Parlamento

Il PD … e la strategia dello struzzo. di Sergio Bagnasco

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Sergio Bagnasco - Academia.edu

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Il PD è per il SI al taglio dei parlamentari ma anche per una legge elettorale proporzionale e per le riforme costituzionali già avviate in Parlamento.

Il PD sta dicendo: “il taglio da solo produce danni, ma con la nuova legge elettorale e con altre riforme costituzionali rimedieremo a questi danni”.

Forse il PD non ha capito che il 29 marzo si vota SOLO per il taglio dei parlamentari e non per una nuova legge elettorale e per altre proposte di riforma costituzionale che sono ancora ben lontane dal traguardo.

Votando SI al taglio dei parlamentari il danno sarà certo e poi si vedrà.

Si tratta di una posizione irricevibile.

Quanto ipotizzato – ben lungi dall’essere realizzato – non risolve i problemi generati dal taglio dei parlamentari, ma semplicemente li mitiga.

L’eventuale legge elettorale proporzionale non costituisce una garanzia perché la prossima maggioranza parlamentare potrebbe approvarne una di segno contrario.

In ogni caso, il taglio di oltre il 36% dei parlamentari ha effetti distorsivi maggioritari con qualsiasi legge elettorale, tranne il caso in cui si vada al collegio unico nazionale tanto alla Camera quanto al Senato, ipotesi esclusa dalle proposte in campo.

Dal numero delle Circoscrizioni elettorali dipenderà l’effettivo tasso di proporzionalità della nuova legge.
Più aumenta il numero delle circoscrizioni più basso è il tasso di proporzionalità.

Spieghiamoci.

Adesso, abbiamo 27 circoscrizioni alla Camera più la Valle d’Aosta.
La circoscrizione Piemonte1 con il taglio eleggerebbe 15 deputati. La soglia naturale per avere un eletto sarà quindi 6,6%; con 630 deputati il Piemonte1 ha 23 deputati e la soglia naturale è il 4,3%.

Ecco l’effetto distorsivo del taglio dei parlamentari.

Non basta dire “proporzionale” se almeno non si indica il numero magico delle circoscrizioni.

In ogni caso, da 27 anni rischiamo di scivolare verso un sistema maggioritario e non è questo in sé il danno, ma il fatto che nella nostra Costituzione non ci sono garanzie e contrappesi nel caso di un sistema elettorale maggioritario o misto come quello vigente.

Si direbbe che la politica non abbia ancora compreso lo scenario reso possibile dal fatto che una minoranza si trasformi, per effetto di un meccanismo elettorale, in maggioranza parlamentare.

Significa che questa minoranza può
– eleggersi il proprio presidente della Repubblica
– controllare la Corte Costituzionale
– modificare a proprio piacimento la Costituzione.

Le riforme costituzionali messe in cantiere non risolvono i problemi reali perché si occupano solo di uniformare l’elettorato attivo per Camera e Senato, ridurre il numero dei delegati regionali per l’elezione del presidente della Repubblica, modificare il criterio regionale per la ripartizione dei seggi.

Servirebbe anche:
1) modificare il criterio di elezione del PdR, perché è assurdo che dal terzo scrutino basti la maggioranza dell’Assemblea
2) modificare il criterio di revisione della Costituzione, per introdurre almeno l’obbligo del referendum confermativo
3) modificare il criterio di elezione dei giudici della Corte Costituzionale, perché una minoranza non deve controllare 10 giudici su 15
4) introdurre garanzie per le opposizioni e le minoranze
5) costituzionalizzare il criterio elettorale, perché siamo da quasi tre decenni in una fase di instabilità elettorale.

L’ultimo punto è singolare. Tanti parlano a vanvera di allineamento all’Europa, ma ignorano che su 27 Stati membri UE,
– 16 prevedono la costituzionalizzazione del sistema elettorale con procedimento legislativo aggravato (Spagna, Portogallo, Estonia, Slovenia, Repubblica Ceca) o con procedimento ordinario (Austria, Belgio, Danimarca, Finlandia, Irlanda, Lettonia, Lussemburgo, Malta, Paesi Bassi, Polonia, Svezia);
– 3 Paesi (Romania, Ungheria, Grecia) prevedono un procedimento legislativo aggravato senza costituzionalizzazione del sistema elettorale.

Solo in 8 Paesi la legge elettorale è regolata dalla legge ordinaria senza ulteriori procedure: Italia, Francia, Germania, Cipro, Bulgaria, Lituania, Slovacchia, Croazia.
Tra questi ultimi, tutti tranne l’Italia hanno contrappesi, più o meno forti, estranei al nostro sistema.

In conclusione, il taglio di oltre il 36% dei parlamentari apre un rischio concreto per il nostro sistema fondato sul principio di rappresentanza perché si coniuga con la perenne instabilità elettorale (siamo alla sesta legge elettorale nazionale in appena 27 anni) e con l’assenza di contrappesi e garanzie, poiché tutto il nostro sistema costituzionale è stato pensato in ottica proporzionale.

Questo referendum costituzionale è il più assurdo nella nostra storia perché il tema del quesito non è la modifica dei rapporti tra Stato e Regioni o del bicameralismo perfetto o altre questioni serie, ma il taglio lineare dei parlamentari spacciato come intervento innocuo.

Dietro questa proposta non c’è un’idea di riforma dello Stato, ma soltanto disprezzo per la democrazia parlamentare, che nel disegno originario dei proponenti si voleva sostituire con un’idea puerile di democrazia diretta coniugata con il vincolo di mandato, con tanto di contratto e di penali per ottenere obbedienza.

Questo taglio, con evidenza, renderà più lento il funzionamento delle Camere. Tolti i numerosi parlamentari che compongono il governo, dalla prossima legislatura sarebbe arduo far funzionare le Commissioni da cui parte il procedimento legislativo.

Non far funzionare il Parlamento significa rafforzare l’esuberanza dell’esecutivo che da anni esautora il Parlamento. A questo punto, a cosa servirà il Parlamento? Basta una assemblea dei Capi partito, ciascuno con un potere di voto che vale in rapporto ai consensi raccolti alle elezioni, così il Parlamento diventa come una assemblea dei soci di una società.

Votare NO il 29 marzo è l’unica scelta possibile per avviare un progetto riformatore serio e meditato.

L’alternativa è fare lo struzzo!

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Sergio Bagnasco

Taglio dei parlamentari? No grazie. di Maurizio Brotini

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Il 29 marzo saremo chiamati come cittadine e cittadine ad esprimerci sul drastico taglio di deputati e senatori al referendum costituzionale confermativo, per il quale non è necessario il raggiungimento di nessun quorum di votanti. Ma la riduzione e lo svilimento delle assemblee elettive è forse quello di cui ha bisogno la nostra Democrazia?

Nell’epoca della contraddizione sempre più lacerante tra Capitalismo e Democrazia, tra finanza globalizzata e mondo del lavoro precarizzato ed atomizzato, di questo c’è bisogno? Della partecipazione democratica – e dello svolgimento di rappresentanti delle istanze popolari nel Parlamento – vista come costo contabile cosa avrebbero detto i Padri Costituenti e chi al sistema del Capo dal mento volitivo e delle aule parlamentari ridotte ad un bivacco si oppose in armi la vita rischiando?

Non è risibile l’argomentazione di ridurre i costi del funzionamento di Camera e Senato riducendo i rappresentanti del Popolo invece che, eventualmente, gli emolumenti? Magari ripristinando il finanziamento pubblico della politica per sottrarla al ricatto dei generosi prestatori privati pronti a richiamare all’ordine al momento della bisogna, quando in gioco ci sono gli interessi economici degli stessi? Quale imbarazzo nella vicenda delle concessioni autostradali e dell’ampliamento dell’aeroporto di Firenze: questo mortifica la Politica con la P maiuscola.

Tagliando da 630 a 400 il numero dei Deputati e da 350 a 200 il numero dei Senatori sulla canea montante del taglio delle poltrone si alimenterà ancor più la dittatura degli Esecutivi sui Parlamenti, la penalizzazione della rappresentanza di interi territori visto che il Senato è eletto su base regionale e l’innalzamento oggettivo di uno sbarramento implicito per accedere alla rappresentanza da parte di forze politiche che prenderanno comunque milioni di voti. Ci vorranno molti più votanti della media europea per eleggere un deputato ed un senatore, ma in questo caso l’Europa non è più un riferimento a quanto pare.

Ma quello che accadrà, che verrà ulteriormente sancito, sarà che solo ricchi e benestanti, libero professionisti ed affini calcheranno le Aule parlamentari, alla faccia del sogno del giovane Peppino Di Vittorio che le voleva ripiene di cafoni del Sud e di operai del Nord. Il dialogo tra il Segretario nazionale della Cgil Maurizio Landini e Massimo D’Alema, pubblicato dalla rivista ItalaniEuropei ed oggetto di una comune riflessione presso la sede della Cgil Nazionale, è stato costellato da considerazioni come la necessità di “sardine operaie” e dalla assoluta mancanza di operai, precari, impiegati ed similia tra chi può fare e fa politica nelle assemblee elettive.

Secondo voi, tagliare il numero dei Parlamentari risolverà il problema o lo peggiorerà? Certo, quella che abbiamo di fronte è una lunga stagione di sovversivismo delle classi dominanti che ha introdotto a partire dagli anni Novanta una continua torsione autoritaria nell’architettura costituzionale. Il primato del Governabilità rispetto alla Rappresentanza (un Governo in realtà debole di fronte alla forza delle multinazionali e della finanza globalizzata proprio perché privato di una robusta legittimazione popolare), l’esclusione di intere culture politiche attraverso l’ibridazione di sistemi maggioritari e spinte bipolari, l’accettazione del primato della Tecnica rispetto alla Politica, l’accettazione passiva del non ci sono alternative di tatcheriana memoria. Chi ne ha fatto le spese è stato il Lavoro, la sua rappresentanza politica.

Chi ne ha fatto le spese sono i lavoratori e le lavoratrici in carne ed ossa, precari, disoccupati, sottoccupati. Ma può darsi piena Democrazia se il sistema stesso seleziona ed esclude “la classe più numerosa e più povera”, usando una espressione Ottocentesca? Non di meno ma di più democrazia abbiamo bisogno: a fronte di una crisi economica e sociale paragonata a quella del ’29, alla folle riduzione del perimetro pubblico e dei sistemi di protezione sociale proprio nella crisi, una crisi la cui gestione da parte delle classi dominante ha prodotto il maggior tasso di diseguaglianze sociali e territoriali che la storia recente dell’Europa abbia mai conosciuto, base materiale per le preoccupanti avanzate di forze fasciste e neonaziste. La pulsione per l’uomo forte e solo al comando che il rapporto Istat ci consegna non va blandita, va contrastata a viso aperto e coraggiosamente. E noi che facciamo sindacato con l’immutata passione e voglia di cambiare il mondo lo sappiamo bene.

Dietro la svalorizzazione della Politica come capacità collettiva di cambiare le cose e costruire il proprio destino ci sta, come c’è sempre stato, il Primato insindacabile dell’Impresa e del Mercato, del Profitto e del Pareggio di Bilancio. L’abolizione dell’articolo 18 (e l’articolo 8 di sacconiana memoria) va di pari passo con la corrosione e lo svilimento delle istanze rappresentative. La lotta alla Casta è una parola d’ordine di destra. E il Parlamento non è una Casta. Ridare valore e prestigio al Parlamento deve andare di pari passo col ridare dignità al lavoratore ed alla lavoratrice a partire dal posto di lavoro, al precario a partire da un lavoro stabile, ad un disoccupato a partire da una occupazione. Noi della Cgil abbiamo tutte la carte in regola per dire NO al taglio dei parlamentari perché diciamo SI ai diritti dei lavoratori.

Maurizio Brotini

tratto dal sito: https://fortebraccionews.wordpress.com/

NO al taglio dei parlamentari. di Alberto Angeli

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E quindi il segretario del PD, Zingaretti, esprime contrarietà al referendum: “Non condivido quel referendum e credo sia stato un errore sottoscriverlo, anche se rispetto chi lo ha fatto, anche nel Pd. Abbiamo votato sì alla riforma non perché convinti, ma perché era nell’accordo di governo, assieme a garanzie di cui tutti ora si devono fare carico. Ma rischia di diventare un referendum sul parlamentarismo, in tempo di populismi”; questo è quanto dichiara all’assemblea Nazionale del PD di sabato 22. E a questa rivisitazione perviene dopo che per ben tre volte in aula il PD ha votato NO. Poi, alla quarta votazione e a governo giallo-rosso già formato, ha votato si. Un ravvedimento intervenuto non per guadagnare un oscar alla coerenza ( come dice Osca Wilde: la coerenza è l’ultimo rifugio delle persone prive d’immaginazione), per convinzione, poiché serviva a chiudere la trattativa con di Maio, al quale concedeva l’occupazione di poltrone di prestigio e il taglio dei parlamentari da assumere come simbolo dell’anti casta ( un puro atto populista e contro la democrazia parlamentare ).

Altra causa del discredito del Parlamento è la propaganda di tipo squisitamente fascista che certi giornali e certi partiti continuano a fare anche oggi contro le istituzioni democratiche e più in generale contro ogni forma di libera attività politica: il qualunquismo, prima di diventare un partito che mostra riprodotte in se stesso e ingrandite le pecche e i travagli che quando sorse rimproverava agli altri partiti, non ebbe da principio altro programma che quello, essenzialmente negativo, della insofferenza e della cieca ostilità alla politica, ed ebbe qualche fortuna in certi ceti proprio perché, invece di affaticare il pubblico col forzarlo a pensare a difficili problemi d’ordine generale, lo chiamava allo spassoso tirassegno (tre palle un soldo), consistente nel ricoprire di fango e di contumelie personali gli uomini politici di tutti i partiti al potere. Così nel pubblico, sempre avido di scandali e sempre pronto a credere alla altrui disonestà, si va sempre più diffondendo la convinzione che il Parlamento sia una scelta di ciarlatani ed affaristi, che, colla scusa del bene del popolo, non hanno altro scopo che quello di arricchirsi alle sue spalle”. Queste sono le parole di PIERO CALAMANDREI,, tratto da un breve saggio titolato: “ Patologia della corruzione parlamentare”, edito da Storia e Letteratura, riportate allo scopo di comprendere il grigiore, la nullità del pensiero dei nostri rappresentanti, rispetto alla grandezza e lucidità intellettuale di uno dei più noti e studiato tra i fondatori della nostra democrazia Parlamentare.

Certamente tra i 5Stelle e la democrazia c’è una rivalità insanabile. Già nel giugno 2013 Grillo si scaglia contro la Presidente Boldrini dichiarando che il Parlamento non serve a nulla: «La scatola di tonno è vuota»; «potrebbe chiudere domani»; «é un simulacro»; «la tomba maleodorante della Seconda Repubblica». Mentre nel giugno 2018, a Roma, grida: “«Parlamentari estratti a sorte “, oppure : “Dobbiamo capire che la democrazia è superata”. Ecco con chi governa il PD! Al netto di Renzi e del Conte II, al PD sembra non rimanere che inseguire i 5stelle sul terreno del populismo. Queste cose Zingaretti le conosce sicuramente, ma per convenienza le ignora. Una convenienza perigliosa, che mette in pericolo la democrazia e la rappresentanza parlamentare, poiché con il taglio dei parlamentari si determina un vulnus al cittadino/elettore, al quale viene sottratto il diritto di scegliere il rappresentante da votare. Infatti, con la ridisegnazione dei collegi più grandi degli attuali si determina un distacco tra elettore e candidato. Inoltre, si tratta di una riforma oligarchica poiché consegna la cosa pubblica nelle mani di pochi eletti e delle segreterie dei partiti. Anche l’elezione del Capo dello Stato potrebbe subire alterazioni costituzionali, palesandosi infatti la possibilità che sia una maggioranza di una parte politica a dominare nella sua elezione; un pericolo possibile potrebbe generarsi inoltre dal voto dei parlamentari nella Circoscrizione estero, tale da risultare decisivo nella tenuta deli governi. Queste sono solo alcune delle indicazioni da richiamare a sostegno del NO al taglio dei Parlamentari, che sono comunque l’essenza di una fondata linea alternativa alla politica di aggressione alla democrazia e al modello rappresentativo che i nostri Padri costituzionali hanno deliberato e lasciato a noi come eredità da difendere ad ogni costo.

Zingaretti si propone di cambiare il PD, anche nel nome, e di aprire il nuovo soggetto alla società, ai movimenti, ma non riesce ancora a liberarsi della sua anima integralista, la quale esercita una prevalente capacità di orientamento e spinge il partito in una direzione che lo allontana dal mondo del lavoro, ne annichilisce la reazione di fronte alla prepotenza dei 5stelle sui temi della sicurezza, della prescrizione, sull’accoglienza e integrazione, sulla riforma del mercato del lavoro e la lotta contro le diseguaglianze; la riforma della scuola, dell’università, investimenti a favore della ricerca, magari rivedendo l’assegno di cittadinanza universalizzando il Welfare, rivedere il sistema pensionistico anche alla luce del fenomeno demografico, introducendo un massimo di pensione e un minimo, applicare alla contrattazione il principio dell’erga homnes. Che, per il cambiamento auspicato, sono i punti possibili di un programma sul quale misurare e calibrare la proposta di un progetto per un nuovo modello di sviluppo.

C’è una contraddizione logica nella linea di Zingaretti, quando afferma di volersi impegnare per la trasformazione del PD aprendo alla società, a cui però fa seguire la sua contrarietà al referendum contro il taglio dei parlamentari ( ma non è il popolo il depositario della democrazia?), che non potrà risolvere permanendo irretito in una visione politica che non disegna, per il paese, una prospettiva di cambiamento rivoluzionario rispetto alla realtà in cui si trova ad operare. Allora, se proprio volesse dare prova di una volontà gramsciana mettendo in atto una prassi dialettica promuova e organizzi un rasselmblement aperto alla partecipazione delle forse riformiste, di sinistra, ai movimenti e al mondo del volontariato con all’ordine del giorno alcuni punti programmatici identificabili con un progetto di trasformazione del modello economico, sociale e culturale del paese. Non inventi un nome, non si affanni alla ricerca di nuovi ideali, poiché il socialismo è la risposta e l’unica vera alternativa sulla quale fondare la ragione di un impegno politico e di lotta da offrire ai lavoratori, ai pensionati, al mondo della creazione, della cultura e della ricerca. Insomma a quella parte migliore del nostro popolo che non intende arrendersi alla destra nazionalista e populista, e che sicuramente saprà riflettere anche in questo momento in cui è chiamata a decidere il suo futuro, votando NO al taglio dei parlamentari.

Alberto Angeli

Diciamo NO al taglio dei parlamentari. di Gianfranco Pasquino

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Il mantenimento del Parlamento, nel suo pieno assetto, è una questione democratica che nulla ha a che vedere con l’esercizio dei suoi poteri, necessariamente improntati alla sobrietà della spesa pubblica.

I risparmi sulla spesa pubblica non si ottengono mutilando la democrazia, ma se del caso, assumendo provvedimenti legislativi atti a definirne il migliore e più efficace funzionamento.

Oramai da troppo tempo l’Istituto Parlamentare è sotto attacco e su più fronti: né è stata depotenziata l’espressione piena della rappresentanza attraverso leggi elettorali sovente viziate da incostituzionalità, prostrando ed indebolendo il principio della sovranità popolare, ovvero uno dei principi cardine su cui si fonda la nostra Repubblica, nata dalla Resistenza, secondo cui il potere non è solo tripartito nella sua gestione funzionale, ma nella titolarità, assegnato a tutte le cittadine ed ai cittadini italiane/i.

L’esercizio della sovranità popolare nelle forme e nei limiti previsti dalla Costituzione, ha subito inoltre una riduzione per l’effetto di riforme che hanno eliminato l’elettività diretta di enti, come le Province, che contribuivano significativamente ad allargare la democrazia decentrandola, rendendola accessibile a più livelli sui territori e configurando in questa maniera veri e propri presidi di pluralismo politico, di partecipazione e dunque di diffuso protagonismo civile.

Dopo una stagione di dilatazione democratica, di estensione del principio di sussidiarietà, del perseguimento degli equilibri improntati alla parità formale tra Stato, Regioni ed Autonomie Locali assistiamo, particolarmente nell’ultimo decennio, ad un accanimento senza precedenti nei confronti di ogni forma piccola e grande di parlamentarismo.

Accanimento portato avanti da forze politiche che fingono di confondere le cause con gli effetti di una democrazia che da troppo tempo mal funziona ed al cui cuore pulsante, il Parlamento appunto, l’autoritarismo populista mira, cercando di aggirare l’efficacia del dettato costituzionale con la promessa di forme di democrazia diretta che la storia ha dimostrato essere tratto prevalente dei sistemi politici deboli.

La democrazia diretta che riduce quella rappresentativa sottende di fatto una volontà popolare pericolosamente unica, che non contempla visioni politiche diverse, che si avvale di capipopolo in sostituzione dei contrappesi costituzionali, che esclude la pluralità delle comunità e l’articolazione dei loro bisogni, assecondando forme di consenso plebiscitario tanto più preoccupanti se attraversate dalla dimensione digitale, del tutto inadeguata alla partecipazione e alla formazione di decisioni complesse quali quelle comportate dal procedimento legislativo.

Nel merito della questione: la riforma di cui si parla, ridurrebbe il Parlamento a 600 seggi (400 alla Camera e 200 al Senato) comportando – secondo l’Osservatorio Cottarelli – un risparmio sulla spesa pubblica appena dello 0,007% assegnando al nostro Paese una collocazione tra i paesi con meno parlamentari per abitante.

Odiernamente il rapporto è 1 a 100 mila e colloca l’Italia al ventitreesimo posto in Europa (vale a dire che ben ventidue paesi nell’Unione Europea hanno più parlamentari per abitante dell’Italia).

Ove passasse la riforma l’Italia diverrebbe il paese della UE con il minor numero di parlamentari in rapporto alla popolazione.

Non si scorgono dunque i vantaggi di un provvedimento il cui impatto sui risparmi della Cosa Pubblica è essenzialmente ininfluente, che produrrebbe un ulteriore allontanamento tra rappresentati e rappresentanti penalizzando peculiarmente i territori a bassa densità demografica, per non parlare delle probabili ricadute sulla rappresentanza di genere che risulterebbe inevitabilmente compromessa in relazione alla diminuzione dei seggi disponibili.

Quanto sopra è tanto più vero in presenza di una legge elettorale riferibile ad un sistema misto costituito da quote di proporzionale e quote di maggioritario ed in previsione di una sua riforma le cui caratteristiche sono ancora sconosciute.

Per queste ragioni, le persone che sottoscrivono questo documento voteranno NO alla riforma sul taglio dei parlamentari, vedendo da questa pregiudicati il principio della sovranità popolare e il loro diritto all’ elettorato attivo e passivo ed individuando in questo provvedimento un pericoloso regresso della civiltà giuridico-costituzionale del paese.

Chi sottoscrive questo documento non disconosce l’impegno al perseguimento di un sistema istituzionale che non gravi sulla spesa pubblica immoderatamente, tuttavia ritiene che tale sistema possa essere ottenuto altrimenti.

La Repubblica Italiana deve infine riconoscere al Parlamento la piena centralità nell’architettura istituzionale come tributo principale a quanti e quante contrastarono e sconfissero la dittatura affinché sia scongiurato e per sempre il pericolo costituito da ogni deriva autoritaria.

Per queste ragioni le sottoscrittrici ed i sottoscrittori di questo documento ribadiscono il NO al taglio dei parlamentari con la forza che la civiltà giuridica consegnata dalle madri e dai padri costituenti ha lasciato loro in eredità.

Bologna,11 febbraio 2020

Gianfranco Pasquino (Professore emerito di Scienza politica, Università di Bologna), Thomas Casadei (Professore associato Filosofia del Diritto, Università di Modena e Reggio), Tommaso Greco, (Ordinario di Filosofia del diritto, Università di Pisa),Marco Mazzoli (Professore associato Politica economica, Università di Genova), Elio Tavilla (Professore ordinario di Storia del diritto Università di Modena e Reggio Emilia), Laura Veronesi (promotrice dell’appello), Paola Ziccone (promotrice dell’appello), Mario Bovina (promotore dell’appello)

tratto dal sito: http://www.coordinamentodemocraziacostituzionale.it/

Referendum sul Tagliapoltrone: l’antipolitica viene da lontano. di Riccardo Achilli

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Nel referendum sulla riduzione dei parlamentari quasi sicuramente vincerà un sì, non motivato da argomenti razionali, ma da una sordida rabbia per la Kasta ed un irrefrenabile individualismo, nel quale i presunti ed illusori risparmi economici da riduzione dei parlamentari assumono una veste simbolica di riduzione dello spazio pubblico a vantaggio di quello privato, di contrazione dello spazio collettivo, legata alla spesa pubblica ed agli organi di rappresentanza, a vantaggio di quello individuale, che rivendica spazi di libertà fiscale. 

Si tratta, insieme alla piratesca e perenne riproposizione di forme di premierato, dell’ultimo frutto avvelenato di una stagione antipolitica, nella quale sguazzano a loro agio  gli interpreti della pancia rancorosa ed individualista del Paese: Renzi, Salvini, i pentastellati.

Sarebbe tuttavia un errore grave, in prospettiva storica, associare a questo periodo particolarmente tormentato della nostra storia il vento dell’antipolitica. L’antipolitica è una costante storica del nostro popolo. La troviamo negli sciagurati che tifavano per la magistratura eterodiretta nel periodo di Tangentopoli, in certe tonalità bonapartiste e liquidatrici del tardo craxismo, nella formulazione compiutamente antipolitica, anti istituzionale e individualista del Fronte dell’Uomo Qualunque di Giannini nel secondo dopoguerra, nei bivacchi di manipoli e nell’antiparlamentarismo viscerale del fascismo, nell’anarchismo eversivo tardo ottocentesco ed in alcuni tratti del garibaldinismo e potremmo risalire ancora, fino a Masaniello.

Tale costante culturale e psicologica che si agita nell’ombra del popolo italiano tende ad emergere nelle fasi di crisi o di transizione, dove lo Stato ed i suoi apparati vengono vissuti come una odiosa elite che sottopone il popolo ad odiose restrizioni, tasse esagerate o grandi iniquità. Tende invece a sparire sottotraccia nelle fasi di stabilità politica e sociale, come ad esempio il lungo periodo giolittiano o i Trenta gloriosi sostituito, però, almeno in larghi strati della popolazione, da una forma di passività, di inerzia e disinteresse rispetto alla politica, che evidenzia come essa se ne senta comunque lontana, anche nelle fasi più favorevoli.

I motivi di questo peculiare antistatalismo ed antipoliticismo degli italiani sono complessi, a mio modo di vedere derivano dallo sgretolamento dell’unità politico amministrativa dell’Impero romano, a partire dalla quale non si ebbe più uno Stato unitario nazionale, dalla lunga dominazione di popoli e Stati stranieri, che crearono entità statuali non sentite come proprie dai sudditi, dalla influenza nefasta del lunghissimo confronto tra Chiesa secolarizzata e Impero, che insegnarono agli italiani una visione opportunistica, trasformista e violenta dello Stato, all’azione colonizzatrice della monarchia sabauda, che unifico’ il Paese sottomettendolo militarmente e reprimendone brutalmente ogni istanza autonomistica, creando una lunga onda di risentimento ed estraneità dagli apparati statali, specie nel Sud Italia.

Ma, al netto delle ragioni di tale atteggiamento, esso esiste, si manifesta in modo esplicito e distruttivo nelle fasi di crisi, quasi come fosse una specie di rimedio catartico all’angoscia sociale tipica di tali fasi. E si presenta anche oggi, che siamo in una fase di crisi e transizione.

Essendo parti integranti del nostro modo di essere, l’antipolitica e l’antikasta non si possono battere, si possono però tenere sotto controllo. Perché se non controllata, tale tendenza produce o fasi reazionarie (vedi fascismo)  o spinge chi vi si oppone a costruire, per autodifesa e per spegnere il dissenso distribuendo qualche briciola, a forme di politica trasformistiche e consociativo/corruttive (vedi Giolitti e Dc nelle fasi in cui hanno dominato).

Questa tendenza si tiene sotto controllo educando le masse, come si sarebbe detto in tempo, ovvero inserendole dentro sistemi politico culturali che esaltano la dimensione collettiva e solidale non in antitesi, ma in parallelo a quella individuale, come fossero due dimensioni coeve e mutuamente alimentantisi, come fecero il socialismo, il comunismo, il repubblicanesimo e il cattolicesimo sociale.

E si controlla portando il Paese fuori dalla crisi: a pancia anche solo per metà piena, ma con un futuro garantito, l’italiano medio tende a delegare la gestione politica, a tollerarla, quindi a non rivendicare lo smantellamento degli organi istituzionali e dei corpi intermedi.

Riccardo Achilli

tratto dal Blog personale dell’autore  https://achilli.blogspot.com

Un NO fermo e convinto al taglio dei parlamentari. di Alfonso Gianni

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Poiché si tratta di referendum su norme costituzionali non è necessario il raggiungimento di alcun quorum. In altre parole l’esito dipenderà dal rapporto fra i No e Sì, qualunque sarà ilnumero dei votanti. I sostenitori del Sì ritengono l’esito scontato perché i parlamentari non sono popolari, dopo anni di campagna qualunquista e populista. Certo: la battaglia è difficile. Ma il No intende intraprenderla con decisione, anche perchè non è detto che gli elettori del Pd e di Leu siano d’accordo con il voto dato nell’ultima votazione dai loro rappresentanti, dopo che per tre volte avevano votato contro. Non è la prima volta che i cittadini votano su quesiti referendari che concernono anche la riduzione dei parlamentari e sono stati sempre respinti. Mi riferisco alle revisioni costituzionali proposte dal centrodestra che prevedevano, tra le altre cose, una Camera di 518 deputati (elettivi) e un Senato di 252 membri: il referendum popolare del 2006, superando persino il quorum dei votanti che non è necessario, bocciò la legge di revisione costituzionale. La stessa cosa successe nel 2016 alla legge Renzi-Boschi, che, lasciando inalterato il numero dei deputati, riduceva il Senato a 95 membri elettivi di secondo grado (eletti dai Consigli regionali o provinciali autonomi).

Il taglio dei parlamentari lede il principio della rappresentanza politica. Infatti meno sono gli eletti e più distante è il loro rapporto con gli elettori e il territorio. E’ possibile fare una comparazione fra i paesi Ue, relativamente alla camera bassa, mentre per quella alta, il Senato, è cosa è impossibile data la diversità tra i vari paesi sul metodo di elezione e le funzioni dell’organo. Ora l’Italia risulta avere un numero di deputati per 100mila abitanti pari a 1 (96.006 abitanti per deputato) di un decimale superiore a Germania (0,9), Francia (0,9), Paesi Bassi (0,9) e di due rispetto alla Spagna (0,8). Tutti gli altri paesi, la maggioranza, sono al di sopra. Se entrasse in vigore la legge su cui è indetto il referendum, la percentuale italiana scenderebbe allo 0,7, inferiore a tutti gli altri paesi della Ue.

Abbiamo certamente bisogno di un Parlamento efficiente. Come è noto nel processo legislativo è cruciale il ruolo delle commissioni permanenti (14 alla Camera e 12 al Senato). Cui poi si aggiungono le varie Giunte, le commissioni speciali o straordinarie, le bicamerali. Le commissioni possono agire in sede referente (discutono un testo, nominano un relatore e lo affidano alla discussione e alla votazione finale all’aula plenaria), oppure in sede redigente ( la commissione vota sugli emendamenti e consegna all’aula un testo finale su cui essa vota articolo per articolo e sul testo complessivo), o in sede legislativa (dove la commissione si sostituisce in toto all’aula e vara la legge). Riducendo il numero dei parlamentari si lascia il processo legislativo in mano a pochi di pochissimi partiti. A un’oligarchia.Qualcuno dirà: riformeremo i regolamenti diminuendo il numero delle commissioni. Ma in questo modo si accorperebbero le materie ledendo il principio della specializzazione di competenze su cui le commissioni sono state previste e organizzate. In altre parole una simile riduzione dei parlamentari impedirebbe al Parlamento di funzionare correttamente.

Anche ora il Parlamento ha problemi di funzionamento. Ma non perché i suoi membri sono troppi. Questo deriva da un lato dalla pletora di decreti legge che il governo emana, dall’altro dalle leggi elettorali incostituzionali che si sono susseguite in questi anni, che hanno introdotto pesanti distorsioni maggioritarie e hanno impedito ai cittadini di scegliere i propri rappresentanti,giungendo così a un Parlamento di “nominati”. Il significato del No il 29 marzo è anche quello di chiedere una legge proporzionale pura con libera scelta da parte dei cittadini degli eletti. L’attuale proposta di legge in discussione alla Camera, il cosiddetto Germanicum, non garantisce nessuna di queste condizioni. La solidità dei governi – la famosa governabilità – non deriva dalla restrizione di democrazia, dalla riduzione del Parlamento a un esecutore dei voleri del consiglio dei ministri, ma al contrario da una corretta rappresentanza politica dei cittadini, che rende il Parlamento autorevole. Il risparmio che si otterrebbe con il taglio dei parlamentari equivale allo 0,007% del bilancio statale. Circa 1, 35 euro per singolo cittadino: un caffè all’anno. Se si volesse veramente risparmiare basterebbe, ad esempio, bloccare l’acquisto degli aerei di guerra F35.

Il NO ancora una volta è chiamato a difendere la Costituzione e la democrazia.

Alfonso Gianni

tratto dal sito:  http://www.coordinamentodemocraziacostituzionale.it/

Referendum: Libertà e giustizia, no a riduzione numero dei parlamentari.

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Da sempre Libertà e Giustizia si è impegnata a difendere la Costituzione nella consapevolezza che essa è un corpo vivente, i cui mutamenti devono mirare a renderla meglio preparata a rispondere alle sfide della società che cambia ma senza stravolgerne l’identità. Difendere la Costituzione non significa necessariamente dire no alle proposte di riforma.

L’attuale proposta di diminuire il numero dei parlamentari non rappresenta in sé una violazione dei principi democratici e rappresentativi. Lo prova anche il fatto che, nel corso della storia repubblicana, sono state numerose e autorevoli le proposte di riforma che andavano in tale direzione.

Sarebbe però sbagliato non contestualizzare la proposta attuale, votata in Parlamento e oggetto di referendum il 29 marzo prossimo. Proponiamo soprattutto tre considerazioni che ci sembrano fondamentali per chiarire la nostra posizione in merito a questo referendum.

La prima considerazione è che un’alterazione della “quantità” dei seggi parlamentari dovrebbe mirare a un rafforzamento della “qualità” della rappresentanza, attraverso un insieme di norme – a partire dai regolamenti parlamentari alla legge elettorale – che mettano in sicurezza e anzi migliorino il principio rappresentativo nella ragionevole esigenza di assicurare un buon funzionamento dell’istituto parlamentare.

Al contrario, questa riforma indebolisce il potere dei rappresentanti delle due camere e la stessa efficacia della rappresentanza perché non accompagnata da una riforma della legge elettorale in senso proporzionale e da adeguate forme di composizione delle liste di candidati. Tale modifica del sistema di voto viene invece evocata più come tattica per fare accettare questa riforma che come un reale convincimento del fatto che un Parlamento così eletto possa garantire un rapporto coerente tra il suo potere legislativo e il potere dei cittadini.

La seconda considerazione muove dal fatto che i tentativi di modificare gli assetti costituzionali cercando di ridimensionare il più possibile l’organismo rappresentativo in nome di una supposta priorità del principio della governabilità è stato alla base (del fallimento) della Seconda Repubblica. Promuovere una riforma che muova ancora dall’ideologia della governabilità e dalla presunzione che una maggiore governabilità si possa ottenere attraverso l’indebolimento del potere legislativo è inattuale, oltre che il segno di una mancata lucidità nell’interpretazione dei processi strutturali di trasformazione che sono in atto nelle nostre democrazie e dei rischi che essi comportano.

Ovviamente, non riteniamo che questo referendum abbia un valore determinante, ma certamente crediamo che esso sia in piena continuità con questa delegittimazione sostanziale del valore del principio rappresentativo.

La terza considerazione invita a prendere seriamente il malessere profondo che ha accompagnato la scelta di una tale riforma. Ovviamente non stiamo parlando del grottesco movente contabile per cui la diminuzione del numero di rappresentanti rappresenterebbe un risparmio per le casse dello Stato, argomento rozzo e smentito dai numeri da non richiedere troppi commenti. Più profondamente, il vero movente della popolarità di questa riforma è una sensazione diffusa di ostilità nei confronti delle istituzioni rappresentative, quelle cioè più direttamente gestite dai partiti e che si traducono in “poltrone” alle quali i candidati ambiscono per acquisire privilegi, piuttosto che per rispondere alle esigenze espresse dagli elettori. Vi è in questa riforma il riverbero di una insofferenza da parte dei politici nei confronti della richiesta dei cittadini di chiedere loro conto dell’operato e di pretendere che le loro preferenze e i loro problemi siano ascoltati e rappresentati. Mentre si lamenta la distanza dei “territori” dai luoghi di decisione, si approda a una riforma che decurta con il numero dei parlamentari anche il potere dei cittadini che in quei territori vivono.

È un criterio fondamentale della democrazia rappresentativa che le norme e i comportamenti politici debbano tendere ad avvicinare “governanti” e “governati”. La crisi della rappresentanza che stiamo vivendo sembra aver accentuato la loro distanza. Ma credere che per diminuire la distanza e ripristinare il senso profondo della rappresentanza si debba ricorrere a un taglio tanto radicale del numero dei parlamentari ha il sapore dell’assurdo.

Se il Parlamento non funziona, è necessario immaginare riforme che permettano che torni ad assolvere degnamente alla sua funzione di mediazione senza “tagliare” le condizioni della nostra rappresentanza. Con questa riforma, l’Italia diventa il Paese dell’Ue con il minor numero di deputati in rapporto alla popolazione: con 0,7 “onorevoli” ogni 100mila abitanti (rispetto all’uno precedente), supera la Spagna che deteneva il primato con 0,8. Al primo posto, sotto questo profilo, c’è Malta: 14,4 deputati ogni 100mila abitanti.

Siamo consapevoli che questa campagna referendaria rappresenti quasi certamente una battaglia persa. Ma le battaglie perse non sono meno giuste perché perse; né, del resto, chi vince una competizione referendaria ha per questo ragione. Il nostro compito è di opporci alla semplificazione comunicativa, richiamando i cittadini alla necessità di decidere dopo aver ponderato i pro e i contro.

Per questi motivi, invitiamo i Circoli a portare sui rispettivi territori dei contributi critici e informati, che consentano ai cittadini di compiere la loro scelta con cognizione di causa. Li invitiamo anche, nel rispetto dell’autonomia di giudizio degli iscritti, ad aderire ai Comitati per il No.

tratto dal sito: http://www.libertaegiustizia.it/

Diminuire i parlamentari non aiuta la democrazia. di Alessandra Algostino

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Il 29 marzo prossimo saremo chiamati a pronunciarci sulla legge costituzionale pubblicata in Gazzetta ufficiale del 12 ottobre 2019, recante “Modifiche agli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero dei parlamentari”, in forza della quale il numero dei deputati dovrebbe passare da 630 a 400 (i 12 eletti nella circoscrizione estero scenderebbero a 8) e quello dei senatori da 315 a 200 (i 6 eletti nella circoscrizione estero diverrebbero 4). L’esito appare scontato e ciò induce a ragionare più che di referendum confermativo di referendum plebiscitario. Risulta, infatti, stravolta la ratio originaria del referendum costituzionale eventuale che, nell’orizzonte di tutela delle minoranze e del pluralismo presente nella società, è uno strumento oppositivo e non confermativo. Tale inversione di senso assume un significato vieppiù pericoloso in quanto si inscrive in un processo di progressiva atrofizzazione della società, di distruzione dei partiti politici quali strumenti di raccordo fra società e istituzioni, di anestetizzazione e repressione del dissenso, di distrazione e occultamento del conflitto sociale (in primis, attraverso la creazione di fittizi nemici, come, per tutti, i migranti). Così l’humus plebiscitario mistifica e favorisce la crescita di un regime oligarchico che alimenta le diseguaglianze, nazionali e globali, allontanandosi sempre più da un orizzonte costituzionale che ragiona di “partecipazione effettiva”, legando democrazia politica e democrazia sociale in un progetto di emancipazione individuale e collettiva (art. 3, comma 2, Cost.).

In questo contesto la riduzione del numero dei parlamentari si riverbera sul rapporto fra cittadini e parlamentari, incidendo sulla rappresentanza, abbassando il grado di potenziale identificazione del rappresentato con il rappresentante e comprimendo l’angolo visuale della lente che specchia la realtà e la complessità della società. Mentre, non da oggi, si ragiona di crisi della rappresentanza, si procede così in una direzione che, lungi dal creare le basi per una inversione di rotta, approfondisce il solco che separa società e istituzioni (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2019/10/03/rappresentanza-e-sovranita-popolare-alla-prova-della-riduzione-dei-parlamentari/). La riduzione del numero dei parlamentari è un tassello del processo in atto che vede il Parlamento sempre più depotenziato e la rappresentanza svuotata, mentre si afferma una progressiva presidenzializzazione. A fronte di questo processo c’è chi parla di deriva postdemocratica (Crouch) e di forma di Stato «liberal-populista» (Dogliani), o ancora, per citare alcune espressioni dall’allusione immediata, di «autocrazia elettiva» (Bovero), di democrazia plebiscitaria (Revelli) o dispotica (Ciliberto), di democrazia senza democrazia (Salvadori), per accedere, infine, alla definizione “democrazia eterodiretta”, che ne sottolinea il carattere embedded a servizio della global economic governance delle istituzioni statali.

Non è, dunque, la riduzione del numero dei parlamentari a infettare rapporti istituzionali rispettosi del principio di separazione ed equilibrio fra i poteri, così come la formazione di una rappresentanza che garantisca il pluralismo sociale, ma la riforma in discussione indubbiamente aggrava le condizioni del malato. Nella prospettiva di una democrazia rappresentativa, la rappresentanza è l’elemento che traduce, se pur con una finzione, il principio di sovranità popolare, o, meglio, ne costituisce una delle principali estrinsecazioni. La sovranità popolare non vive solo nelle forme della rappresentanza, richiedendo in modo imprescindibile una partecipazione attiva dei cittadini attraverso l’esercizio dei diritti e la mobilitazione dal basso, ma, indubbiamente, la rappresentanza ne costituisce una declinazione significativa. Attraverso il suffragio elettorale universale, l’elezione dei rappresentanti e il ruolo dei partiti politici, infatti, si dà voce a tutti i cittadini e forma e organizzazione alle diverse rivendicazioni e visioni del mondo, consentendo in Parlamento il loro scontro e la loro mediazione (nel senso alto che questo termine può evocare).

Una visione irenica? Certamente in parte sì, perché lo stato di salute della democrazia rivela non tanto la presenza di un vivace confronto tra visioni del mondo che riflettono il pluralismo (e il conflitto) sociale, quanto, molto spesso, un governo delle élites. Ma se la cattiva prova o l’imperfezione della democrazia è motivo per una sua lettura realistica e demistificatrice, non lo è per un atteggiamento remissivo di fronte allo status quo: la rappresentanza può essere non il mezzo attraverso il quale si legittima il governo delle élites ma lo strumento per consentire l’espressione della società e dei conflitti che la agitano, esercitando un ruolo contro-egemonico. Ora, ammesso e non concesso che la riduzione dei componenti determini – come affermano i suoi sostenitori – una maggior efficienza e compattezza dell’organo, quale Parlamento verrebbe con essa rafforzato?

Affiora qui la concezione secondo cui forza e autorevolezza discendono in primis dall’efficienza e dalla “governabilità”, assunta come un valore a prescindere dal suo rapporto con la rappresentanza, e anche quando comporta un sacrificio in termini di rappresentanza. Non è così. La governabilità può essere un valore, ma in sé non è necessariamente democratica; anzi, nella misura in cui segna il distacco rispetto alla rappresentanza, ovvero sacrifica pluralismo (reale o potenziale), costituisce, rispetto all’ideale democratico, una regressione. Quando si ragiona di efficienza, sorge ineludibile un interrogativo: efficienza in nome di che cosa? e a favore di chi? Si palesa qui la connessione fra governabilità ed esigenze del mercato e appare evidente che il fine dell’efficienza perseguita non è costruire un Parlamento forte perché sede di discussione politica e di compromesso fra differenti visioni del mondo, ma in quanto organo preposto a ratificare decisioni assunte altrove, nella nebulosa della global economic governance, e – ça va sans dire – ancillare rispetto al Governo. Emerge chiaro il parallelismo, per non ragionare di mera traduzione, con le tendenze egemoniche delle élites del finanzcapitalismo (Gallino): nella società, così come nelle relazioni industriali, la negazione del conflitto segna la vittoria di una classe. In sintesi, se evocare la rappresentanza come specchio della realtà sociale disegna un’immagine della democrazia idilliaca e lontana dalla realizzazione storica (posto che la rappresentanza degrada facilmente in rappresentazione e il medium rappresentativo si risolve in una finzione) resta che, nella incompiutezza e imperfezione della democrazia, la scelta di ridurre il numero dei parlamentari segna comunque una regressione.

Con l’opzione “Camere mini” e la restrizione degli spazi della rappresentanza, si espellono di fatto le minoranze e si scardinano presupposti ineliminabili della democrazia: il pluralismo e il conflitto. La diseguaglianza sociale ed economica tracima nella sfera politica, segnando la distanza rispetto al sogno – scritto nelle costituzioni novecentesche perché divenisse realtà – di un’emancipazione, insieme, sociale, politica ed economica. La riforma costituzionale oggetto di referendum è, certo, solo un piccolo passo, ma occorre essere consapevoli della direzione nella quale essa si inserisce: un regime che marginalizza e criminalizza il disagio sociale, reprime il dissenso, mira a costruire un consenso plebiscitario, abbandona il lavoratore alla mercé di un capitalismo sempre più aggressivo, esternalizza (con la politica criminale) le frontiere, veicolando diseguaglianza e sudditanza.

Il referendum, come si è detto, si annuncia plebiscitario e da fine marzo le Camere (quasi sicuramente) saranno ridotte, ma non per questo è meno rilevante dire di “no” (https://volerelaluna.it/politica/2020/01/24/riduzione-dei-parlamentari-perche-no/). Ciò significa, ancora una volta, stare “dalla parte del torto” (Montanari), muovere dalla “tradizione degli oppressi” – che «ci insegna che lo “stato di emergenza” in cui viviamo è la regola» (Benjamin) – per ribaltarla, pensare, per restare all’orizzonte costituzionale, non tanto a modificare la Costituzione, quanto ad attuarla, a partire dal suo cuore, l’art. 3, comma 2, l’emancipazione e la giustizia sociale.

Alessandra Algostino (docente di Diritto costituzionale all’Università di Torino)

tratto dal sito: https://volerelaluna.it

La forza dirompente del Referendum. di Franco Astengo

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Parlamento

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La forza dirompente del referendum”: sotto questo titolo il Corriere della Sera pubblica un intervento dell’ex-ministro Giulio Tremonti sul tema del referendum confermativo al riguardo della legge costituzionale che riduce il numero dei parlamentari da 945 a 600.

Nel suo articolo Tremonti sostiene, tra l’altro, che la portata politica di questo referendum è enormemente più forte di quello che, con il suo esito, decretò nel 1993 il passaggio dalla formula elettorale proporzionale a quella maggioritaria.

Formula maggioritaria poi temperata dal mantenimento di una quota del 25% riservata al proporzionale (con tanto di “scorporo” e di “liste civetta”) come stabilito dalla legge di cui fu relatore l’attuale presidente della Repubblica Sergio Mattarella (Giovanni Sartori in quell’occasione coniò la definizione “Mattarellum”).

Subito dopo il varo della nuova legge l’allora presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi sciolse i due rami del Parlamento (la Camera era presieduta da Giorgio Napolitano, il Senato da Giovanni Spadolini) motivando a questo modo “ “Lo scioglimento trova la sua principale motivazione, non già in una disfunzione creatasi nel rapporto tra Parlamento – governo, bensì nel radicale cambiamento delle regole elettorali imposta dal referendum popolare del 18 aprile 1993, nonché nei profondi mutamenti emersi nel corpo elettorale e nelle stesse realtà politiche organizzate”.

Tremonti dunque sostiene che il referendum che dovrebbe svolgersi il prossimo 29 marzo risulti molto più incisivo sulla realtà istituzionale del Paese che non quello promosso dai Comitati Segni ventisette anni or sono: la ragione di questa superiore capacità d’incidenza risiederebbe non solo nella mutata composizione numerica ma anche nella funzione di rappresentanza territoriale che dovrebbe essere svolta dai due rami del Parlamento e nella meccanica della sua efficienza decisionale.

Ancora: una volta entrati in vigore Camera e Senato a ranghi ridotti rispetto all’attuale composizione si stabilirebbero anche rapporti diversi tra maggioranza e opposizione e di riflesso tra le forze politiche come queste sarebbero rappresentate in un Senato ridotto a 200 membri.

Sono tutti elementi da considerare e da riflettere per quanti si sono già schierati per il “NO” a questo ennesimo tentativo di deformazione costituzionale.

C’è da aggiungere che non solo il referendum previsto per il 29 marzo è assolutamente più dirompente di quello del 1993 ma che, sul piano della valenza costituzionale, equivale perlomeno a quello del 4 dicembre 2016, allorquando la proposta di revisione della nostra Carta Fondamentale portata avanti dal PD a segreteria Renzi fu respinta a grande maggioranza dal voto popolare.

Oggi siamo di fronte a una situazione che deriva dall’aver sparso a piene mani il veleno dell’antipolitica e il referendum stesso sulla riduzione del numero dei parlamentari (riduzione posta come pregiudiziale dal M5S al PD soltanto per aprire la trattativa sulla formazione del nuovo governo) assume un evidente ulteriore effetto di delegittimazione complessiva di un Parlamento ormai ridotto ad una sostanziale autoreferenzialità.

E’ il caso di ricordare come la caduta di credibilità del Parlamento abbia una delle sue principali cause nel reiterarsi ormai da tre legislature di elezioni legislative svoltesi su liste bloccate.

Scrive ancora Tremonti e vale la pena riprenderne le argomentazioni: “Ma ciò che è peggio è l’infima cifra della politica che viene così espressa: mai nella nostra storia così pochi hanno pesato e pesano tanto male sul presente e sul futuro di tutti gli altri”.

Tra pochi giorni ci troveremo dentro a una campagna elettorale che non solo sarà sbilanciata nell’attribuzione del peso mediatico tra le diverse opinioni in campo ma sarà anche invasa dalla facile mistificazione circa l’abbattimento delle poltrone e dei privilegi della “casta” (posizione paradossalmente sostenuta da chi della “casta” fa ormai interamente e integralmente parte).

Più o meno lo stesso tipo di mistificazione con cui ci trovammo a fare i conti nel già ricordato referendum del 1993, con l’idea facilmente propagandata e colpevolmente amplificata dai media di allora della semplificazione nel ruolo del Parlamento intesa come panacea di tutti i mali della democrazia italiana in quella fase alle prese con Tangentopoli, lo smarrimento dovuto alla caduta del muro di Berlino e all’inopinato scioglimento del PCI, al ritardo accumulato sulla strada dall’adeguamento ai dettati dell’appena firmato trattato di Maastricht e dell’avvio del percorso verso la moneta unica.

L’analisi fin qui compiuta ci dimostra che l’oggetto del contendere, nel referendum del 2020, non è certo quello della semplificazione del meccanismo parlamentare : ancora una volta, come già nel 2006 e nel 2016, siamo di fronte alla determinazione di arrivare ad un mutamento nell’equilibrio dei poteri così come questi sono stati configurati nel modello di democrazia repubblicana stabilito dalla Costituzione del ‘48.

Il tema, almeno dal nostro punto di vista di chi intende sostenere il “NO”, non deve quindi essere quello della conservazione del numero dei parlamentari ma quello del mantenimento e se possibile del rafforzamento di una “balance of power” della quale è parte indispensabile la rappresentazione nelle massime istituzioni legislative delle più importanti sensibilità politiche, sociali, culturali presente in una dimensione rilevante nel Paese.

Così come è fondamentale la presenza nei due rami del Parlamento di un equilibrio nella rappresentanza territoriale che, invece, sarà massacrata dalla riduzione numerica che, alla fine, presenterà situazioni di sicuro profilo incostituzionale.

E’ necessario inoltre ripensare alla formula elettorale, al meccanismo di scelta individuale dei parlamentari, di distribuzione della rappresentanza sul territorio.

Soprattutto va ripreso e avviato un diverso discorso culturale al riguardo dell’agire politico: la difesa dell’integrità anche numerica delle Camera può rappresentare, in questo senso, un primo passo perché si riaffermerebbe la centralità della Costituzione Repubblicana e uscirebbe sconfitta una inaccettabile idea di mortificazione della rappresentanza politica.

Franco Astengo

tratto dal sito https://www.socialismoitaliano1892.it

Dopo la decisione della Corte ripartire da una legge proporzionale. di Felice Besostri ed Enzo Paolini

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La inammissibilità del referendum pro maggioritario proposto da otto regioni (ma sostanzialmente dalla Lega), dichiarata dalla Corte costituzionale in seguito agli argomenti da noi avanzati, rimette al centro del dibattito politico la questione della legge elettorale. Che è la madre di tutte le questioni, essendo relativa alle modalità di selezione della classe dirigente e quindi alla qualità della nostra politica.

Partiamo da cosa ha detto la Corte con la sentenza di ieri, sul piano generale in ordine all’uso dello strumento referendario (su quello tecnico specifico dovremo aspettare le motivazioni). Tre principi: 1) il quesito da rivolgere ai cittadini deve essere chiaro ed intellegibile per tutti, senza incomprensibili richiami o rimandi. 2) Il parlamento può delegare il governo ad emanare un atto avente forza e forma di legge. La stessa delega non può, però, darla il popolo attraverso il referendum perché così si creerebbe un corto circuito nella architettura della democrazia parlamentare. 3) Il quesito referendario non può essere «eccessivamente manipolativo», cioè proposto mediante un cosiddetto «ritaglio per sottrazione», per incastro linguistico e terminologico, così che la normativa residuale all’abrogazione abbia l’effetto di creare una nuova norma senza passare per il percorso legislativo parlamentare. Ad esempio, nel caso specifico: cambiare il metodo elettorale mediante l’abrogazione per via di referendum di parole o frasi inserite in leggi non afferenti al metodo elettorale.

La Corte ha ritenuto la proposta priva dei requisiti della chiarezza e della omogeneità logica del quesito, insomma della semplicità essenziale necessaria ed indispensabile per sottoporre ai cittadini questioni importanti, e non ve n’è di più importante sul piano istituzionale di quella del metodo elettorale. Da qui dobbiamo (ri)partire se vogliamo convincere anche chi, destato dal campanello della Corte, si riassopisce subito con le tranquillanti, superficiali e pericolosissime parole di Prodi e Veltroni (ieri) e di Beppe Sala (oggi): dobbiamo pensare alla «governabilità», dunque al maggioritario. Ma in nessuna parte della Costituzione è scritto che le elezioni debbano garantire la «governabilità» o, addirittura, che la sera dello scrutinio si debba sapere chi ha vinto e chi ha perso. Questo succede alla Domenica sportiva.

La governabilità non è la ragione, il fine delle elezioni, ma il necessario, auspicato effetto, determinabile dalla convergenza delle forze politiche rappresentate in parlamento sui programmi proposti agli elettori e sulle mediazioni imposte dalle alleanze atte a costruire le maggioranze utili per governare. Questa è la governabilità. Dunque non è affatto vero che con il maggioritario (cioè con un sistema che assegna alla formazione che non ha raggiunto la maggioranza ma è prima in classifica, un premio in seggi), sia assicurata ipso facto la «governabilità» stabile. A meno di un risultato elettorale con una maggioranza assoluta (i «pieni poteri»), ci vogliono sempre un’alleanza e un compromesso. La differenza tra i due sistemi, cioè tra quello attuale, con le nomine dei capi partito e quello proporzionale con le preferenze degli elettori è decisiva: la qualità della classe dirigente.

La storia di questo ultimo anno e mezzo e dell’annesso cambio al governo (ma possiamo dire la storia del paese da quando c’è il maggioritario per nomina, sia esso Porcellum, Italicum o Rosatellum con i suoi ribaltoni, cambi di casacche, compravendita di parlamentari) lo dimostra. La spiegazione è semplice: il sistema pensato dai costituenti, cioè il proporzionale puro con le preferenze, non fu scelto solo per impedire nuove temute derive autoritarie. La paura o meglio il rifiuto della tirannide era il presupposto. Ma il sistema recava in sé un fine tessuto di ingegneria costituzionale. Esso fotografava la realtà politica, il sentire del popolo italiano, fino a quello dell’ultimo cittadino, con un voto «diretto, libero ed uguale» per cui la sera dello scrutinio si sapeva chi eravamo, cosa pensavamo, quali erano gli orientamenti condivisi e in quale misura, appunto proporzionale, si traducevano in seggi parlamentari.

Così che i rappresentanti istituzionali sin da subito potevano/dovevano avviare i confronti per giungere alle alleanze con le quali costituire le maggioranze necessarie affinché un governo potesse avere la fiducia delle camere. Un lavoro duro e affascinante che si chiama politica. Così il quadro era stabile, poteva mutare sulla base di questioni politiche non di migrazioni di senatori e deputati fondate su posizionamenti e convenienze personali. E ciò per il semplice fatto che, essendo i parlamentari eletti con le preferenze, rispondevano del loro comportamento agli elettori che tali preferenze avevano espresso e non, come oggi avviene, al capo del partito che li nomina o che gli promette la rinomina.

In questo sciagurato mo(n)do il parlamento viene nominato dai cosiddetti leader, non viene assicurata alcuna governabilità politica, le maggioranze sono drogate dai premi, la vera volontà popolare non conta niente e le elezioni sono solo esercizi di posizionamento personale. Ciò è peraltro affermato dalle ripetute sentenze della Corte costituzionale sui parlamenti che ormai da un decennio sono eletti sulla base di leggi dichiarate incostituzionali. Il problema si acuirà con la riduzione del numero dei parlamentari. Meno rappresentanti, più potere nella nomina, più controllo di pochi. Si chiama oligarchia.

In pieno mese di agosto questo giornale ha pubblicato un appello, «Il governo riparta dalla Costituzione», sottoscritto da tanti autorevoli osservatori. Ne riproponiamo il brevissimo, fulminante ed imprescindibile punto 1: «Legge elettorale, proporzionale pura: l’unica che faccia scattare tutte le garanzie previste dalla Costituzione. Per mettere in sicurezza la Costituzione stessa, cioè la democrazia».

Felice Besostri ed Enzo Paolini

da “Democrazia Socialista” Anno XVI n. 3, 30 gennaio/2 febbraio 2020