente bizantina. Ma arriviamo ai punti politici. Il primo riguarda il metodo con il quale si è arrivati a questa riforma. Contro il parere e lo spirito dei padri costituenti si è introdotto il principio che una maggioranza parlamentare, eletta col sistema maggioritario e con legge oggi giudicata incostituzionale, senza la ricerca di un consenso largo nel parlamento, possa cambiare da sola 47 articoli della Costituzione, sostenendo demagogicamente che il referendum confermativo farà giustizia di questa anomalia. Siamo così ormai nel solco insidioso del populismo di Stato soprattutto perché il SI o il NO secco non consente al cittadino un giudizio sulle singole questioni poste in gioco. Da questo punto di vista è assolutamente ragionevole il ricorso avanzato dal Prof. Onida a favore dello spacchettamento del quesito. Secondo: le Carte Costituzionali dovrebbero essere scritte per le nuove generazioni e non per soddisfare o per ottenere una conferma più o meno plebiscitaria delle maggioranze parlamentari e dei governi in carica. L’attivismo dell’attuale Presidente del Consiglio e lo stesso fatto che la proposta di riforma sia stata avanzata dal Governo e non dal Parlamento, conferma l’anomalia di questa proposta. Ricordiamoci Calamandrei che invitava il governo a stare a casa quando il Parlamento discuteva la riforma costituzionale e persino De Gasperi, Presidente del Consiglio, che intervenne allora dai banchi del parlamento per non compromettere la sua indipendenza rispetto a quella dell’esecutivo. Terzo: nella propaganda del SI viene invocato “il nuovo contro il vecchio”: ma chi ha mai detto che di per sé le cose nuove siano sempre meglio delle cose vecchie? Anche il fascismo lo era rispetto alla fase precedente.
Viene invocato “il cambiamento” come un valore di per sé. Anche qui verrebbe da dire: negli ultime vent’anni in Italia e anche nel resto del mondo è cambiato pressoché tutto ma non in meglio. Non abbiamo più le preferenze, non abbiamo più i partiti, non abbiamo più le istituzioni, lo Stato è come si voleva, debole e leggero, l’economia e la finanza contano sopra la politica. Tutti cambiamenti di cui oggi potremmo pentirci. I cambiamenti non sono sempre positivi. Si invoca la stabilità dei governi, tema che i cittadini hanno capito benissimo che non dipende dalla riforma costituzionale o dalle leggi elettorali ma dalla politica infatti la prima repubblica, con i suoi circa 60 governi, è considerata da tutta la storiografia del mondo come il periodo più stabile del nostro paese. Infine si invoca “la velocità” come valore, anche questo un termine molto futurista e del tutto astratto rispetto al tema della efficienza. Non è assolutamente detto che l’efficienza marci insieme alla velocità.
Per finire: i sostenitori del SI chiedono il voto per evitare “salti nel buio”. L’esatto contrario. Con il SI si avvia una fase interminabile in cui qualunque maggioranza, anche quella più strampalata, frutto di una legge elettorale assolutamente non democratica come il Porcellum o l’Italicum per esempio, potrà a colpi di maggioranza piegare la Costituzione a sua immagine e somiglianza, fino alla sua totale abrogazione. Non dimentichiamoci che questo è stato l’obiettivo, persino non tanto nascosto, della destra storica, dallo Statuto Albertino sotto sotto fino ad oggi.
Dopo la vittoria del NO, invece, si dovrà eleggere e convocare inevitabilmente una Assemblea Costituente per ridare senso unitario alla nostra Costituzione e per impedire i continui rimaneggiamenti e ritocchi che già in parte l’hanno resa irriconoscibile. Non dimentichiamoci l’obbrobrio del pareggio di bilancio e dei vincoli europei già costituzionalizzati. Dopo i fallimenti delle bicamerali e con dei parlamenti eletti con il sistema maggioritario non ci sarà alternativa, se si vuole veramente cambiare la Costituzione, ad eleggere direttamente e con sistema proporzionale una nuova Assemblea Costituente indipendente dalla maggioranza parlamentare e dal governo in carica. Essa dovrà affrontare almeno due temi cruciali assolutamente necessari ed attuali, che questa riforma non affronta.
La necessità di riequilibrare gli strumenti di democrazia diretta con quelli della rappresentanza; come e con quali regole cedere sovranità nazionali senza distruggere la nostra storia, cultura e identità, contemporaneamente difendendo i principi fondamentali della nostra Costituzione.
Tutti coloro che dichiarano di votare SI devono sapere che con quel voto il “salto nel buio” è garantito. Si apre la strada alla soppressione di fatto della prima parte della Costituzione, si accettano politiche economiche e sociali imposte all’Italia dal vincolo estero anche per il futuro, il potere parlamentare e quindi del popolo sarà sempre più irrilevante. Il potere legislativo sarà sempre più unificato al potere dell’esecutivo.
La battaglia per il NO è quindi una battaglia consapevole per il bene dell’Italia e del suo futuro, perché non è vero che “una riforma qualsiasi è meglio di niente” e non è assolutamente vero che “piuttost che nient, l’è mei piuttost” quando il “piuttost” è una porcheria.

Roberto Biscardini

Renzi ricorre a tutte le scorrettezze istituzionali per il timore di perdere il referendum, di Gioacchino Assogna

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E’ scandaloso che un Presidente del Consiglio approfitti della sua carica Istituzionale per mettere in atto iniziative propagandiste al fine di attrarre voti in suo favore.

Lo fa sia per l’invio incredibile di una lettera per sollecitare il voto a suo favore, a tutti gli Italiani all’estero, in concomitanza con l’invio delle schede elettorali per il Referendum del 4 dicembre prossimo e sia per la strumentale iniziativa, smaccatamente anti-europea, di togliere la bandiera dell’Europa a fianco di quella Italiana a Palazzo Chigi per accentuare il polemico distacco da Bruxelles per mandare un messaggio agli euro-scettici in modo da ricavarne il consenso Referendario.

Balza evidente la forte contraddizione politica del bullo fiorentino che qualche settimana fa ha promosso un vertice con Hollande e la Merkel a Ventotene per esaltare il Manifesto di Spinelli e rilanciare l’Europa Unita necessaria per affrontare lo stato di crisi, insieme all’appuntamento della prossima primavera per celebrare i 50 anni della firma degli accordi per l’Europa firmati a Roma.

Oggi è ossessionato dal vantaggio dei NO al Referendum, che potrebbe significare il benservito del suo primo Governo e di un forte segnale ai suoi metodi arroganti certamente sbagliati e incomprensibili per un Presidente del Consiglio.

Sta cavalcando l’Anti-Europeismo becero al pari del Capo di Governo Ungherese Orban, portatore di posizione fasciste, egoiste e nazionaliste anti-storiche.

Renzi non si rende conto che su questa linea è stato lasciato solo in un preoccupane isolamento, considerato che nessun Capo di Governo, compresi quelli di estrazione Socialista, hanno espresso condivisione e sostegno per lo scontro in atto con la Commissione Europea che rivela e conferma la grave inadeguatezza ad un ruolo primario di responsabilità.

Dobbiamo accrescere il nostro impegno per far votare NO al Referendum in modo da sconfiggere la volontà di cancellare il diritto di voto e di scelta dei cittadini per il Senato e le Province, oltre per salvaguardare gli spazi di partecipazione democratica, incredibilmente colpiti da questa schiforma marcata dal trio Renzi-Verdini-Boschi.

Gioacchino Assogna

La riforma costituzionale dei socialisti, documento del Comitato socialista per il NO della Toscana

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I socialisti che hanno aderito al “Comitato Socialista per il NO” e che hanno dato vita ai comitati del NO sul territorio sono sideralmente lontani dalla maggior parte di politici che fanno opposizione a Renzi.
Non vivono la scelta del NO come un plebiscito e neppure come Armagedonn, ma come giudizio su una riforma e sulla filosofia istituzionale che la anima.
Avvertono quale principale esigenza la costruzione di un equilibrio, non la blindatura di una leadership.
Questa riforma invece, si porta in pancia l’Italicum che, con l’ansia di proclamare un vincitore la sera del ballottaggio, un partito votato dalla meno esigua minoranza di elettori si prende tutto il piatto. Nell’idea che quel partito sia il PD e con il rischio, invece, che sia un altro.
Il premier ha personalizzato la sfida intendendo trasformare il quesito referendario in giudizio di Dio, evocando in caso di vittoria del NO il ritorno all’Italia degli “inciuci” come se fossero questi i modi e i linguaggi per affrontare un tema serio e decisivo per la vita di un Paese.
I socialisti contestano la filosofia della riforma che è molto attenta al problema del governo e non lo è altrettanto ai partiti e al Parlamento.
C’è un tratto di presidenzialismo camuffato. Il problema non è la speditezza con cui il governo attua il suo programma, è l’abisso che oggi separa l’elettorato dalla sua rappresentanza. Il combinato disposto tra una riforma costituzionale discutibile e una legge elettorale indiscutibilmente arbitraria, rende velenosa la posizione distillata negli alambicchi di Palazzo Chigi.
Se vincerà il NO, occorrerà ripensare una architettura sbilenca.
Piero Calamandrei nel 1947 avvertì i costituenti: “La Carta Costituzionale è una Costituzione tripartitica, di compromesso, molto aderente alle contingenze politiche dell’oggi e del prossimo domani: e quindi poco lungimirante”.
Giuliano Amato nel 1976 così lesse la crisi costituzionale: “Lo Stato che abbiamo non è né quello scritto nella Costituzione, né quello che preesisteva storicamente al modello ivi tracciato. E’ il risultato di una ibridazione complessa, in cui sono confluite almeno tre componenti: lo Stato anteriore, le innovazioni introdotte in esso dalla DC sulla base di modelli estranei alla Costituzione (anche se formalmente non contrastanti con essa), il processo di attuazione costituzionale, che è però intervenuto a strati e per ondate successive, innestandosi sulle altre due componenti”.
Il compromesso ideologico costituente tra le elitès del mondo cattolico e la nomenclatura della sinistra marxista ufficiale, non poteva reggere a lungo.
Fu così che la Costituzione materiale travolse la Costituzione scritta.
Sacri principi e norme di attuazione si mescolarono e snaturarono il valore della Carta e devastarono le istituzioni.
Dopo gli anni ’70 lo scontro tra i socialisti della “Grande Riforma” ed i templari della “Carta non si tocca” si concluse con la sconfitta dei socialisti.
Il diversivo della centralità e della unicità della questione morale come causa della crisi istituzionale e politica, consegnò l’Italia alla paralisi permanente sino alla riforma sottoposta oggi a referendum.
Con questa riforma, che non riforma lo Stato, si è rafforzato l’eterno trasformismo che comprime i valori inviolabili ed esalta i meschini interessi di parte.
L’Italia deve cambiare e deve essere diversa in un mondo che è cambiato e che cambierà ancora.
Chiediamo un NO alla farsa referendaria per dire SI all’ ASSEMBLEA COSTITUENTE da convocarsi entro 6 mesi, dal voto referendario, per affrontare i temi veri della riforma dello Stato e della forma di Governo, In quella sede i Socialisti non mancheranno di mettere sul tavolo i temi della loro pluridecennale elaborazione politica ed istituzionale.

NO ALLA CONTRORIFORMA BOSCHI- RENZI- VERDINI

Documento del Comitato socialista per il NO della Toscana

Otto motivi per cui la riforma Renzi è illegittima, di Vincenzo Russo

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Vincenzo Russo

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Come disse Churchill, la democrazia è un sistema con tanti difetti ed un solo vantaggio: non esiste un sistema migliore di essa. Con riguardo alla riforma costituzionale di Renzi, il problema non è se vuole migliorare la democrazia o se la vuole seppellire. Sappiamo che essa può apparire, nel breve termine, lenta e poco efficiente ma, nel medio-lungo termine, essa vince. Il problema generale è che le classi dirigenti, ormai da 30-40 anni, hanno la veduta corta. Aggiungo che per far funzionare al meglio la democrazia servono politici che ci credano e che siano disposti a fare grandi sforzi e sacrifici per farla funzionare. Di questi politici se ne vedono pochi in giro. Se date il metodo democratico in mano a politici che non ci credono e che vogliono concentrare il potere decisionale nelle proprie mani, è chiaro che saranno disposti a ridurla a sola parvenza.
Venendo al merito, come il governo chiede, a mio giudizio, è innegabile che la riforma Renzi riduce la democrazia rappresentativa sia a livello delle Aree metropolitane che dovrebbero essere livello di governo di secondo livello (al di sopra dei Comuni) molto più importante dei Comuni ma non è così perché, come sappiamo, i cittadini non possono votare. I consigli delle aree metropolitane saranno designati dai sindaci della stessa giurisdizione. Consiglieri metropolitani sono stati eletti a Milano e a Napoli ma nessuno se n’è accorto. La sindaca Raggi automaticamente sarà presidente dell’area metropolitana di Roma e dovrà occuparsi dei problemi comuni di altri 100 municipi come se non avesse abbastanza da fare con la gestione dei problemi della Capitale.
Ma i cittadini non possono votare neanche per il c.d. Senato delle Autonomie, così definito con l’avallo di gran parte della dottrina costituzionale che aggrappandosi all’art. 5 Cost non ha mai accettato l’idea di un Senato federale – come a suo tempo richiesto dal PD, da FI e dalla LN.
Oggi, nei paesi democratici più avanzati, il problema all’attenzione degli studiosi, esperti ed opinione pubblica è come passare dalla democrazia partecipativa a quella diretta e/o deliberativa specialmente ai livelli di governo sub-centrali, adottando referendum deliberativi, mandati imperativi e procedure di recall (richiamo). Il Italia questo implicherebbe modifiche ragionate dell’art. 67 Cost e delle regole statutarie di regioni, aree metropolitane e comuni.
La riforma di Renzi riduce le sedi di partecipazione, centralizza molte delle funzioni delle RSO, lasciate invariate quelle delle RSS e il governo ci vuol far credere che la sua riforma implementa la democrazia. In questi termini, detta riforma si pone in contrasto con la Costituzione europea (TFUE) che adotta il modello partecipativo e prevede a livello consultivo il Comitato delle regioni e il Comitato economico e sociale dove sono presenti le rappresentanze dei sindacati di tutti i Paesi membri.
Il bischero toscano probabilmente ritiene che gli italiani siano completamente stupidi e totalmente disinformati e, quindi, non capiscano l’imbroglio sottostante la propaganda governativa sulla semplificazione, il taglio delle poltrone e la presunta velocizzazione del processo decisionale.

Elencherò adesso una serie di argomenti che, a mio giudizio, minano la legittimità della riforma costituzionale ed elettorale di Renzi.
1) è illegittima perché le riforme costituzionali vanno fatte dai Parlamenti e/o dalle assemblee costituenti e non dai governi di turno che sono parte in causa rispetto all’opposizione; le regole fondamentali del gioco democratico non vanno scritte da una sola squadra mentre si sta svolgendo la partita; per contro le riforme costituzionali vanno scritte da costituenti “avvolti nel velo dell’ignoranza”, ossia, senza sapere chi saranno gli avvantaggiati e svantaggiati delle medesime;
2) la riforma presenta aspetti di illegittimità perché Renzi e il PD non hanno avuto alcun mandato popolare per farla; nelle elezioni politiche del 2013 il PD non aveva come punto qualificante la riforma di tutta la seconda parte della Costituzione ma sostanzialmente il problema del rafforzamento della democrazia; nel Manifesto dei valori del 2008 il PD affermava che bisognava porre fine alla stagione delle riforme costituzionali approvate a stretto voto di maggioranza, utilizzando le stesse parole usate da un parallelo Manifesto di quattordici Fondazioni politiche che coprivano tutto l’arco costituzionale; Renzi non era candidato alle elezioni del 2013; punti fondamentali di questo Manifesto sono stati ripresi recentemente da D’Alema e Quagliariello che hanno proposto un progetto di legge molto semplice che riduce il numero dei parlamentari, conferma l’elezione diretta di Deputati e senatori; semplifica il processo legislativo introduce la Commissione di conciliazione che evita la tanto deprecata navetta;
3) neanche i sistemi elettorali vanno votati dalla sola maggioranza di governo, tanto meno, di un presidente del consiglio nominato dal Presidente della Repubblica con procedura alquanto dubbia; i sistemi elettorali devono raccogliere il consenso più ampio possibile per il semplice motivo che essi determinano la composizione del Parlamento (monocamerale o bicamerale). Da qui l’ineludibile nesso tra riforma delle istituzioni e sistema elettorale. In situazioni di forte frammentazione delle forze politiche, congiunta ad una fortissima percentuale di astenuti, l’Italicum, attraverso il previsto premio, consegna la maggioranza e il governo nelle mani di una minoranza poco rappresentativa;
4) i sistemi elettorali e la riforma costituzionale non possono essere approvati da parlamentari in gran parte nominati ed eletti con un sistema elettorale dichiarato incostituzionale con la Sentenza della Corte Costituzionale n. 1/2014; come noto, la Corte costituzionale doveva pronunciarsi sull’Italicum il 4 ottobre ma per motivi di opportunità la Corte stessa ha deciso di rinviare la seduta finale. In fatto, questo rinvio favorisce la linea del governo perché una probabile censura dell’Italicum avrebbe fortemente favorito l’opposizione schierata per il NO.
A mio giudizio, un problema analogo si pone per la stessa legittimità del Parlamento su cui tutti chiudono gli occhi in nome della stabilità del sistema; ora è comprensibile che la stabilità sia assicurata per il breve termine, ossia, per il tempo necessario ad approvare una nuova legge elettorale ma non è accettabile che, in modo o nell’altro, la situazione si prolunghi per quattro anni oltre la sentenza per consentire la conclusione della legislatura; un tale prolungamento potrebbe trovare una qualche giustificazione in situazioni di assoluta emergenza come una guerra, una catastrofe naturale di immani proporzioni, ecc.. Nel 2012 in Grecia per altri motivi le elezioni politiche sono state ripetute a distanza di un solo mese;

5) i sistemi elettorali non possono essere studiati e adottati per evitare o prevenire il successo elettorale di una forza politica assunta senza fondamento come eversiva e anti-sistema; per essere chiari il M5S ha ottenuto la sua rappresentanza in Parlamento con lo stesso sistema elettorale con il quale sono state elette le rappresentanze di tutte le altre forze politiche; e nessuna forza politica ha contestato la regolarità dello svolgimento delle elezioni;
6) la riforma costituzionale presenta aspetti di illegittimità perché l’obiettivo di fondo di Renzi è quello della P2, del Sindaco d’Italia, di un uomo solo al comando, di Berlusconi del 2005 – che abbiamo rigettato con il referendum del 2006 – di Veltroni del 2007-2008; un obiettivo che in nome della velocizzazione del processo decisionale, svaluta il ruolo delle assemblee legislative e sposa la deriva autoritaria e tecnocratica in essere in Europa e nel mondo;
7) perché la riforma costituzionale è del tutto irrilevante ai fini della soluzione dei veri problemi degli italiani: sette milioni di persone senza lavoro tra disoccupati e c.d. scoraggiati, la stagnazione secolare, la bassa produttività, la giustizia sociale;
8) perché questa riforma non affronta i problemi dello stato di diritto in Italia anzi li aggrava. Da circa 250 anni (vedi Montesquieu) per stato di diritto nel c.d. mondo occidentale si intende la separazione dei poteri: legislativo, esecutivo, giudiziario. Questa è la suddivisione orizzontale dei poteri; poi è arrivata quella verticale adottata nella Costituzione USA; la doppia suddivisione dei poteri garantisce meglio – secondo i padri costituzionalisti americani (in particolare Madison) – i diritti e le libertà fondamentali dei cittadini, moltiplica le sedi di partecipazione dei cittadini, implementa la democrazia federale che è assetto istituzionale più avanzato di quello di uno Stato centralista. Nello stato di diritto che identifica un sistema democratico, il governo sarebbe solo il capo dell’esecutivo ma il suo ruolo si è evoluto o involuto nel tempo. Negli ultimi decenni il governo, in fatto, ha espropriato quasi del tutto il Parlamento della funzione legislativa concentrando così due poteri nelle proprie mani. Da due decenni almeno, i governi si affannano a delegittimare la magistratura (il giudiziario) e la burocrazia (l’esecutivo) di cui è a capo lo stesso governo. Si vorrebbero separare nettamente le carriere dei pubblici ministeri da quella dei giudici giudicanti mettendo i primi alle dipendenze del ministro della giustizia e, quindi, di nuovo, rafforzando il potere del governo. Il progetto non è passato ma sono stati assunti ben altri provvedimenti che condizionano l’attività dei magistrati.
Sul terreno dell’esecutivo, si è introdotto lo spoil system (sistema delle spoglie) per far nominare gli alti dirigenti al governo e così indebolendo quelli di carriera. Se applicato massicciamente la nomina dei dirigenti dello stato porta ad un ulteriore concentrazione del potere in testa al governo a detrimento degli altri due poteri. Al riguardo, va tenuto presente che i funzionari pubblici applicano le leggi giornalmente e, quindi, svolgono un’attività analoga a quella dei giudici che operano per eccezione. Anche i funzionari pubblici devono godere di un certo grado di indipendenza dal governo se devono rispettare rigorosamente il principio dell’imparzialità che l’art. 97 comma 1 Cost prescrive loro.
A questo riguardo, è singolare che sia Renzi che la Boschi, nella loro campagna di disinformazione, ripetano continuamente che la loro riforma non è contro la democrazia ma contro la burocrazia.
Ora è noto che gli uomini non sono angeli e più alta è la concentrazione del potere nelle loro amni più forte diventa la tentazione ad abusarne non solo per fini di conservazione del loro potere politico ma anche di accumulo di ricchezza ed influenza personale. In una fase storica in cui alla lotta classe si sono sostituite le categorie del politico di Carl Schimtt (amico/nemico) più forte diventa la tentazione di proteggere gli amici e indebolire o addirittura togliere di mezzo i nemici.
PQM ritengo di aver dimostrato, in fatto e in diritto, che la riforma costituzionale di Renzi indebolisce ulteriormente l’attuale democrazia che già non gode buona salute per via della deriva autoritaria e tecnocratica in corso a livello europeo e mondiale.

Vincenzo Russo

tratto dal Blog  http://enzorusso2020.blog.tiscali.it/

Fermiamoci finché siamo in tempo e proviamo a riflettere, di Alberto Benzoni

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Alberto Benzoni

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La lunghezza spropositata di questa campagna referendaria non ne sta migliorando certamente la qualità. Niente più, ammesso che ci sia mai stata, serena discussione tra esperti sul merito della proposta. E nessun chiarimento su alcuni punti dirimenti nel giudizio sulla medesima; che si tratti della legge elettorale o di un eventuale ripristino del meccanismo elettivo per quanto riguarda il Senato.
Stiamo andando, invece, irresistibilmente, verso l’Ok Corral; con la relativa eliminazione dei cattivi da parte dello Sceriffo e dei suoi aiutanti. E stiamo andando, anche, verso la delegittimazione, insieme politica e morale, dell’opposizione attraverso l’attacco personale e indiscriminato nei confronti dei suoi principali esponenti, accusati, in un amalgama del tutto abusivo, non solo di frenare l’avvento delle migliori sorti e progressive dell’Italia ma anche di farla precipitare nel caos e nell’avventura.
Tutto questo non deve indurci al vittimismo o, peggio ancora, a rispondere sullo stesso tono ( “tu attacchi D’Alema e io ti contesto Verdini”). Ma dobbiamo, questo sì,approfondire sino in fondo le ragioni del nostro no: per renderlo più radicale e al tempo meno di parte.
La “spropositata lunghezza”della campagna referendaria deve servire anche a questo. A sentire, e a comunicare agli altri il discrimine di fondo, quello su cui non è possibile alcuna mediazione, che separa i sostenitori del no da quelli del sì. E ad individuare questo discrimine nella visione che si ha dell’Italia: per quelli del sì un “sistema”in concorrenza con altri e da rendere più efficiente; per noi una comunità da rendere migliore.
Oggi, questa comunità è gravemente minacciata: non dal dispositivo del referendum ma dal disegno politico che l’ha determinato. E, ancora, non da Renzi e dal suo governo ma da quello che l’uno e l’altro rappresentano: la cultura e la visione politica della seconda repubblica.
Di referendum l’Italia ne ha visti tantissimi, alcuni dei quali divisivi e determinanti per la nostra collettività nazionale. Monarchia o Repubblica, Divorzio, Aborto. In tutti questi casi i verdetti sono stati accettati dagli sconfitti. E non comportavano né rese dei conti né ferite aperte. Questo, invece, lo si voglia o no, prelude, in caso di vittoria del sì ad una resa dei conti di entità imprecisata e incontrollabile; ed ha già, nel suo stesso svolgimento, intossicato gravemente il clima del paese.
Di referendum, le democrazie occidentali ne conoscevano, almeno sino ad oggi, due tipi: quello, necessariamente concordato tra le forze politiche, tendente a costruire ex novo o a correggere in alcuni punti, l’assetto costituzionale; quello nato da una crisi sistemica e proposto dal leader che possedeva le chiavi per la sua soluzione. In chiaro, da una parte la Costituzione del 1947 e gli emendamenti a quella americana; dall’altra De Gaulle e la sua V repubblica.
Quelli che non conoscevamo, quelli praticati nei paesi di “democrazia illiberale” sono, invece, di tutt’altro tipo: sono proposte varate dal partito o, più spesso, dal Leader al potere e tendono o a prolungare, nel tempo, il suo mandato o ( come in Italia) ad accrescerne i poteri.
Certo, Renzi non è né Putin né Erdogan. E non manderà, in caso di vittoria, giudici o agenti a chiudere “Il Fatto quotidiano”o a silenziare i suoi oppositori. Però la qualità del suo disegno è la stessa; e porta con sé, insieme, la radicalizzazione dello scontro e la totale delegittimazione dell’opposizione. Risuscitando così a suo uso e consumo, quel fattore K, ora P ( sta per populismo) e senza alcuna possibilità di dialogo e di collaborazione.
Da una parte, dunque, il governo senza alternative ( “c’è solo Renzi”nella vulgata dei sostenitori del sì); dall’altra una opposizione accusata di tutto e del suo contrario; di essere conservatrice e di essere eversiva.
E’ un clima irrespirabile. Ma è anche il clima costruito, anno dopo anno, dagli “intelligenti cretini” ( sono i più pericolosi) che hanno presieduto alla nascita della seconda repubblica, curandone i mali con sempre maggiori dosi della ricetta iniziale.
Parliamo, soprattutto, del bipolarismo come sciroppo di Dulcamara atto a rendere politica e politici più efficienti e virtuosi. Scellerata incoscienza in un paese segnato da secoli dal gusto della faida, con la relativa uccisione del vicino. Scellerata incoscienza in un paese che non aveva in sé nessuno dei necessari anticorpi- non il senso dello stato, non il rispetto delle regole, non la presenza di istituzioni e di autorità che godessero la fiducia dei cittadini, non il senso collettivo dell’appartenenza alla stessa collettività.
Scellerata incoscienza in un paese dove non c’era mai stata ( se non agli albori dello stato nazionale) una destra “liberale ed europea” e dove, sull’altro fronte, non avevamo la socialdemocrazia ma un partito che aveva “perso tutto salvo il suo Breil”; leggi il senso di superiorità morale e la spinta incoercibile a “fare politica con altri mezzi” ricorrendo alla magistratura o all’Europa per sbarazzarsi di un avversario che non era stato possibile battere sul terreno elettorale.
In questo quadro Renzi e il quesito referendario appaiono per quello che sono: il tentativo pericoloso di modificare a vantaggio di chi governa le regole del gioco; l’utilizzo senza freni dello schema bipolare; l’avallo definitivo di vent’anni segnati dalla diminuzione dei diritti; e, in conseguenza di tutto questo, l’imbarbarimento del confronto politico e del clima del paese.
Così stando le cose, a chi ci chiede cosa accadrà dopo la vittoria del no, dobbiamo rispondere ” pericolo scampato; linea del Piave difesa. E, adesso fermiamoci tutti; per ragionare, insieme, sul nostro futuro. A partire dalla riscoperta dei valori, dei protagonisti e delle istituzioni della democrazia”.

Albero Benzoni