Voto

Legge elettorale e prima Repubblica, di Angelo Sollazzo

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Nel frasario politico attuale la prima repubblica viene definita la “madre dell’inciucio”, i suoi protagonisti espressione della corruzione, i partiti politici ferrovecchi del 900.
All’inizio tutti, o quasi,gli italiani erano stati presi dalla mania di cambiare, modificare o rottamare. Senonché i risultati degli ultimi venticinque anni sono stati a dir poco disastrosi.
Iniziò Berlusconi che in politica ci arrivò per salvaguardare i propri interessi, inizio a parlare di teatrino dei partiti, ad usare massicciamente il potere televisivo, a mobilitare aziende e dipendenti, a trasformare la politica in un vero spettacolo di cabaret. Tutto ciò senza affrontare il tema dei comportamenti personali, olgettine, pupe e via dicendo, che ci hanno creato la derisione di mezzo mondo. Sono quindi arrivati sulla scena Grillo e Renzi. Quest’ultimo, da buon comunicatore, cerca sempre di attribuire ad altri le sue pecche. Con grande coraggio parla di lotta alla corruzione, anche nel momento in cui si vedono in grande difficoltà suo padre e la sua amica Maria Elena Boschi, mentre una componente del Governo, incappa nello scandalo dei petroli in Basilicata, in casa PD ci sono arresti a valanga, etc.

Renzi parla di cambiare l’Italia, dopo essere stato per ben tre anni capo del Governo senza combinare nulla e dando la colpa a chi lo ha preceduto. I politici brutti e cattivi sono altri, lui è buono e vergine. Una bella faccia tosta quando, dopo aver annunciato il ritiro dalla politica per la sonora batosta rimediata al Referendum costituzionale, ritorna in campo come niente fosse. Sulla legge elettorale cambiare idea è divenuta un’abitudine. L’ultima prevede il 50% dei seggi assegnati in collegi uninominali piccoli, e l’altro 50% con il proporzionale e liste bloccate.
Insomma il fatto che l’82% degli italiani vuole il ritorno al voto di preferenza, per scegliere direttamente il proprio rappresentante a Renzi non interessa affatto. Per i collegi uninominali sceglie il Partito, per le liste proporzionali sceglie sempre lui. In barba alla Corte costituzionale ed alla volontà degli italiani. Tutti nominati e tutti amici. Grillo inizia denunciando malcostume ed imbrogli vari, da comico arguto tocca le corde della sensibilità degli italiani arrabbiati.
Si perde, invece quando tenta di trasformare il suo movimento protestatario in forza di Governo.
Protestare è importante, ma poi serve governare. Le scelte dei capi del Gruppo non sono tra le più felici. Il prescelto capo del Governo si confonde nell’uso del congiuntivo, mostrando chiaramente qualche difficoltà con la lingua italiana, poi confonde ancora la professione del sociologo con quella dello psicologo, afferma che Pinochet è stato dittatore del Venezuela e non del Cile, invece il candidato ministro del esteri chiede i vaccini gratuiti per tutti, non informandosi che lo sono sempre stati. Insomma strafalcioni a ripetizione. Possono questi governare l’Italia? No, non è possibile.
I tanto vituperati partiti selezionavano la classe dirigente, preparavano i quadri, escludevano gli incapaci. Il politico prima di aspirare allo scranno parlamentare doveva fare la gavetta in periferia , veniva sottoposto a continue valutazioni e veniva eletto direttamente dagli elettori.
Certo vi erano comportamenti scorretti, corruttele varie , responsabilità gravissime, ma mai a livello di quanto accade oggi. Basterebbe applicare l’articolo 49 della Costituzione sulla trasparenza e sulla democrazia interna ai Partiti, per avere una classe dirigente degna di questo nome. Ritorniamo alla politica vera , ricostruiamo i Partiti, selezioniamo i candidati, ritorniamo agli ideali ed alle culture politiche. I personalismi portano male, il collettivo evita avventure.

Angelo Sollazzo

Intervento di Aldo Potenza all’Assemblea “Socialisti in Movimento” di Milano

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Aldo Potenza

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E’ frequente ascoltare interventi che sostengono superate le divisioni fra destra e sinistra. Ovviamente le caratteristiche della destra e sinistra del ‘900 oggi si presentano in forme diverse rispetto al passato, ma questa condizione non può indurci a credere che le questioni di quel tempo siano superate e tutto si risolva in un tecnicismo che non abbia alcun riferimento alle categorie destra e sinistra.

La liberalizzazione dei capitali, la pressante spinta verso le privatizzazioni in ogni campo, la richiesta di sempre meno tutele per il lavoro etc, sono tutte riconducibili a precise culture di riferimento ed in particolare alla scuola di pensiero di Milton Friedman e George Stigler che hanno posto il mercato e la libera concorrenza (libera da “interferenze” della politica) come naturale regolatore dell’economia, della finanza e infine delle condizioni dell’uomo.

I primi sostegni a tale politica vennero in Italia da Gianni Agnelli, che in una intervista concessa il 30 gennaio 1975 al Corriere della Sera sostenne che ” Probabilmente dovremo avere governi molto forti che siano in grado di far rispettare i piani a cui avranno contribuito altre forze oltre a quelle rappresentate in Parlamento; probabilmente il potere si sposterà dalle forze politiche tradizionali a quelle che gestiranno la macchina economica; probabilmente i REGIMI tecnocratici di domani ridurranno lo spazio delle libertà personali. Ma non sempre tutto ciò sara un male.”
Forse è il caso di ricordare che in precedenza fu pubblicato a cura della Trilateral Committee un rapporto il cui titolo era “The Crisis of Democraticy”.

Più recentemente sono poi venute allo scoperto le “cure al sistema democratico” sostenute con gran forza dal mondo dalla finanza ovvero la necessità, in particolare per l’Italia, di modificare la nostra Costituzione considerata a forte impronta socialista e pertanto da “riformare” in modo che la cultura neoliberista possa avere pieno riconoscimento costituzionale.

Il recente referendum con la vittoria del no ha momentaneamente sconfitto questo disegno, ma sia l’orientamento dell’UE, sia l’inacapacità del PSE che con le politiche presentate come modernizzazioni ha lentamente smarrito le tradizionali politiche socialdemocratiche e ha favorito l’affermarsi della cultura e dell’azione di governo ispirata al neoliberismo, rendono estremamente fragile la difesa rappresentata dalla Costituzione.

I socialisti e la sinistra democratica, al contrario dei neoliberisti, pur sostenendo la libera iniziativa, pongono al centro della loro azione le condizioni dell’uomo e non sono disponibili ad alienare i diritti dei cittadini e dei lavoratori in nome delle forze economiche e finanziarie che dominano il mercato.
Appare in tutta evidenza che la difesa di quei diritti, oltre a rappresentare la linea di demarcazione fra destra e sinistra, riguarda anche la questione democratica, come l’intervento di Agnelli chiarisce oltre ogni dubbio.

Non siamo conservatori delle conquiste del 900, sappiamo che molte condizioni sono mutate, ma pensiamo che si possa e si debba cambiare mantenendo sempre al centro della nostra azione le condizioni di vita delle persone.

Un esempio riguarda il jobs act. Pochi ricordano che Renzi prima di diventare presidente del consiglio tra le azioni di riforma del mondo del lavoro affrontò la questione dei comitati di sorveglianza dei lavoratori nelle grandi imprese. Una iniziativa che con caratteristiche diverse fu affrontata già nel lontano 1944 dail socialista D’Aragona e successivamente, nel 1946, da Morandi con un disegno di legge elaborato dal socialista Massimo Severo Giannini.

Evidentemente strada facendo Renzi si è reso conto che le forze economiche italiane hanno sposato la cultura politica neoliberista e non hanno intenzione di creare strutture che introducano forme avanzate di democrazia industriale. Vogliono libertà di licenziare trattando il lavoro alla stregua di merce sul mercato.

Renzi li ha accontentati diventando, come Agnelli anticipò, il capo del governo al servizio delle tecnocrazie economiche e finanziarie.

Le conseguenze devastanti del neoliberismo, provocando un profondo malcontento che assume sempre di più un atteggiamento rancoroso verso la politica e spesso persino verso le Istituzioni, si traducono nell’elezione di Trump negli USA e nella nascita di tanti partiti e movimenti di protesta che rischiano di destabilizzare il disegno europeo che appare sempre più lontano dal progetto iniziale.
Il deserto politico culturale che è stato prodotto dalla falsa rivoluzione del 94 e dalla incapacità dei post comunisti è devastante. I comunisti, incapaci di fare i conti con la loro storia rifugiandosi in un contenitore che già nel 2002 Barbara Spinelli nel bel libro il “sonno della memoria” criticava nel seguente modo “Orbi della vecchia identità, finiranno col dimenticarla del tutto e non sapranno di conseguenza neppure metterla davvero in questione. Indossatana una nuova, non sapranno portarla con disinvoltura, dovendo fingere un patrimonio che comunque non possono amministrare perfettamente. Il destino che hanno di fronte, di partito senza storia nè fisionomia, si preannuncia triste”, oggi sono sconfitti nella casa che hanno contribuito a costruire e chi l’ha abbandonata rischia di apparire nostalgico di una storia non più riproponibile.

Ai socialisti in movimento spetta un grande compito che non si risolve nel ricomporre il mosaico delle loro disperse forze, ma nel ricostruire una forza che contamini della loro cultura anche chi oggi ha scelto la strada dell’autonomia a sinistra del PD.

Aldo Potenza

29/04/2017

 

Uno strano Paese, di Angelo Sollazzo

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Le analisi del voto sono proprio una coperta corta che ognuno tira dalla sua parte.
Renzi si attribuisce arbitrariamente il 40% del SI. Tutta roba mia,si diceva una volta. Altra furbata. Ma la sberla ricevuta non gli è bastata.

Con il SI si sono schierate le armate al completo della Confindustria, con le migliaia di aziende associate, la CISL con tre milioni di iscritti,la Coldiretti con un milione e passa di iscritti, l’Unione Bancaria e tutte le banche grandi e piccole,la FIAT, con quello che rappresenta ancora in Italia, quasi tutte le associazioni professionali, tutti i canali televisivi RAI e Mediaset, quasi tutta la grande stampa, il sistema finanziario italiano e straniero, JP Morgan, Goldman Sachs, l’Unione Europea, Obama e gli Stati Uniti, la Gran Bretagna,con capofila Tony Blair etc.

Tutti amorevolmente uniti per trarre vantaggio dalla riduzione di democrazia in Italia che il Referendum proponeva.

Tutti renziani? Tutti del PD? Ma non scherziamo.

Sul Fronte del NO si assegnano la vittoria da una parte la Lega e dall’altra il movimento 5Stelle.
Per carità hanno fatto la loro parte, ma dimenticano i loro stessi numeri (10% e 25%). Ed il resto? Si dimentica l’oltre l’80% dei giovani, il Sud dove il NO ha stravinto e certamente non vota Lega, i disoccupati, gli sfruttati dai vouchers, gli otto milioni di poveri, i costituzionalisti più preparati, la sinistra storica e quella giovane che dopo anni è tornata al voto, dopo aver disertato le urne, per difendere la Costituzione, facendo tornare la percentuale dei votanti al 70%.Certo i 5Stelle hanno buone ragioni da far valere e rappresentano istanze che i partiti tradizionali hanno trascurato, ma fino a quando i candidati a governare confondono il Venezuela con il Cile, Fidel Castro con Chavez, o dicono che il Kenia sia una medicina, allora proprio non ci siamo. C’è ancora bisogno di cultura.

Il fronte del NO non vuole e non deve essere una coalizione di governo.

Anche per il Divorzio avevamo per il NO dai fascisti ai comunisti estremisti.
Una domanda semplice pochi la fanno. Tu, Renzi, chiedi al popolo, vuoi non contare più nella scelta dei parlamentari, poiché con l’Italicum e trucco annesso dei capilista, i deputati li scelgo in stragrande maggioranza io, i senatori, controllando 17 Regioni su 20, li scelgo sempre io, con consiglieri regionali e sindaci che mi sono fedeli ed il tuo voto non vale un tubo? Ed il popolo ha risposto come doveva con una valanga di NO. Altra domandina. vuoi che risparmiamo solo 24 milioni,senza considerare diarie e trasferte, non abolendo il Senato, ma facendolo a mia somiglianza, ed in contemporanea spendo 170 milioni per l’acquisto del nuovo aereo presidenziale e 10 milioni per i miei consulenti fiorentini, mettendo, anche, a capo dell’Ufficio Legislativo un vigile urbano della mia città?

Ecco senza approfondire troppo,e bisognerebbe farlo, la risposta c’è stata a domande facili.
Occorre ritornare alla politica,alle culture politiche,alla preparazione politica. Le scorciatoie portano solo disastri.

La furbizia viene sempre battuta dall’intelligenza.

Angelo Sollazzo

Dopo il successo del NO al referendum del 4 dicembre

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Care compagne e cari compagni,

i socialisti che in questa lunga campagna referendaria hanno sostenuto le ragioni del No dando vita ad un proprio Comitato ringraziano tutti coloro che fin dalle prime ore hanno accolto il nostro appello, hanno fatto proprio il senso di una battaglia democratica figlia della nostra storia e della nostra cultura riformista e con un impegno e una passione, che sono andati ben oltre ogni migliore aspettativa, hanno contribuito a conseguire questo straordinario risultato di popolo.

Abbiamo così, tutti insieme, difeso la nostra identità e costruito le condizione per allargare la nostra comunità, reagendo all’arroganza e alle intimidazioni di chi voleva ingessare l’iniziativa socialista nel disegno autocratico di Matteo Renzi.

Come la maggioranza degli italiani, cosi la maggioranza dei socialisti si è ribellata e ha prodotto una “valanga di No” per difendere il proprio diritto di voto, lo spirito democratico della Costituzione, contestando sia il merito che il significato politico della proposta del governo.

Con il nostro Comitato abbiamo costruito rapporti nuovi con tanti socialisti dispersi, giovani e anziani, quelli che potranno consentire presto la rinascita di un Psi su base nuove, quelle del No, e contemporaneamente promuovere la riorganizzazione di un’area socialista larga, partendo dalla vecchia convinzione che non c’è sinistra senza una sinistra socialista riconoscibile.

I socialisti del No hanno potuto intercettare in questi mesi le speranze e il sentimento della maggioranza del popolo italiano, e dei giovani in particolare, quelli che aldilà dei partiti e delle logiche di schieramento hanno fatto una scelta di campo per difendere il potere della propria sovranità e aprendo una strada di profondo cambiamento rispetto all’involuzione politica che l’Italia ha conosciuto in questi ultimi vent’anni.

Come accadde nel ’74 con il referendum del divorzio, gli italiani hanno espresso con il NO il bisogno di un grande cambiamento politico e sociale, hanno voluto fermare un processo di continua degenerazione, hanno dato un segnale preciso, che non assolve né la politica né le istituzioni, ma rivendica una politica nuova.

Spetta quindi adesso anche a noi socialisti del No non interrompere il percorso e come avevamo annunciato prima del voto andare avanti, non disperdendo le energie che abbiamo messo in campo, ben sapendo che le forze sconfitte, sia interne che esterne al paese, non si fermeranno davanti alla battuta d’arresto che hanno subito il 4 dicembre.

Per questo dobbiamo presto moltiplicare le occasioni di incontro sia a livello nazionale che a livello locale. e presto convocheremo una riunione per una valutazione collettiva del voto e delle sue conseguenze.

Come socialisti per il No parteciperemo ad ogni manifestazione e confronto con tutti coloro che hanno vissuto la grande esperienza del No con altre sigle e altri comitati e con le forze riformiste della sinistra che hanno sostenuto il No dobbiamo sentirci impegnati a costruire un progetto politico duraturo.

Da subito possiamo individuare tre obbiettivi.

La battaglia contro l’Italicum, per seppellire ogni ulteriore tentativo di ripristino di leggi maggioritarie e contemporaneamente incostituzionali, facendo la nostra parte perché il Parlamento, libero dai condizionamenti del Governo e forte del consenso polare, approvi una legge elettorale rappresentativa del popolo, quindi proporzionale, per sostituire un parlamento di nominati con un parlamento di deputati e senatori eletti direttamente dai cittadini.

Dobbiamo saper cogliere dal voto referendario il senso profondo della riscoperta dell’amore popolare per la democrazia, da allargare alla partecipazione dei cittadini e non da restringere; dobbiamo saper cogliere il grido d’insoddisfazione che si é levato con il voto referendario che ha sottolineato quanto siano aumentate le diseguaglianze tanto nel nord industrializzato come nel sud del nostro paese; quanto sia aumentato il numero dei poveri e dei disoccupati giovani e non e il conseguente disagio sociale della popolazione. Un impegno che può essere favorito dall’approfondimento e dalla conoscenza della storia e delle esperienza del movimento socialista italiano.

Infine contribuire a riorganizzare con tutti coloro che ci stanno un’area larga della sinistra socialista italiana capace di essere influente nelle scelte di politica economica e internazionale, con un progetto chiaro di riforma per uno Stato più giusto, garante di diritti sociali uguali per tutti e di libertà, con l’obiettivo primario di dare una risposta di governo convincente ai nuovi e vecchi problemi del paese. Un’area socialista larga in grado di affrontare le prossime scadenze elettorali ed avere una significativa ed autonoma rappresentanza parlamentare.

Appello finale del Comitato socialista per il NO

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Compagne e compagni,
se è vero che prudenza ed esperienza ci inducono a non dare per certa una vittoria percepita, non è certamente imprudente prepararsi a gestire la difficile fase politica che si aprirà dopo il voto referendario e a predisporre idee, strumenti e iniziative per far fronte a due possibili scenari.
Se prevarrà il NO, verrà bloccato l’assalto all’impianto democratico della Costituzione. E’ questo un obiettivo essenziale ma dobbiamo essere consapevoli che non si bloccherà, da parte dello schieramento battuto, il tentativo di svuotamento dei contenuti di autonomia e del carattere di sovranità statale e democratica della Carta. I tentativi di rivincita riemergeranno anche perché vasto è il fronte, interno ed esterno, dai connotati non solo economici ma anche politici e culturali, che ormai colloca le Costituzioni dei popoli come reperti di archeologia, inadatte a farsi permeabili ai processi di globalizzazione, alle necessità di unificazione e omogeneizzazione della governance, alle leggi del mercato.
L’obiettivo di questo largo fronte è chiaro, più volte dichiarato ed anche teorizzato: le Costituzioni devono perdere la “rigidità” fondata sulla sovranità nazionale e popolare, unica titolare della difesa e della revisione del sistema dei diritti e dei poteri democraticamente conquistati; le Costituzioni – in sostanza – devono perdere la loro forma storica a favore di una forma “flessibile”, di “legge-regolamento” la cui malleabilità deve seguire i cicli congiunturali dell’economia mondiale e dell’equilibrio dei poteri che di volta in volta si ridisegnano.
Da tempo forze potenti si stanno muovendo contro il costituzionalismo democratico, individuato soprattutto in quei sistemi politici dell’Europa “periferica”, marginale, come viene classificata l’Italia. In un noto report di J.P. Morgan del maggio del 2013 (The Euro area adjustment: about halfway there) tali sistemi si sono ricostruiti in seguito a dittature e sono segnati da tali esperienze. Le Costituzioni “tendono a mostrare una forte impronta socialista, riflettono la forza delle Sinistre politiche, una forza conquistata nella lotta al fascismo”. Sistemi politici da correggere, quindi, perché da questa forza discendono: esecutivi deboli, un debole centralismo dello Stato rispetto alle regioni, la costituzionalizzazione dei diritti dei lavoratori, il clientelismo e tanto altro da raddrizzare. Ma non è solo l’opinione di una Banca mondiale. Recentemente molti rappresentanti di interessi forti si sono espressi a favore di un “riorientamento” della nostra Costituzione nel senso del “vento” dei mercati, dalla Goldman Sachs (settembre 2016) alla Confindustria.
La riforma costituzionale di Renzi è dentro questa “tendenza”. L’obiettivo della Costituzione malleabile era già dentro la nascita di questo Governo. Nel disegno di legge costituzionale presentato dal Presidente del Consiglio l’8 aprile del 2014, si legge con chiarezza che il processo di revisione deve seguire “l’esigenza di adeguare l’ordinamento interno alla recente evoluzione della governance economica europea (…) e alle relative stringenti regole di bilancio.” Il governo Renzi, senza alcuna dichiarazione al Parlamento, ha annullato il processo di revisione costituzionale dell’articolo 138 già avviato e a buon punto dell’iter parlamentare, sostituendolo con una iniziativa, non del Parlamento ma di una commissione, che ha dato al governo centralità di iniziativa nel ridisegno costituzionale.
La riforma costituzionale del governo segue il “vento” dei mercati. La “nuova” Costituzione, secondo Renzi, è pensata per far fronte alle “sfide derivanti dalla internazionalizzazione delle economie e dal mutato contesto della competizione globale” e a questo imperativo si deve sacrificare l’impianto del costituzionalismo democratico.
A dividere il Paese e a infiammare la campagna referendaria non è stata certamente la comune e sentita richiesta di ridurre il numero dei parlamentari (e non secondo le recenti pulsioni populistiche del nostro premier) oppure il superamento del bicameralismo paritario (ben dibattuto sin dentro la Costituente del 1947!) o –ancora- il superamento del CNEL. Quello che divide e dividerà anche dopo il 4 dicembre, è la natura della nostra Costituzione declassata a legge-regolamento. Non si fa fatica a riconoscere che la vittoria del SI’ aprirebbe la prospettiva di una revisione “permanente” della Costituzione perché la forza politica che vincerà le elezioni, con il premio di maggioranza che trasforma le minoranze politiche in maggioranze parlamentari, potrà prendere in ogni momento iniziative nel solco della demolizione del costituzionalismo democratico.
Questo sarà il terreno di battaglia politica dei socialisti a partire dal 5 dicembre e su questo terreno lavoreremo con le forze riformiste che hanno scelto il NO e quella parte della sinistra che avrà la forza e l’intelligenza di non farsi trascinare in una battaglia di pura difesa dell’esistente.
I socialisti per il NO, come hanno già detto nella Lettera aperta a tutta la sinistra, rivolgono un appello a tutte le forze democratiche e riformiste per aprire un confronto che prenda atto della necessità di dar vita a una Costituzione che si collochi in una dimensione globale partendo dall’identificazione del confine tra sovranità nazionale inalienabile e parti di sovranità nazionale negoziabili.
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Comitato Socialista per il NO
Presidente Onorario Rino Formica
Presidente Bobo Craxi
Angelo Sollazzo
Roberto Biscardini
Gerardo Labellarte
Pieraldo Cucchi
Aldo Potenza
seguono oltre tremila firme

Sindacati e riforma costituzionale, di Vincenzo Russo

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Vincenzo Russo

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È singolare che sull’abrogazione del CNEL (Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro), previsto dall’art. 99 della Costituzione vigente, si sia determinata la stessa unanimità conformista che ho riscontrato, nei decenni passati, sul presunto problema del superamento del bicameralismo paritario. Vista la disattenzione che c’è sull’argomento, l’abrogazione può essere considerato un obiettivo acquisito, una opinione talmente consolidata che non c’è bisogno di alcuna motivazione.
Se uno legge il documento della CGIL dell’8 settembre u.s. con il quale la Confederazione invita a votare NO si accorge che l’abrogazione del CNEL non è menzionata.
Posizione singolare quella della CISL come rintracciata in una dichiarazione breve della segretaria generale Annamaria Furlan che si esprime a favore del SI alla riforma nel suo insieme e che dà una motivazione, a mio giudizio, non coerente sulla questione del CNEL: “Il confronto ed il dialogo sociale devono diventare il modello con il quale si può risollevare il Paese. Quando si fanno le cose insieme non si fanno cose sbagliate….. per questo, occorre anche un luogo istituzionale di dialogo che sostituisca il CNEL perché quando manca il dialogo si dà fiato solo al populismo o si fanno scelte solitarie e disastrose per i cittadini come è accaduto con la legge Fornero”.
Trovo singolare la posizione di chi acconsente all’abrogazione di una sede di rango costituzionale per proporne un’altra non meglio identificata.
Trovo dubbia e, per dirla in modo chiaro, pilatesca la posizione della UIL che, in un suo lungo documento, cita l’abrogazione del CNEL, a suo dire, dovuta al fatto che non avrebbe proposto iniziative legislative.
Su una riforma costituzionale di tanta portata (47 articoli modificati), per non parlare del combinato disposto con la legge elettorale, abbiamo il NO e il SI raccomandati rispettivamente dalla CGIL e dalla CISL e un fate come vi pare e/o votate secondo coscienza della UIL. Non credo che si tratti di un giusto mezzo perché il quesito è netto: No o SI. Naturalmente entrambe le risposte sono pienamente legittime.
Per quanto mi riguarda, è la motivazione montanelliana di un dirigente della UIL che mi ha lasciato perplesso e mi ha indotto a scrivere questa nota. E non è vero che bisogna votare SI perché non ci sono proposte alternative come, invece, è aduso fare il sindacato quando critica una soluzione ad un problema. Ci sono diverse proposte di legge in Parlamento tra le quali una molto recente portata avanti da D’Alema e Quagliariello: in questa si propone: a) la riduzione drastica di 300 parlamentari (200 deputati e 100 senatori) e la conferma della loro elezione diretta; b) la semplificazione del processo legislativo e la introduzione di una Commissione di conciliazione per evitare comunque la tanto deprecata navetta che per altro ricorre in un numero limitato di casi. La proposta riprende alcuni punti da un documento (di ben 27 pagine) sottoscritto da 14 Fondazioni (politiche e/o vicine a partiti politici), rappresentative di tutto l’arco costituzionale, che nella Primavera del 2008 concordava su una premessa fondamentale, ossia, quella di porre fine alla stagione delle riforme costituzionali approvate a colpi di maggioranza governativa. E ovviamente su molti altri punti fondamentali che non sto a riassumere qui.
Mi sarei aspettato che un sindacalista avesse preso posizione non solo sul comportamento di un governo che non riconosce il ruolo dei sindacati dei lavoratori mentre affida il Ministero dello sviluppo economico a esponenti della Confindustria. Ma non è così.
Ora le domande da porsi sull’argomento specifico sono:
C’è o non c’è un collegamento tra l’art. 1 e 99 della Costituzione?
L’art. 99 non valorizza la rappresentanza dei lavoratori o no?
E’ o non è l’abrogazione del CNEL coerente con la posizione del governo contraria a riconoscere il ruolo dei c.d. corpi intermedi e dei sindacati dei lavoratori?
E’ non è la proposta del governo in contrasto con i diritti e gli interessi del sindacato?
Ai sensi dell’art. 99 sul ruolo del CNEL i sindacati sono organi di consulenza delle Camere e del governo. La sua abrogazione non riduce le sedi di partecipazione democratica dei rappresentanti dei lavoratori alle scelte politiche e legislative delle Camere e del governo centrale?
Nel 2013 il prof. Gustavo Zagrebelsky ha pubblicato un bellissimo pamphlet sulla Repubblica “Fondata sul lavoro, sottotitolo: La solitudine dell’art. 1”, Einaudi Editore, Torino, 2013. Nella prima di copertina il libro riporta dal testo la seguente frase: “Unico tra i diritti, il diritto al lavoro è esplicitamente enunciato tra i principi fondamentali della Costituzione. La politica deve essere condizionata al lavoro e non il lavoro alla politica. E’ bene ribadirlo, oggi, mentre è in corso il rovesciamento di questo rapporto”.
La solitudine dell’art. 1 sulla quale scrive il Prof. Zagrebelsky ovviamente è una metafora o, meglio, un’amara constatazione di come il problema della piena occupazione e della giustizia sociale in questo paese sia stato e sia continuamente trascurato o messo in seconda linea. L’art. 1 nella Costituzione sta in buona compagnia con il 3, 4, 35, 36, 37, 38, 39, 40, 46 e per l’appunto con il 99. E la parola lavoro ricorre 21 volte.
Per inciso, tempo fa, il premier Renzi, in una trasmissione televisiva, tagliando corto rispetto alle diverse interpretazioni contrastanti sui dati sull’occupazione, ebbe a precisare che il suo governo non si era dato un obiettivo sui posti di lavoro da creare. E se ora uno guarda al dato sulla disoccupazione che il governo prevede, nella legge di bilancio per il 2017, si accorge che la riduzione prevista è di soli sette decimali rispetto al 2016, passando dall’11,5 al 10,8 nel 2017 e al 9,9% nel 2019.
Che fare? Siccome nel dibattito politico i fautori del SI insistono su una presunta assenza di proposte alternative io ne voglio fare una singolare. Premetto che nel dopoguerra e sino agli anni sessanta i partiti di sinistra facevano eleggere i vertici dei sindacati in Parlamento. Dopo passò e fu attuato il principio della incompatibilità tra cariche politiche e quelle sindacali. A me sembra che oggi, visto che formalmente non si modifica l’art. 1 della Costituzione, i sindacati dovrebbero difendere a spada tratta il CNEL e, quindi, votare di conseguenza oppure potrebbero chiedere le quote non solo a favore delle donne ma anche per la rappresentanza dei lavoratori e delle lavoratrici e dire basta con un Parlamento imbottito di avvocati e professori.
In conclusione, a me sembra del tutto evidente che se dovesse passare la riforma proposta da Renzi, l’art. 1 della Costituzione vigente sarà ancora più solo e non è vero che essa non tocca i diritti fondamentali.

Vincenzo Russo

tratto dal blog personale: http://enzorusso2020.blog.tiscali.it/2016/11/23/sindacati-e-riforma-costituzionale/?doing_wp_cron

Perché NO, di Claudia Baldini

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C’è un club privato di alcune migliaia di persone, non eletti dai cittadini del mondo, che decide il destino in bene o in male di intere popolazioni. Queste persone con il loro seguito di partner manipolano a loro vantaggio i mercati finanziari e impongono la sudditanza della politica dei governi, strozzando gli Stati, o concedendo benessere. Chiunque si oppone a questa gang subisce o in povertà o in guerra aperta.

In questo modo i grandi Istituti commerciali, azionisti delle Banche Centrali, innanzitutto della Federal Reserve e della BCE, riescono a filtrare o trasferire quelle informazioni che servono a reggere il capitalismo mondiale. Il prezzo di beni primari, azioni, obbligazioni, titoli, valuta non sono il risultato di Economia reale e di contrattazioni libere, ma stabilite da questi banchieri liberticidi che conducono la massa dei piccoli risparmiatori e dei contribuenti e che si sono inventati le agenzie di rating specializzate come Moodys o Standard & Poor’s che determinano attraverso i governi alleati le crisi in modo da procurare cassa al capitalismo-liberismo globale.

Nessuna meraviglia che JP.Morgan entri nel governo americano direttamente, c’è sempre stato indirettamente. Nessuna meraviglia che si permettano di stilare un documento apposito a critica delle Costituzioni ‘socialiste’ dei Paesi europei del sud. Nessuna meraviglia che i potenti del mondo in ogni branchia della società si riuniscano per il Bildenberg con i loro amici a valutare ed indirizzare le economioe dei Paesi. Nessuna meraviglia che anche una insignificante giornalista, ma amica di molti, come Lilly Gruber quest’anno sia stata ammessa alla sessione annuale del Bildemberg.

Il cervello che guida il liberismo risiede in un migliaio o poco più di aziende la cui composizione azionaria è incrociata, ossia se si va a vedere sono sempre gli stessi azionisti che partecipano. Meno dell’ 1% delle multinazionali determina la gestione del 40% del totale
Perché ciò è possibile ed è un salto di qualità notevole rispetto al capitalismo del secolo scorso?
Perché il mondo ha perso le forze antagoniste.
Tutti convergono, con la ‘scusa’ della libertà di consumo, su questo modello globale. Sempre più governi di destra, sempre più dittatori disposti a massacrare i loro popoli, sempre più disinformazione, sempre più distrazioni, sempre più ignoranza. E sparisce la sinistra, non fanno sparire il nome che fa comodo per attrarre adesioni, ma hanno fatto sparire l’ideologia valoriale, convincendo che destra e sinistra non hanno più senso. Non è vero che non hanno senso, è vero che sono poca cosa.

Ancora baluardo di una forma di socialdemocrazia che si oppone al super sfruttamento e ai diritti, resta qualche Paese del nord Europa, mentre di nuovo l’America latina è nella bufera, la Cina si adegua, l’Africa ormai è della Cina. L’Europa l’abbiamo sotto i nostri occhi.
La riforma della Costituzione non è per risparmiare quel poco, non è per velocizzare le leggi è per andare verso un’oligarchia. Renzi e la sua banda di amici sono integrati in questa visione in cambio del potere.
Dobbiamo dare un segno, una spallatina a questa immonda logica di lestofanti.
E quelli che votano Sì li aiutano.
Smettiamola col dire che si o no non cambieranno nulla. Primo, già molto hanno cambiato e manca solo annullare le garanzie della legge madre. E in seguito ci si avvierebbe ad un governo di tipo presidenziale, senza contrappesi.
Non è solo la legge elettorale il male.
L’impianto da distruggere è contenuto nella Costituzione come dicono Lor Signori ‘socialista’.

Per questo il 4 deve essere NO, una valanga di NO.

Claudia Baldini

Renzi ricorre a tutte le scorrettezze istituzionali per il timore di perdere il referendum, di Gioacchino Assogna

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Assogna2

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E’ scandaloso che un Presidente del Consiglio approfitti della sua carica Istituzionale per mettere in atto iniziative propagandiste al fine di attrarre voti in suo favore.

Lo fa sia per l’invio incredibile di una lettera per sollecitare il voto a suo favore, a tutti gli Italiani all’estero, in concomitanza con l’invio delle schede elettorali per il Referendum del 4 dicembre prossimo e sia per la strumentale iniziativa, smaccatamente anti-europea, di togliere la bandiera dell’Europa a fianco di quella Italiana a Palazzo Chigi per accentuare il polemico distacco da Bruxelles per mandare un messaggio agli euro-scettici in modo da ricavarne il consenso Referendario.

Balza evidente la forte contraddizione politica del bullo fiorentino che qualche settimana fa ha promosso un vertice con Hollande e la Merkel a Ventotene per esaltare il Manifesto di Spinelli e rilanciare l’Europa Unita necessaria per affrontare lo stato di crisi, insieme all’appuntamento della prossima primavera per celebrare i 50 anni della firma degli accordi per l’Europa firmati a Roma.

Oggi è ossessionato dal vantaggio dei NO al Referendum, che potrebbe significare il benservito del suo primo Governo e di un forte segnale ai suoi metodi arroganti certamente sbagliati e incomprensibili per un Presidente del Consiglio.

Sta cavalcando l’Anti-Europeismo becero al pari del Capo di Governo Ungherese Orban, portatore di posizione fasciste, egoiste e nazionaliste anti-storiche.

Renzi non si rende conto che su questa linea è stato lasciato solo in un preoccupane isolamento, considerato che nessun Capo di Governo, compresi quelli di estrazione Socialista, hanno espresso condivisione e sostegno per lo scontro in atto con la Commissione Europea che rivela e conferma la grave inadeguatezza ad un ruolo primario di responsabilità.

Dobbiamo accrescere il nostro impegno per far votare NO al Referendum in modo da sconfiggere la volontà di cancellare il diritto di voto e di scelta dei cittadini per il Senato e le Province, oltre per salvaguardare gli spazi di partecipazione democratica, incredibilmente colpiti da questa schiforma marcata dal trio Renzi-Verdini-Boschi.

Gioacchino Assogna

Fermiamoci finché siamo in tempo e proviamo a riflettere, di Alberto Benzoni

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Alberto Benzoni

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La lunghezza spropositata di questa campagna referendaria non ne sta migliorando certamente la qualità. Niente più, ammesso che ci sia mai stata, serena discussione tra esperti sul merito della proposta. E nessun chiarimento su alcuni punti dirimenti nel giudizio sulla medesima; che si tratti della legge elettorale o di un eventuale ripristino del meccanismo elettivo per quanto riguarda il Senato.
Stiamo andando, invece, irresistibilmente, verso l’Ok Corral; con la relativa eliminazione dei cattivi da parte dello Sceriffo e dei suoi aiutanti. E stiamo andando, anche, verso la delegittimazione, insieme politica e morale, dell’opposizione attraverso l’attacco personale e indiscriminato nei confronti dei suoi principali esponenti, accusati, in un amalgama del tutto abusivo, non solo di frenare l’avvento delle migliori sorti e progressive dell’Italia ma anche di farla precipitare nel caos e nell’avventura.
Tutto questo non deve indurci al vittimismo o, peggio ancora, a rispondere sullo stesso tono ( “tu attacchi D’Alema e io ti contesto Verdini”). Ma dobbiamo, questo sì,approfondire sino in fondo le ragioni del nostro no: per renderlo più radicale e al tempo meno di parte.
La “spropositata lunghezza”della campagna referendaria deve servire anche a questo. A sentire, e a comunicare agli altri il discrimine di fondo, quello su cui non è possibile alcuna mediazione, che separa i sostenitori del no da quelli del sì. E ad individuare questo discrimine nella visione che si ha dell’Italia: per quelli del sì un “sistema”in concorrenza con altri e da rendere più efficiente; per noi una comunità da rendere migliore.
Oggi, questa comunità è gravemente minacciata: non dal dispositivo del referendum ma dal disegno politico che l’ha determinato. E, ancora, non da Renzi e dal suo governo ma da quello che l’uno e l’altro rappresentano: la cultura e la visione politica della seconda repubblica.
Di referendum l’Italia ne ha visti tantissimi, alcuni dei quali divisivi e determinanti per la nostra collettività nazionale. Monarchia o Repubblica, Divorzio, Aborto. In tutti questi casi i verdetti sono stati accettati dagli sconfitti. E non comportavano né rese dei conti né ferite aperte. Questo, invece, lo si voglia o no, prelude, in caso di vittoria del sì ad una resa dei conti di entità imprecisata e incontrollabile; ed ha già, nel suo stesso svolgimento, intossicato gravemente il clima del paese.
Di referendum, le democrazie occidentali ne conoscevano, almeno sino ad oggi, due tipi: quello, necessariamente concordato tra le forze politiche, tendente a costruire ex novo o a correggere in alcuni punti, l’assetto costituzionale; quello nato da una crisi sistemica e proposto dal leader che possedeva le chiavi per la sua soluzione. In chiaro, da una parte la Costituzione del 1947 e gli emendamenti a quella americana; dall’altra De Gaulle e la sua V repubblica.
Quelli che non conoscevamo, quelli praticati nei paesi di “democrazia illiberale” sono, invece, di tutt’altro tipo: sono proposte varate dal partito o, più spesso, dal Leader al potere e tendono o a prolungare, nel tempo, il suo mandato o ( come in Italia) ad accrescerne i poteri.
Certo, Renzi non è né Putin né Erdogan. E non manderà, in caso di vittoria, giudici o agenti a chiudere “Il Fatto quotidiano”o a silenziare i suoi oppositori. Però la qualità del suo disegno è la stessa; e porta con sé, insieme, la radicalizzazione dello scontro e la totale delegittimazione dell’opposizione. Risuscitando così a suo uso e consumo, quel fattore K, ora P ( sta per populismo) e senza alcuna possibilità di dialogo e di collaborazione.
Da una parte, dunque, il governo senza alternative ( “c’è solo Renzi”nella vulgata dei sostenitori del sì); dall’altra una opposizione accusata di tutto e del suo contrario; di essere conservatrice e di essere eversiva.
E’ un clima irrespirabile. Ma è anche il clima costruito, anno dopo anno, dagli “intelligenti cretini” ( sono i più pericolosi) che hanno presieduto alla nascita della seconda repubblica, curandone i mali con sempre maggiori dosi della ricetta iniziale.
Parliamo, soprattutto, del bipolarismo come sciroppo di Dulcamara atto a rendere politica e politici più efficienti e virtuosi. Scellerata incoscienza in un paese segnato da secoli dal gusto della faida, con la relativa uccisione del vicino. Scellerata incoscienza in un paese che non aveva in sé nessuno dei necessari anticorpi- non il senso dello stato, non il rispetto delle regole, non la presenza di istituzioni e di autorità che godessero la fiducia dei cittadini, non il senso collettivo dell’appartenenza alla stessa collettività.
Scellerata incoscienza in un paese dove non c’era mai stata ( se non agli albori dello stato nazionale) una destra “liberale ed europea” e dove, sull’altro fronte, non avevamo la socialdemocrazia ma un partito che aveva “perso tutto salvo il suo Breil”; leggi il senso di superiorità morale e la spinta incoercibile a “fare politica con altri mezzi” ricorrendo alla magistratura o all’Europa per sbarazzarsi di un avversario che non era stato possibile battere sul terreno elettorale.
In questo quadro Renzi e il quesito referendario appaiono per quello che sono: il tentativo pericoloso di modificare a vantaggio di chi governa le regole del gioco; l’utilizzo senza freni dello schema bipolare; l’avallo definitivo di vent’anni segnati dalla diminuzione dei diritti; e, in conseguenza di tutto questo, l’imbarbarimento del confronto politico e del clima del paese.
Così stando le cose, a chi ci chiede cosa accadrà dopo la vittoria del no, dobbiamo rispondere ” pericolo scampato; linea del Piave difesa. E, adesso fermiamoci tutti; per ragionare, insieme, sul nostro futuro. A partire dalla riscoperta dei valori, dei protagonisti e delle istituzioni della democrazia”.

Albero Benzoni

La democrazia dell’Assemblea Costituente e una legge elettorale efficace (pensiero e politica nel primo Francesco De Martino), di Marco Zanier

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Io credo che parlare di Assemblea Costituente, anche in campo socialista, senza citare chiaramente le idee degli uomini e delle donne che ne hanno fatto parte non sia corretto.

Dico questo perché durante il periodo compreso tra il 25 giugno 1946 ed il 31 gennaio 1948 a discutere, ragionare e materialmente scrivere la nostra Costituzione c’erano delle persone reali, con idee ed impostazioni differenti, ma con un passato condiviso : la lotta clandestina contro il fascismo e gli occupanti tedeschi, combattuta a lungo con le armi e con le idee da fronti politici diversi uniti da una grande voglia di libertà.

Tenere conto di tutte le istanze che vennero portate avanti dalle componenti politiche più differenti ma ugualmente vincitrici del conflitto contro il regime e quindi in grado di sedersi assieme per decidere su quali basi e con quale impostazione organizzare la struttura fondamentale del nostro Stato è un lavoro complesso, enorme, se preso nella sua interezza. Ci si sono impegnate con ottimi risultati menti più duttili e sicuramente più preparate della mia. Non credo sia utile tentare di ricostruirlo in questa sede. Al contrario, penso che possa essere ancora di qualche interesse e certamente di grande attualità riannodare in parte il filo dei ragionamenti che portarono alcuni esponenti di una parte della sinistra, quella che poi contribuì a rimettere in piedi il Partito socialista italiano, ed in particolare di quello che ne sarebbe divenuto presto un protagonista importante e più tardi per tre volte il segretario, dopo aver guidato a lungo il partito al fianco di Nenni: sto parlando di Francesco De Martino.

Nato a Napoli il 31 maggio 1907 da una famiglia della media borghesia, dopo aver frequentato l’Università Federico II di quella città nella Facoltà di Giurisprudenza, in cui insegnava anche Arturo Labriola, esservisi laureato nel 1933 ed essere diventato professore ordinario nel 1941, venendo poi chiamato dall’Università di Bari a ricoprire la cattedra di Storia del diritto romano, Francesco De Martino nel 1943 si era iscritto al Partito d’Azione. L’anno successivo, dopo la liberazione di Napoli, si era schierato all’interno della componente di ispirazione socialista, che aveva in Emilio Lussu il suo principale esponente. Come membro autorevole della corrente di sinistra, in contrasto con la parte più moderata capeggiata da Ugo La Malfa e Adolfo Omodeo, aveva partecipato attivamente al dibattito interno e al congresso di Cosenza nell’agosto di quell’anno, presentando assieme ad Emilio Lussu un ordine del giorno, approvato a larga maggioranza dai delegati, contribuendo alla affermazione di una linea politica più marcatamente socialista ed entrando a far parte dell’esecutivo nazionale. Nel Partito d’Azione sarebbe restato fino al suo scioglimento, confluendo, nel 1947, nel Partito socialista italiano, aderendo alla corrente di Lelio Basso, eletto segretario dopo la scissione socialdemocratica di Palazzo Barberini voluta da Giuseppe Saragat.

È con questa impostazione e queste premesse che Francesco De Martino,che non era ancora eletto in Parlamento (vi entrerà nel 1948 e vi resterà fino al 1983), contribuisce, dall’interno del Partito d’Azione, con proposte ed articoli pubblicati sul giornale di riferimento “L’Azione”, a stimolare alcuni temi oggetto dei lavori dell’Assemblea Costituente, elaborando un suo percorso, a mio avviso interessante, da cui si può capire molto del suo socialismo degli anni seguenti.

Le scelte del giovane Francesco De Martino

Per capire meglio il personaggio ed il contesto politico in cui si trovò ad operare, è utile secondo me, consultare due fonti dirette, vale a dire due testimonianze dello stesso Francesco De Martino rilasciate più tardi in occasione di occasione di studi approfonditi sul Partito d’Azione a Napoli e sul suo ruolo politico in quegli anni. La prima è questa, del 1975:

Nel 1943 chi scrive si era buttato nella lotta politica con l’entusiasmo e la passione di chi per lunghi anni aveva atteso la caduta del fascismo e la restituzione della libertà e nell’insegnamento universitario e nell’attività scientifica aveva trovato una certa tranquillità della coscienza di fronte alla miseria dei tempi. La scelta del P d’A fu una scelta per questa rottura ed anche per qualcosa di nuovo, di diverso dai vecchi partiti, che quasi ragazzi avevamo visto dissolversi nel 1922-25 e che coscientemente o meno ritenevamo responsabili per errori o debolezze della vittoria del fascismo. La questione istituzionale si poneva a noi come un’esigenza morale prima ancora che politica, una necessità della nostra coscienza. […] 1

La seconda è questa, del 1991:

Ma allora perché non eravate andati col Partito socialista? Si potrebbe obiettare. Perché non ci credevamo, perché credevamo che il Partito socialista fosse il responsabile o uno dei responsabili degli errori compiuti all’avvento del Fascismo e anche perché, come partito, non singole personalità attive nella lotta, era stato assente in Italia durante il periodo clandestino. Per queste ragioni, cercavamo qualcosa di nuovo: perciò molti intellettuali e non, me compreso, che si sentivano tendenzialmente socialisti, scelsero il Partito d’azione e non il Partito socialista. Errore grave di analisi e valutazione, perché evidentemente non avevamo valutato un altro elemento che non dovrebbe essere assente in nessuna ricerca storico-politica, cioè la grande forza di una tradizione che spingeva verso il Partito socialista un’infinità di persone che non aveva saputo niente della politica perché nata e vissuta sotto il Fascismo, ma aveva sentito dai padri, dagli antenati, vagamente parlare di questo socialismo e che intravedeva nel socialismo lo strumento per realizzare un’ansia di uguaglianza, di libertà, di progresso. […]2

Insomma il giovane professore universitario e futuro segretario del PSI Francesco De Martino, negli anni dell’Assemblea Costituente era entrato nel Partito d’Azione per creare qualcosa di nuovo e di utile al Paese, non conoscendo la reale portata dell’attrattiva che il socialismo italiano esercitava ancora su tantissime persone e soprattutto, aggiungo, ignorando il grandissimo lavoro politico clandestino che portato avanti negli anni Trenta soprattutto nell’Italia settentrionale dal Centro socialista interno guidato per tanti anni da Rodolfo Morandi e che aveva visto tra le sue fila Lelio Basso, Eugenio Colorni, Lucio Luzzatto ed Eugenio Curiel3.

Una testimonianza autorevole e diretta, la voce narrante di Gaetano Arfé, lo storico più importante del socialismo italiano, ci aiuta disegnare con chiarezza i contorni del socialismo meridionale di quegli anni4:

Il Sud ha conosciuto gli eccidi contadini nell’età giolittiana, ma la violenza squadristica è stata episodica e localizzata e non vi ha creato i fermenti necessari allo sviluppo di una cospirazione potenzialmente di massa, non vi è passata la resistenza. […] Tra le eredità di segno negativo è anche quella che Napoli non è mai stata il centro di irradiazione di idee e di impulsi all’azione in direzione delle altre regioni del Mezzogiorno e della sua stessa provincia. […] Non stupisce perciò che negli anni del fascismo il socialismo sopravviva soltanto in alcune figure di rilievo, tra le quali il salernitano Luigi Cacciatore, prematuramente scomparso, ed il lucano Oreste Lizzadri, operante però a Roma, avranno parte di primo piano nella condotta del partito e del movimento sindacale nei primi anni della repubblica. Noti alla polizia e vigilati, isolati e senza rapporti tra loro, relegati in un ambiente dove il socialismo, come il Cristo di Carlo Levi, fuori che in pochi casi si era fermato alle soglie delle campagne ed era mal penetrato anche nelle città, privi di riferimenti specifici ai temi meridionalistici, nella tradizione socialista, i socialisti meridionale non riescono a costruire l’embrione di un gruppo potenzialmente dotato di un autonomo sviluppo.

Un clima non propizio all’emergere di figure nuove interessate a far rinascere il socialismo nel Meridione, se non fosse che, come spiega ancora Arfé:

Il richiamo al socialismo può essere a questo punto riproposto in una dimensione che travalica i confini politici del partito e quelli geografici del Mezzogiorno. Nel meridionalismo della sinistra confluiscono infatti, in un clima di appassionato impegno, i motivi della antica polemica salveminiana che dall’interno del movimento socialista aveva preso le mosse e quelli maturati nella Torino operaia di Gramsci e di Gobetti, gli studi e le riflessioni del gruppo di giovani comunisti raccolti da Amendola, addottorati più d’uno di essi presso la facoltà di Agraria di Portici, e le esperienze nazionali e internazionali di rivoluzionari professionali quali Di Vittorio e Grieco.

Quindi se non nel Partito socialista (poco radicato nel Meridione e senza i fermenti necessari che portarono il Settentrione alla Resistenza) ma dall’interno del Partito d’Azione stando bene attento all’attrattiva forte che esercitava il socialismo su moltissime persone, se non nel clima culturale assonnato della sua Napoli ma nel meridionalismo della sinistra, inteso anche in chiave gramsciana, con lo sguardo rivolto a quello che si muoveva a sinistra nel Sud del Paese, di cosa parlava il giovane Francesco De Martino negli anni cruciali che vanno dall’armistizio alla caduta del fascismo? Guardava alla necessaria fondazione della Repubblica italiana, come uomo di sinistra sempre più vicino al socialismo, consapevole dei problemi seri e complessi che bisognava impostare e risolvere. Così affrontava in quegli anni la responsabilità di porre i problemi più importanti del nuovo Stato italiano in costruzione, magari per poterlo governare quanto prima insieme alle altre forze della sinistra.

Il ruolo dell’Assemblea Costituente

In pratica, il tema fondamentale di quegli ani non era il meridionalismo, ma era la Repubblica e per la Repubblica ci si batteva, oltre che nelle questioni interne per la definizione del partito5.

È con questo spirito che guardava all’Assemblea Costituente. Ma questa cos’era esattamente? Una definizione efficace ce la fornisce proprio lui nel 19456:

L’Assemblea costituente è un organo sovrano, al quale il popolo conferisce, per mezzo delle elezioni, i più ampi poteri rispetto alla formazione del nuovo Stato italiano. Non si può porre alcun limite preventivo a quest’organo: il potere di sovranità ad esso conferito è illimitato per sua natura ed essenza. Esso è molto più vasto dei poteri di un qualunque capo di stato, perché questo è sottoposto a leggi preesistenti mentre la Costituente non è sottoposta a nessuna legge costituzionale, in quanto essa è la fonte delle leggi costituzionali. […] Com’è ovvio, la posizione sovrana dell’assemblea costituente non può confondersi con quella di un qualunque organo dispotico, perché essa deriva i suoi poteri dal popolo, convocato da liberi comizi, è destinata ad una vita del tutto tranquilla e di breve durata, è composta dai rappresentanti di tutti i partiti, e garantisce ad essi il pieno rispetto del metodo democratico.

L’Assemblea Costituente era stata creata per dare vita alla Carta fondamentale dello Stato italiano ed aveva poteri superiori a qualsivoglia governo perché il suo mandato derivava dal popolo e si esprimeva attraverso il confronto democratico dei rappresentanti di tutti i partiti. Una precisazione che oggi, in tempi di riscrittura e stravolgimento dell’impianto complessivo della Costituzione da parte della sola maggioranza di governo risulta ancora molto molto utile ed attuale.

La ricerca di una legge elettorale efficace

L’altro tema da chiarire oggi, sfogliando le carte del Francesco De Martino non membro della Costituente ma del Partito d’Azione napoletano, è quali problemi si ponesse nell’affrontare la creazione di una legge elettorale giusta ed efficace. Molto utile, a questo fine, è continuare la lettura di quello stesso articolo:

È noto che, a grandi linee, i sistemi elettorali possono dividersi in due categorie: quelli che lasciano le minoranze senza tutela e quelli che ad esse riconoscono una rappresentanza più o meno adeguata alla loro entità. I primi hanno il vantaggio di permettere quasi sempre la formazione di maggioranze compatte ed omogenee, le quali nelle democrazie parlamentari possono esprimere governi forti ed autorevoli. Ma essi hanno il grave difetto di opprimere le minoranze e di trasformarsi in veri e propri strumenti di potere egemonico e dispotico del partito più forte, con il pericolo implicito di spingere le minoranze sul terreno della lotta illegale e rivoluzionaria. I secondi hanno vantaggi e vizi precisamente opposti. Essi assicurano una larga tutela alle minoranze, creano una rappresentanza politica che rispecchia fedelmente le divisioni del paese e consolidano il gioco normale della democrazia, che consiste nel perenne alternarsi delle varie correnti politiche al potere. Ma, soprattutto in paesi dove mancano grandi partiti politici con ricche esperienze e solide tradizioni, quei sistemi producono il frazionamento dei gruppi parlamentari, donde consegue la necessità di governo di coalizione, con tutti i mali connessi alle coalizioni politiche, vale a dire debolezza del potere centrale, tendenza piuttosto all’accordo sul non fare che all’accordo sul fare, soprattutto frequenti e lunghe crisi di governo.

Ma allora se i sistemi elettorali che non tutelano le minoranze, che danno via a governi forti, non vanno bene perché spingono implicitamente le minoranze alla lotta illegale ed alla prassi rivoluzionaria, se quelli che tutelano di più le minoranze non vanno bene perché danno vita ad esecutivi deboli, all’alternarsi di differenti correnti politiche al potere e spesso basati sull’accordo sul non fare tipico delle coalizioni, cosa aveva in testa nell’immediato secondo dopoguerra e cosa proponeva all’attenzione dei lettori de «L’Azione» ?

Un’ approfondimento di questi limiti lo troviamo in un altro suo intervento, un inedito non concluso, datato 1946, che è un lungo e articolato ragionamento sui molti aspetti che doveva, secondo lui, risolvere in tempi brevi l’Assemblea Costituente7:

Ma il problema della rappresentanza non è autonomo. Esso va collegato con l’altro problema, non meno importante e fondamentale, della costruzione degli organi dell’esecutivo. L’esperienza storica ci ha insegnato che questi due problemi richiedono il più delle volte soluzioni contrastanti. Più fedele è la rappresentanza e più è difficile creare un governo che sia unito nella volontà di realizzare una politica omogenea. Nella migliore delle ipotesi il governo sarà paralizzato da forze antitetiche, che non riescono ad intendersi su di un minimo di azione collettiva. La grande crisi italiana, che aprì la strada al fascismo nel 1922, fu anche la crisi di un esecutivo debole e paralizzato dalla mancanza di omogeneità. […] Non credo sia il caso di fermarsi nel collegio uninominale. Esso è condannato nella coscienza civile del nostro paese da una lunga esperienza negativa. Indubbiamente attraverso quel sistema si affermarono forti personalità di politici e di statisti, sia in campo conservatore che in campo democratico. Ma si affermarono anche interessi particolaristici, clientele, grossi personalismi che furono causa di corruzione del metodo liberale e fecero degenerare il parlamento.

Ed in questo stesso intervento, poco più avanti, troviamo alcune risposte ai dubbi che ci sono sorti leggendo:

Si potrebbe altresì stabilire un limite al potere dell’assemblea di porre il governo in minoranza, richiedendo maggioranze qualificate e vietando che si abusi delle questioni di fiducia nei dibattiti secondari. […] tutte le minoranze devono essere rappresentate, ma il partito più forte deve essere in grado di governare da solo cioè di avere un numero di seggi che gli permetta di assicurarsi una maggioranza nell’ assemblea.

Rispetto delle differenti opinioni espresse dal voto popolare, rappresentazione di tutte le minoranze in Parlamento, ricerca di un meccanismo che consenta con chiarezza la governabilità del Paese al partito più forte uscito dalle urne. Questi i problemi sul piatto messi da De Martino nel 1945 e 1946.

Su questi temi ritornerà più tardi, negli anni dei governi di centro-sinistra, nel 35° Congresso del PSI del 19638, poco prima di essere nominato Segretario del Partito9:

Esiste, certo, in tutti i paesi d’Europa un problema di efficienza del potere legislativo. Le misure di massima che vengono indicate, non sono rivolte ad accrescere il potere del Parlamento, ma se mai – e questo si potrà constatare nel corso dell’azione legislativa – si risolvono nel liberare il Parlamento di cose secondarie e minute, per riservargli grandi compiti che gli sono propri, in una fase in cui si affronta per la prima volta una esperienza di programmazione economica.

Quindi è impostando la grande opera riformatrice del governo Moro, il primo che vedeva la partecipazione dei socialisti al potere accanto ai democristiani e l’inizio della fondamentale stagione del centro-sinistra che avrebbe ridisegnato con Tristano Codignola il profilo della scuola media pubblica e sancito i diritti fondamentali di tutti i lavoratori nello Statuto voluto da Giacomo Brodolini, che l’allora vice- segretario del PSI Francesco De Martino si poneva il problema di accrescere il potere del Parlamento per impostare coerentemente la programmazione economica. Esattamente l’opposto di quello che sta facendo oggi il governo Renzi con riforme contro gli interessi della scuola pubblica e contro gli interessi della grande massa dei lavoratori che si sono visti mutilare i loro diritti da leggi approvate a colpi di maggioranza ottenuta con la fiducia imposta dal governo al Parlamento su un programma di fatto conservatore portato avanti da un partito fintamente democratico coi voti determinanti di elementi di centro-destra.

La scelta obbligata dei socialisti oggi

Oggi gli italiani sono chiamati a decidere nel Referendum costituzionale del 4 dicembre se scardinare, votando SI, l’equilibrio costituzione garantito dai pesi e i contrappesi accuratamente elaborati dall’Assemblea Costituente o difendere questi delicati equilibri che permettono il rispetto del gioco democratico e il pluralismo, votando NO. I socialisti come noi non possono avere dubbi: dobbiamo votare e far votare NO.

Lo dobbiamo alla nostra lunga storia che va da Filippo Turati a Rodolfo Morandi, da Lelio Basso a Francesco De Martino, da Giacomo Brodolini a Tristano Codignola, da Riccardo Lombardi a Vittorio Foa. Lo dobbiamo al nostro essere stati la prima forza della sinistra nata in Italia più di centoventi anni fa ed aver voluto ricostruire l’unità del movimento operaio elaborando e praticando un’alternativa credibile al governo dei poteri forti e degli interessi dei pochi contro le necessità della maggioranza che lavora con fatica sperando di avere un giorno una vita migliore.

Lo dobbiamo a Francesco De Martino, che ancora nel 1988 ricordando l’amico e compagno di strada Giacomo Brodolini10 e i governi di centro-sinistra, condannava la tentazione della scorciatoia autoritaria:

Allora vuol dire che se c’è una volontà politica, se vi sono degli uomini impegnati che credono in certe cose non è detto che il sistema parlamentare debba essere lento ed inefficiente; lo diviene se non c’è omogeneità, se non vi è intesa, se manca una seria volontà politica di affrontare insieme i problemi del paese. Certo un regime autoritario non ha i freni della democrazia ed i ritardi che essi comportano, ma può condurre a grandi catastrofi per decisioni prese da una sola persona, come l’esperienza insegna.

Marco Zanier

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1 Dalla sua prefazione al libro di Antonio Alosco «Il partito d’azione a Napoli», Guida editore, Napoli 1975 (pp. 7- 8)

2 Dal suo intervento in «La sinistra meridionale nel secondo dopoguerra (1943-54) Giornate in onore di Francesco De Martino», Istituto socialista di studi storici, Firenze 1991 (pp. 115-116)

3 Un lavoro coraggioso sul campo, in contatto con le fabbriche in tempi difficilissimi sotto lo stretto controllo della polizia politica fascista che proprio con quel centro clandestino si accanì più volte incarcerando i suoi dirigenti più volte e stroncando la rete di collegamenti creata per anni faticosamente, ma un lavoro che il giovane Francesco De Martino, attivo ed operante nel meridione non poteva conoscere nel 1943, dato che era ancora in piedi il regime fascista e la sua terribile censura e dato che Rodolfo Morandi era in carcere dal 1937, proprio per aver organizzato la rete politica clandestina socialista in Italia dopo il fallimento di Giustizia e Libertà. Ne ricorderà però la figura molti anni dopo, nel 1980, in un memorabile discorso, facendo luce su tanti aspetti importanti della sua vita politica

4 Dall’intervento di Gaetano Arfé nel già citato «La sinistra meridionale nel secondo dopoguerra (1943-54) Giornate in onore di Francesco De Martino» (pp. 1-8)

5 Sono le parole di Francesco De Martino, riferite al Partito d’Azione, nal suo intervento nel già citato «La sinistra meridionale nel secondo dopoguerra (1943-54) Giornate in onore di Francesco De Martino» (p. 116)

6 «I problemi della costituente», pubblicato su «L’Azione» il 3 e il 10 agosto 1945, ora in Francesco De Martino, «La mia militanza nel Partito d’Azione (1943-1947» a cura e con introduzione di Antonio Alosco, Piero Lacaita editore, Manduria- Bari- Roma, 2003 (pp. 124-132)

7 «La Costituzione di uno Stato moderno», in Francesco De Martino «La mia militanza nel Partito d’Azione (1943-1947)», cit. pp. 181-186

8 Dal suo intervento al 35° Congresso Nazionale del PSI – Roma 25- 29 ottobre 1963, pubblicato in «Francesco De Martino Scritti politici (1943- 1963) Vol. I», a cura di Antonio Alosco e Carmine Cimmino, Guida editori, Napoli 1982 (p. 262)

9 Nell’utilissima cronologia «Cento anni del Partito Socialista Italiano» di Franco Pedone con prefazione di Gaetano Arfé, pubblicato da Teti Editore nel 1993 si legge in proposito alla data del 12 dicembre 1963: La Direzione del Partito socialista nomina F. De Martino segretario del Partito, G. Brodolini vice-segretario e R. Lombardi direttore dell’«Avanti!» (p.212)

10 Dalla commemorazione di Giacomo Brodolini tenuta il 30 aprile 1988 da Francesco De Martino, nell’Aula Magna del Comune di Recanati su invito della Fondazione Brodolini, ora in «Socialisti e comunisti nell’Italia repubblicana», a cura di Chiara Giorgi con presentazione di Gaetano Arfé, La Nuova Italia, 2000 (pp. 137-158)