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Perché bisogna votare NO, di Giovanni Scirocco

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L’amico Giuseppe Scirocco ci ha inviato questo contributo in risposta all’intervista di Giuliano Pisapia dei giorni scorsi.

Il manifesto dei 56 costituzionalisti per il no (aprile 2016) inizia così (a proposito di pregiudizi…): Di fronte alla prospettiva che la legge costituzionale di riforma della Costituzione sia sottoposta a referendum nel prossimo autunno, i sottoscritti, docenti, studiosi e studiose di diritto costituzionale, ritengono doveroso esprimere alcune valutazioni critiche.

Non siamo fra coloro che indicano questa riforma come l’anticamera di uno stravolgimento totale dei principi della nostra Costituzione e di una sorta di nuovo autoritarismo.
E poi prosegue

Siamo però preoccupati che un processo di riforma, pur originato da condivisibili intenti di miglioramento della funzionalità delle nostre istituzioni, si sia tradotto infine, per i contenuti ad esso dati e per le modalità del suo esame e della sua approvazione parlamentare, nonché della sua presentazione al pubblico in vista del voto popolare, in una potenziale fonte di nuove disfunzioni del sistema istituzionale e nell’appannamento di alcuni dei criteri portanti dell’impianto e dello spirito della Costituzione.

  1. Siamo anzitutto preoccupati per il fatto che il testo della riforma – ascritto ad una iniziativa del Governo – si presenti ora come risultato raggiunto da una maggioranza (peraltro variabile e ondeggiante) prevalsa nel voto parlamentare («abbiamo i numeri») anziché come frutto di un consenso maturato fra le forze politiche; e che ora addirittura la sua approvazione referendaria sia presentata agli elettori come decisione determinante ai fini della permanenza o meno in carica di un Governo. La Costituzione, e così la sua riforma, sono e debbono essere patrimonio comune il più possibile condiviso, non espressione di un indirizzo di Governo e risultato del prevalere contingente di alcune forze politiche su altre. La Costituzione non è una legge qualsiasi, che persegue obiettivi politici contingenti, legittimamente voluti dalla maggioranza del momento, ma esprime le basi comuni della convivenza civile e politica. È indubbiamente un prodotto “politico”, ma non della politica contingente, basata sullo scontro senza quartiere fra maggioranza e opposizioni del momento. Ecco perché anche il modo in cui si giunge ad una riforma investe la stessa “credibilità” della Carta costituzionale e quindi la sua efficacia. Già nel 2001 la riforma del titolo V, approvata in Parlamento con una ristretta maggioranza, e pur avallata dal successivo referendum, è stato un errore da molte parti riconosciuto, e si è dimostrata più fonte di conflitti che di reale miglioramento delle istituzioni.
  2. Nel merito, riteniamo che l’obiettivo, pur largamente condiviso e condivisibile, di un superamento del cosiddetto bicameralismo perfetto (al quale peraltro sarebbe improprio addebitare la causa principale delle disfunzioni osservate nel nostro sistema istituzionale), e dell’attribuzione alla sola Camera dei deputati del compito di dare o revocare la fiducia al Governo, sia stato perseguito in modo incoerente e sbagliato. Invece di dare vita ad una seconda Camera che sia reale espressione delle istituzioni regionali, dotata dei poteri necessari per realizzare un vero dialogo e confronto fra rappresentanza nazionale e rappresentanze regionali sui temi che le coinvolgono, si è configurato un Senato estremamente indebolito, privo delle funzioni essenziali per realizzare un vero regionalismo cooperativo: esso non avrebbe infatti poteri effettivi nella approvazione di molte delle leggi più rilevanti per l’assetto regionalistico, né funzioni che ne facciano un valido strumento di concertazione fra Stato e Regioni. In esso non si esprimerebbero le Regioni in quanto tali, ma rappresentanze locali inevitabilmente articolate in base ad appartenenze politico-partitiche (alcuni consiglieri regionali eletti – con modalità rinviate peraltro in parte alla legge ordinaria – anche come senatori, che sommerebbero i due ruoli, e in Senato voterebbero ciascuno secondo scelte individuali). Ciò peraltro senza nemmeno riequilibrare dal punto di vista numerico le componenti del Parlamento in seduta comune, che è chiamato ad eleggere organi di garanzia come il Presidente della Repubblica e una parte dell’organo di governo della magistratura: così che queste delicate scelte rischierebbero di ricadere anch’esse nella sfera di influenza dominante del Governo attraverso il controllo della propria maggioranza, specie se il sistema di elezione della Camera fosse improntato (come lo è secondo la legge da poco approvata) a un forte effetto maggioritario.
  1. Ulteriore effetto secondario negativo di questa riforma del bicameralismo appare la configurazione di una pluralità di procedimenti legislativi differenziati a seconda delle diverse modalità di intervento del nuovo Senato (leggi bicamerali, leggi monocamerali ma con possibilità di emendamenti da parte del Senato, differenziate a seconda che tali emendamenti possano essere respinti dalla Camera a maggioranza semplice o a maggioranza assoluta), con rischi di incertezze e conflitti.
  2. L’assetto regionale della Repubblica uscirebbe da questa riforma fortemente indebolito attraverso un riparto di competenze che alle Regioni toglierebbe quasi ogni spazio di competenza legislativa, facendone organismi privi di reale autonomia, e senza garantire adeguatamente i loro poteri e le loro responsabilità anche sul piano finanziario e fiscale (mentre si lascia intatto l’ordinamento delle sole Regioni speciali). Il dichiarato intento di ridurre il contenzioso fra Stato e Regioni viene contraddetto perché non si è preso atto che le radici del contenzioso medesimo non si trovano nei criteri di ripartizione delle competenze per materia – che non possono mai essere separate con un taglio netto – ma piuttosto nella mancanza di una coerente legislazione statale di attuazione: senza dire che il progetto da un lato pretende di eliminare le competenze concorrenti, dall’altro definisce in molte materie una competenza «esclusiva» dello Stato riferita però, ambiguamente, alle sole «disposizioni generali e comuni». Si è rinunciato a costruire strumenti efficienti di cooperazione fra centro e periferia. Invece di limitarsi a correggere alcuni specifici errori della riforma del 2001, promuovendone una migliore attuazione, il nuovo progetto tende sostanzialmente, a soli quindici anni di distanza, a rovesciarne l’impostazione, assumendo obiettivi non solo diversi ma opposti a quelli allora perseguiti di rafforzamento del sistema delle autonomie.
  3. Il progetto è mosso anche dal dichiarato intento (espresso addirittura nel titolo della legge) di contenere i costi di funzionamento delle istituzioni. Ma il buon funzionamento delle istituzioni non è prima di tutto un problema di costi legati al numero di persone investite di cariche pubbliche (costi sui quali invece è giusto intervenire, come solo in parte si è fatto finora, attraverso la legislazione ordinaria), bensì di equilibrio fra organi diversi, e di potenziamento, non di indebolimento, delle rappresentanze elettive. Limitare il numero di senatori a meno di un sesto di quello dei deputati; sopprimere tutte le Province, anche nelle Regioni più grandi, e costruire le Città metropolitane come enti eletti in secondo grado, anziché rivedere e razionalizzare le dimensioni territoriali di tutti gli enti in cui si articola la Repubblica; non prevedere i modi in cui garantire sedi di necessario confronto fra istituzioni politiche e rappresentanze sociali dopo la soppressione del Cnel: questi non sono modi adeguati per garantire la ricchezza e la vitalità del tessuto democratico del paese, e sembrano invece un modo per strizzare l’occhio alle posizioni tese a sfiduciare le forme della politica intesa come luogo di partecipazione dei cittadini all’esercizio dei poteri.
  4. Sarebbe ingiusto disconoscere che nel progetto vi siano anche previsioni normative che meritano di essere guardate con favore: tali la restrizione del potere del Governo di adottare decreti legge, e la contestuale previsione di tempi certi per il voto della Camera sui progetti del Governo che ne caratterizzano l’indirizzo politico; la previsione (che peraltro in alcuni di noi suscita perplessità) della possibilità di sottoporre in via preventiva alla Corte costituzionale le leggi elettorali, così che non si rischi di andare a votare (come è successo nel 2008 e nel 2013) sulla base di una legge incostituzionale; la promessa di una nuova legge costituzionale (rinviata peraltro ad un indeterminato futuro) che preveda referendum propositivi e di indirizzo e altre forme di consultazione popolare.
  5. Tuttavia questi aspetti positivi non sono tali da compensare gli aspetti critici di cui si è detto. Inoltre, se il referendum fosse indetto – come oggi si prevede – su un unico quesito, di approvazione o no dell’intera riforma, l’elettore sarebbe costretto ad un voto unico, su un testo non omogeneo, facendo prevalere, in un senso o nell’altro, ragioni “politiche” estranee al merito della legge. Diversamente avverrebbe se si desse la possibilità di votare separatamente sui singoli grandi temi in esso affrontati (così come se si fosse scomposta la Riforma in più progetti, approvati dal Parlamento separatamente).

 

Per tutti i motivi esposti, pur essendo noi convinti dell’opportunità di interventi riformatori che investano l’attuale bicameralismo e i rapporti fra Stato e Regioni, l’orientamento che esprimiamo è contrario, nel merito, a questo testo di riforma.

Giovanni Scirocco

Le vere intenzioni del governo nella riforma costituzionale, di Vincenzo Russo

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Vincenzo Russo

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Udite, udite le vere intenzioni del governo per la voce di Maria Elena Boschi, ministro dei rapporti con il Parlamento, che a torto o a ragione viene considerata vice-premier. A proposito della riforma costituzionale, ieri sera ha detto letteralmente: ” vogliamo ridurre i poteri delle regioni per semplificare la vita dei cittadini”. E’ questa la concezione della democrazia della Boschi e probabilmente anche del premier. Le regioni, il decentramento il federalismo non implementano la democrazia ma complicano la vita dei cittadini. E a complicarla sono proprio le regioni non il governo centrale che costringe un Parlamento di nominati e, per giunta, eletti con una legge elettorale dichiarata incostituzionale dalla Corte Costituzionale ad approvare leggi kilometriche incomprensibili ai più. Ma la Boschi non si rende conto che se si ridicono i poteri delle regioni e, conseguentemente, quelli dei comuni che insistono sul territorio delle stesse, alla fine si riducono i poteri dei cittadini. Non si rende conto che se si eliminano – si fa per dire – le province e si trasformano in aree metropolitane dov’è i dirigenti sono sempre i sindaci o politici non scelti direttamente dai cittadini, si annulla o si riduce la rappresentanza dei cittadini. Ma la Boschi e il governo dicono che, in questo modo, si riduce il costo della politica, alias, si riducono le poltrone. Argomento di un certo effetto ma sempre ingannevole. Perché i costi della politica non si riducono tagliando solo le poltrone ma verificando l’efficienza e l’efficacia delle funzioni svolte. Se fosse vera la premessa del ragionamento del governo, bisognerebbe abolire la Camera dei deputati e ogni organismo collegiale e affidare tutte le decisioni ad un solo uomo, all’Uomo della Provvidenza. Questa sì che sarebbe vera semplificazione. Ma il massimo di semplificazione distrugge la democrazia in una società moderna e complessa. Forse bisogna spiegare alla Boschi che riducendo le sedi di partecipazione dei cittadini alle scelte pubbliche, si riduce la democrazia, si conculcano i diritti dei cittadini, si scivola inesorabilmente verso la dittatura. Nel merito la costituzione del 1948 prevede un c.d. Stato regionale, qualcosa di molto diverso da quello centralizzato, come era stato il regime fascista, qualcosa di molto vicino allo stato federale. Per oltre 20 anni il parlamento italiano ha approvato leggi rubricate come provvedimenti mirati ad introdurre e attuare schemi federalisti. Adesso scopriamo che non solo non vogliamo più il federalismo ma non vogliamo neanche lo Stato regionale. La riprova è che nella riforma costituzionale che stiamo valutando il senato che rimane non è un senato federale, non è un senato delle regioni ma delle autonomie perché ci sono anche i sindaci e i Comuni hanno solo autonomia amministrativa. Renzi, che è stato sindaco per due mandati, abrogando le imposte di tipo patrimoniale sulla prima casa ha ridotto l’autonomia tributaria dei Comuni ma ora fa partecipare alcuni sindaci al processo legislativo e può quindi vantarsi di avere valorizzato il loro ruolo.

Vincenzo Russo

 

articolo tratto dal sito http://enzorusso2020.blog.tiscali.it/2016/09/05/le-vere-intenzioni-del-governo-nella-riforma-costituzionale/?doing_wp_cron

Comitati per il NO e socialismo largo, di Roberto Biscardini

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Biscardini

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I Comitati socialisti per il No sono aperti a tutti coloro che si riconoscono in questa battaglia e riconoscono nelle ragioni ideali del socialismo le ragioni sostanziali per un No a questa riforma costituzionale.
I Comitati socialisti per il No che si stanno moltiplicando in tutta Italia e che stanno raccogliendo un grande interesse tra tanti compagni socialisti ma non solo, sono la riprova che, al di là delle logiche parlamentari e indipendentemente dal sostegno che un partito o meno dà al governo, nel momento in cui sul piatto ci sono questioni che mettono in discussione le convinzioni democratiche più profonde, i socialisti, ma non solo loro, ragionano con la propria testa e si mettono alla testa di una battaglia di chiarezza e onestà.
La chiamata per andare a firmare per il Si in nome di una banale appartenenza ad un partito o le reiterate dichiarazioni di parte a favore del Si, per fare piacere a Renzi, scorrono via come acqua fresca, non bastano a cambiare le coscienze o a mutare la natura delle cose.
I socialisti riaffermano così con i Comitati per il No il valore originario della propria storia democratica e di libertà. Non tradiscono la loro storia e, di fronte ad una riforma costituzionale che rischierebbe di minare quelle libertà, reagiscono. Si fanno sostenitori e promotori di una battaglia destinata nelle prossime settimane e mesi ad allargarsi e a farsi ancora più dura.
I socialisti si riuniscono, parlano tra loro al di là della loro ormai vecchie scelte politiche. E d’altra parte non c’è centrodestra o centrosinistra che tenga: di fronte alle grandi questioni della vita democratica di un paese ognuno è solo con la propria coscienza, si riscatta e scopre le forza di una battaglia che non può non essere combattuta. I socialisti colgono l’opportunità di diventare protagonisti su una posizione di forte autonomia e di forte identità, perché hanno aderito ad un percorso delineato con assoluta chiarezza. Le ragioni socialiste del No non rispondono a logiche di parte ma stanno dalla parte del paese. Come ad un tempo: o Repubblica o il caos. Quindi per vincere bisogna abbattere steccati e parlare a tutti, ad un mondo socialista ancora potenzialmente largo, ma non solo. Parlare a tutti i socialisti che hanno ancora una coscienza, ma non hanno più una forte organizzazione politica di riferimento e parlare ad un mondo di sinistra democratica, che sta anche dentro il Pd, ma che ha assolutamente bisogno di uscire dalla ubriacatura del governo e della sola logica dell’esecutivo. Si, quel socialismo largo che i Comitati socialisti per il No possono far riemergere e contribuire a riorganizzare.
Il documento di ieri dei dieci parlamentari del Pd a favore del No è solo un inizio e poveracci coloro che pensano che i socialisti possano seguire la logica opportunistica del Si.

Roberto Biscardini

Il popolo italiano e i suoi diritti, di Alberto Benzoni

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Alberto Benzoni

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Con Renzi abbiamo conquistato, anzi ci è stato erogato un nuovo diritto: quello di sapere, la sera stessa delle elezioni, chi ha vinto.

Nuovo, forse. Importante, non si sa bene perchè. Comunque, meno importante di altri che ci sono stati tolti per la loro asserita inutilità. Quello di votare: perchè per le province, per gli enti intermedi,
per il senato, questo diritto ci è stato già tolto. Quello di difenderci dalla devastazione ambientale: perchè, con lo sblocca Italia, quasi tutto sarà permesso. Quello di difendere collettivamente gli interessi dei lavoratori: perchè ci si confronterà a livello aziendale e vinca il migliore.
Quello di avere uno stato che ci difenda: perchè si continua a demolirne il ruolo e l’autorità. Quello di controllare l’attività dell’esecutivo: perchè avremo una Corte costituzionale a sua immagine e
somiglianza. Quello di vedere rispettata la nostra opposizione: perchè questo esercizio verrà considerato inutile e dannoso, per non dire antiitaliano. Quello di avere un governo, frutto di scelte largamente condivise: perchè vivremo in una democrazia in cui tutto il potere apparterrà ad una minoranza. Abbiamo però una occasione unica e irripetibile per dire no, per fermare tutto questo. Possiamo e dobbiamo utilizzarla dicendo no al referendum promosso da Renzi.

Ve lo chiediamo come socialisti; ma in nome della democrazia liberale. Perchè la democrazia liberale è l’aria che respiriamo. La causa che ci accomuna.

Alberto Benzoni