Voto
NO al taglio dei parlamentari. di Alberto Angeli
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E quindi il segretario del PD, Zingaretti, esprime contrarietà al referendum: “Non condivido quel referendum e credo sia stato un errore sottoscriverlo, anche se rispetto chi lo ha fatto, anche nel Pd. Abbiamo votato sì alla riforma non perché convinti, ma perché era nell’accordo di governo, assieme a garanzie di cui tutti ora si devono fare carico. Ma rischia di diventare un referendum sul parlamentarismo, in tempo di populismi”; questo è quanto dichiara all’assemblea Nazionale del PD di sabato 22. E a questa rivisitazione perviene dopo che per ben tre volte in aula il PD ha votato NO. Poi, alla quarta votazione e a governo giallo-rosso già formato, ha votato si. Un ravvedimento intervenuto non per guadagnare un oscar alla coerenza ( come dice Osca Wilde: la coerenza è l’ultimo rifugio delle persone prive d’immaginazione), per convinzione, poiché serviva a chiudere la trattativa con di Maio, al quale concedeva l’occupazione di poltrone di prestigio e il taglio dei parlamentari da assumere come simbolo dell’anti casta ( un puro atto populista e contro la democrazia parlamentare ).
“Altra causa del discredito del Parlamento è la propaganda di tipo squisitamente fascista che certi giornali e certi partiti continuano a fare anche oggi contro le istituzioni democratiche e più in generale contro ogni forma di libera attività politica: il qualunquismo, prima di diventare un partito che mostra riprodotte in se stesso e ingrandite le pecche e i travagli che quando sorse rimproverava agli altri partiti, non ebbe da principio altro programma che quello, essenzialmente negativo, della insofferenza e della cieca ostilità alla politica, ed ebbe qualche fortuna in certi ceti proprio perché, invece di affaticare il pubblico col forzarlo a pensare a difficili problemi d’ordine generale, lo chiamava allo spassoso tirassegno (tre palle un soldo), consistente nel ricoprire di fango e di contumelie personali gli uomini politici di tutti i partiti al potere. Così nel pubblico, sempre avido di scandali e sempre pronto a credere alla altrui disonestà, si va sempre più diffondendo la convinzione che il Parlamento sia una scelta di ciarlatani ed affaristi, che, colla scusa del bene del popolo, non hanno altro scopo che quello di arricchirsi alle sue spalle”. Queste sono le parole di PIERO CALAMANDREI,, tratto da un breve saggio titolato: “ Patologia della corruzione parlamentare”, edito da Storia e Letteratura, riportate allo scopo di comprendere il grigiore, la nullità del pensiero dei nostri rappresentanti, rispetto alla grandezza e lucidità intellettuale di uno dei più noti e studiato tra i fondatori della nostra democrazia Parlamentare.
Certamente tra i 5Stelle e la democrazia c’è una rivalità insanabile. Già nel giugno 2013 Grillo si scaglia contro la Presidente Boldrini dichiarando che il Parlamento non serve a nulla: «La scatola di tonno è vuota»; «potrebbe chiudere domani»; «é un simulacro»; «la tomba maleodorante della Seconda Repubblica». Mentre nel giugno 2018, a Roma, grida: “«Parlamentari estratti a sorte “, oppure : “Dobbiamo capire che la democrazia è superata”. Ecco con chi governa il PD! Al netto di Renzi e del Conte II, al PD sembra non rimanere che inseguire i 5stelle sul terreno del populismo. Queste cose Zingaretti le conosce sicuramente, ma per convenienza le ignora. Una convenienza perigliosa, che mette in pericolo la democrazia e la rappresentanza parlamentare, poiché con il taglio dei parlamentari si determina un vulnus al cittadino/elettore, al quale viene sottratto il diritto di scegliere il rappresentante da votare. Infatti, con la ridisegnazione dei collegi più grandi degli attuali si determina un distacco tra elettore e candidato. Inoltre, si tratta di una riforma oligarchica poiché consegna la cosa pubblica nelle mani di pochi eletti e delle segreterie dei partiti. Anche l’elezione del Capo dello Stato potrebbe subire alterazioni costituzionali, palesandosi infatti la possibilità che sia una maggioranza di una parte politica a dominare nella sua elezione; un pericolo possibile potrebbe generarsi inoltre dal voto dei parlamentari nella Circoscrizione estero, tale da risultare decisivo nella tenuta deli governi. Queste sono solo alcune delle indicazioni da richiamare a sostegno del NO al taglio dei Parlamentari, che sono comunque l’essenza di una fondata linea alternativa alla politica di aggressione alla democrazia e al modello rappresentativo che i nostri Padri costituzionali hanno deliberato e lasciato a noi come eredità da difendere ad ogni costo.
Zingaretti si propone di cambiare il PD, anche nel nome, e di aprire il nuovo soggetto alla società, ai movimenti, ma non riesce ancora a liberarsi della sua anima integralista, la quale esercita una prevalente capacità di orientamento e spinge il partito in una direzione che lo allontana dal mondo del lavoro, ne annichilisce la reazione di fronte alla prepotenza dei 5stelle sui temi della sicurezza, della prescrizione, sull’accoglienza e integrazione, sulla riforma del mercato del lavoro e la lotta contro le diseguaglianze; la riforma della scuola, dell’università, investimenti a favore della ricerca, magari rivedendo l’assegno di cittadinanza universalizzando il Welfare, rivedere il sistema pensionistico anche alla luce del fenomeno demografico, introducendo un massimo di pensione e un minimo, applicare alla contrattazione il principio dell’erga homnes. Che, per il cambiamento auspicato, sono i punti possibili di un programma sul quale misurare e calibrare la proposta di un progetto per un nuovo modello di sviluppo.
C’è una contraddizione logica nella linea di Zingaretti, quando afferma di volersi impegnare per la trasformazione del PD aprendo alla società, a cui però fa seguire la sua contrarietà al referendum contro il taglio dei parlamentari ( ma non è il popolo il depositario della democrazia?), che non potrà risolvere permanendo irretito in una visione politica che non disegna, per il paese, una prospettiva di cambiamento rivoluzionario rispetto alla realtà in cui si trova ad operare. Allora, se proprio volesse dare prova di una volontà gramsciana mettendo in atto una prassi dialettica promuova e organizzi un rasselmblement aperto alla partecipazione delle forse riformiste, di sinistra, ai movimenti e al mondo del volontariato con all’ordine del giorno alcuni punti programmatici identificabili con un progetto di trasformazione del modello economico, sociale e culturale del paese. Non inventi un nome, non si affanni alla ricerca di nuovi ideali, poiché il socialismo è la risposta e l’unica vera alternativa sulla quale fondare la ragione di un impegno politico e di lotta da offrire ai lavoratori, ai pensionati, al mondo della creazione, della cultura e della ricerca. Insomma a quella parte migliore del nostro popolo che non intende arrendersi alla destra nazionalista e populista, e che sicuramente saprà riflettere anche in questo momento in cui è chiamata a decidere il suo futuro, votando NO al taglio dei parlamentari.
Alberto Angeli
Più democrazia. di Emanuele Cherchi
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Una grande distanza mi separa da coloro che propongono di diminuire il numero dei parlamentari: forse perché risparmiare un caffè l’anno non è un gran risparmio rispetto al danno di avere meno democrazia.
Ma la proposta non viene dai 5 Stelle alfieri della democrazia diretta? In realtà la proposta era anche di Gelli (che tanto democratico non era) e poi se andiamo a vedere quando si parla di democrazia ideale il modello è Atene, l’Atene di Pericle dove fiorivano le arti e dove tutti i cittadini venivano pagati per partecipare all’agorà (l’assemblea generale) o alle altre commissioni (bule, arcontato, ecc…) mentre i 5 Stelle fanno l’opposto ovvero non danno uno stipendio a tutti per essere partecipi ma piuttosto tengono alto lo stipendio per i pochi che rimarranno e che conteranno zero in quanto le storture del metodo elettorale (la mancanza di preferenze) li pone in una posizione di sudditanza verso chi li nomina.
La democrazia attuale non può essere diretta come quella ateniese perché lo stato si è evoluto ed è veramente difficile far interagire 60 milioni di cittadini… e la piattaforma Rousseau non risolve il problema in quanto non pone tutte le opzioni sullo stesso piano e dunque i suoi risultati risultano falsati.
Piuttosto più democrazia significa che le persone pagate per far politica non devono essere poche ma abbastanza da avvicinare le istituzioni alla politica; partendo da questo presupposto faccio notare che negli ultimi trentanni si è diminuito il numero dei consiglieri comunali (dimezzato), quello dei consiglieri regionali, si è fatta la porcata delle province e non per questo i cittadini sono più soddisfatti, anzi!
Dunque le possibilità per soddisfarli sono due: un uomo solo al comando (costa in teoria poco, ma come ci ricorda la parabola del Duce o quella del Fuhrer può portare a degli inconvenienti) o aumentare la rappresentanza democratica per coinvolgere veramente le persone nel governo della cosa comune.
Con ciò voglio dire apertamente ripristinare le cose come erano prima nei comuni, nelle province, nelle regioni. Promuovere l’istituzione dei quartieri, la sola dove forse si potrà non pagare chi ne fa parte. Mentre gli altri è giusto pagarli, purché agiscano informandosi su ciò che votano, senza vincolo di mandato in quanto non sempre gli elettori conoscono la situazione delle risorse degli enti e dei loro effettivi poteri, a volte un’azione che sembrerebbe nella forma rispettare un patto col cittadino nella sostanza lo tradisce. Sappiamo che i consiglieri comunali vengono rimborsati per il tempo che perdono e posso avere dei permessi per svolgere la loro attività: ciò è giusto in quanto in questo modo posso informarsi su ciò che votano e non affidarsi all’estro del capo locale del loro partito, le persone che hanno le loro giornate lavorative piene (anche fra coloro che votano su Rousseau) riescono ad avere il tempo per far altrettanto?
La democrazia costa ma quando funziona è il miglior sistema di governo e per questo le destre in genere cercano di infangarla per non permettere al popolo di contare.
Quando mi parlano del Senato del Regno d’Italia che non costava una lira ai contribuenti perché era un onore farne parte, ricordo che ne facevano parte solo ricchi e nobili: banchieri, avvocati, generali, uomini di chiesa… se quel modello è stato superato è perché la gente comune ha chiesto di contare qualcosa, perché il talento e la ricchezza non sempre vanno di pari passo, e ricchezza (di pochi) e bisogni di tanti non possono essere amministrati da quei pochi che sono ricchi appunto!
Emanuele Cerchi
tratto dal sito: https://www.nuovatlantide.org/
Referendum sul Tagliapoltrone: l’antipolitica viene da lontano. di Riccardo Achilli
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Nel referendum sulla riduzione dei parlamentari quasi sicuramente vincerà un sì, non motivato da argomenti razionali, ma da una sordida rabbia per la Kasta ed un irrefrenabile individualismo, nel quale i presunti ed illusori risparmi economici da riduzione dei parlamentari assumono una veste simbolica di riduzione dello spazio pubblico a vantaggio di quello privato, di contrazione dello spazio collettivo, legata alla spesa pubblica ed agli organi di rappresentanza, a vantaggio di quello individuale, che rivendica spazi di libertà fiscale.
Si tratta, insieme alla piratesca e perenne riproposizione di forme di premierato, dell’ultimo frutto avvelenato di una stagione antipolitica, nella quale sguazzano a loro agio gli interpreti della pancia rancorosa ed individualista del Paese: Renzi, Salvini, i pentastellati.
Sarebbe tuttavia un errore grave, in prospettiva storica, associare a questo periodo particolarmente tormentato della nostra storia il vento dell’antipolitica. L’antipolitica è una costante storica del nostro popolo. La troviamo negli sciagurati che tifavano per la magistratura eterodiretta nel periodo di Tangentopoli, in certe tonalità bonapartiste e liquidatrici del tardo craxismo, nella formulazione compiutamente antipolitica, anti istituzionale e individualista del Fronte dell’Uomo Qualunque di Giannini nel secondo dopoguerra, nei bivacchi di manipoli e nell’antiparlamentarismo viscerale del fascismo, nell’anarchismo eversivo tardo ottocentesco ed in alcuni tratti del garibaldinismo e potremmo risalire ancora, fino a Masaniello.
Tale costante culturale e psicologica che si agita nell’ombra del popolo italiano tende ad emergere nelle fasi di crisi o di transizione, dove lo Stato ed i suoi apparati vengono vissuti come una odiosa elite che sottopone il popolo ad odiose restrizioni, tasse esagerate o grandi iniquità. Tende invece a sparire sottotraccia nelle fasi di stabilità politica e sociale, come ad esempio il lungo periodo giolittiano o i Trenta gloriosi sostituito, però, almeno in larghi strati della popolazione, da una forma di passività, di inerzia e disinteresse rispetto alla politica, che evidenzia come essa se ne senta comunque lontana, anche nelle fasi più favorevoli.
I motivi di questo peculiare antistatalismo ed antipoliticismo degli italiani sono complessi, a mio modo di vedere derivano dallo sgretolamento dell’unità politico amministrativa dell’Impero romano, a partire dalla quale non si ebbe più uno Stato unitario nazionale, dalla lunga dominazione di popoli e Stati stranieri, che crearono entità statuali non sentite come proprie dai sudditi, dalla influenza nefasta del lunghissimo confronto tra Chiesa secolarizzata e Impero, che insegnarono agli italiani una visione opportunistica, trasformista e violenta dello Stato, all’azione colonizzatrice della monarchia sabauda, che unifico’ il Paese sottomettendolo militarmente e reprimendone brutalmente ogni istanza autonomistica, creando una lunga onda di risentimento ed estraneità dagli apparati statali, specie nel Sud Italia.
Ma, al netto delle ragioni di tale atteggiamento, esso esiste, si manifesta in modo esplicito e distruttivo nelle fasi di crisi, quasi come fosse una specie di rimedio catartico all’angoscia sociale tipica di tali fasi. E si presenta anche oggi, che siamo in una fase di crisi e transizione.
Essendo parti integranti del nostro modo di essere, l’antipolitica e l’antikasta non si possono battere, si possono però tenere sotto controllo. Perché se non controllata, tale tendenza produce o fasi reazionarie (vedi fascismo) o spinge chi vi si oppone a costruire, per autodifesa e per spegnere il dissenso distribuendo qualche briciola, a forme di politica trasformistiche e consociativo/corruttive (vedi Giolitti e Dc nelle fasi in cui hanno dominato).
Questa tendenza si tiene sotto controllo educando le masse, come si sarebbe detto in tempo, ovvero inserendole dentro sistemi politico culturali che esaltano la dimensione collettiva e solidale non in antitesi, ma in parallelo a quella individuale, come fossero due dimensioni coeve e mutuamente alimentantisi, come fecero il socialismo, il comunismo, il repubblicanesimo e il cattolicesimo sociale.
E si controlla portando il Paese fuori dalla crisi: a pancia anche solo per metà piena, ma con un futuro garantito, l’italiano medio tende a delegare la gestione politica, a tollerarla, quindi a non rivendicare lo smantellamento degli organi istituzionali e dei corpi intermedi.
Riccardo Achilli
tratto dal Blog personale dell’autore https://achilli.blogspot.com
Un NO fermo e convinto al taglio dei parlamentari. di Alfonso Gianni
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Poiché si tratta di referendum su norme costituzionali non è necessario il raggiungimento di alcun quorum. In altre parole l’esito dipenderà dal rapporto fra i No e Sì, qualunque sarà ilnumero dei votanti. I sostenitori del Sì ritengono l’esito scontato perché i parlamentari non sono popolari, dopo anni di campagna qualunquista e populista. Certo: la battaglia è difficile. Ma il No intende intraprenderla con decisione, anche perchè non è detto che gli elettori del Pd e di Leu siano d’accordo con il voto dato nell’ultima votazione dai loro rappresentanti, dopo che per tre volte avevano votato contro. Non è la prima volta che i cittadini votano su quesiti referendari che concernono anche la riduzione dei parlamentari e sono stati sempre respinti. Mi riferisco alle revisioni costituzionali proposte dal centrodestra che prevedevano, tra le altre cose, una Camera di 518 deputati (elettivi) e un Senato di 252 membri: il referendum popolare del 2006, superando persino il quorum dei votanti che non è necessario, bocciò la legge di revisione costituzionale. La stessa cosa successe nel 2016 alla legge Renzi-Boschi, che, lasciando inalterato il numero dei deputati, riduceva il Senato a 95 membri elettivi di secondo grado (eletti dai Consigli regionali o provinciali autonomi).
Il taglio dei parlamentari lede il principio della rappresentanza politica. Infatti meno sono gli eletti e più distante è il loro rapporto con gli elettori e il territorio. E’ possibile fare una comparazione fra i paesi Ue, relativamente alla camera bassa, mentre per quella alta, il Senato, è cosa è impossibile data la diversità tra i vari paesi sul metodo di elezione e le funzioni dell’organo. Ora l’Italia risulta avere un numero di deputati per 100mila abitanti pari a 1 (96.006 abitanti per deputato) di un decimale superiore a Germania (0,9), Francia (0,9), Paesi Bassi (0,9) e di due rispetto alla Spagna (0,8). Tutti gli altri paesi, la maggioranza, sono al di sopra. Se entrasse in vigore la legge su cui è indetto il referendum, la percentuale italiana scenderebbe allo 0,7, inferiore a tutti gli altri paesi della Ue.
Abbiamo certamente bisogno di un Parlamento efficiente. Come è noto nel processo legislativo è cruciale il ruolo delle commissioni permanenti (14 alla Camera e 12 al Senato). Cui poi si aggiungono le varie Giunte, le commissioni speciali o straordinarie, le bicamerali. Le commissioni possono agire in sede referente (discutono un testo, nominano un relatore e lo affidano alla discussione e alla votazione finale all’aula plenaria), oppure in sede redigente ( la commissione vota sugli emendamenti e consegna all’aula un testo finale su cui essa vota articolo per articolo e sul testo complessivo), o in sede legislativa (dove la commissione si sostituisce in toto all’aula e vara la legge). Riducendo il numero dei parlamentari si lascia il processo legislativo in mano a pochi di pochissimi partiti. A un’oligarchia.Qualcuno dirà: riformeremo i regolamenti diminuendo il numero delle commissioni. Ma in questo modo si accorperebbero le materie ledendo il principio della specializzazione di competenze su cui le commissioni sono state previste e organizzate. In altre parole una simile riduzione dei parlamentari impedirebbe al Parlamento di funzionare correttamente.
Anche ora il Parlamento ha problemi di funzionamento. Ma non perché i suoi membri sono troppi. Questo deriva da un lato dalla pletora di decreti legge che il governo emana, dall’altro dalle leggi elettorali incostituzionali che si sono susseguite in questi anni, che hanno introdotto pesanti distorsioni maggioritarie e hanno impedito ai cittadini di scegliere i propri rappresentanti,giungendo così a un Parlamento di “nominati”. Il significato del No il 29 marzo è anche quello di chiedere una legge proporzionale pura con libera scelta da parte dei cittadini degli eletti. L’attuale proposta di legge in discussione alla Camera, il cosiddetto Germanicum, non garantisce nessuna di queste condizioni. La solidità dei governi – la famosa governabilità – non deriva dalla restrizione di democrazia, dalla riduzione del Parlamento a un esecutore dei voleri del consiglio dei ministri, ma al contrario da una corretta rappresentanza politica dei cittadini, che rende il Parlamento autorevole. Il risparmio che si otterrebbe con il taglio dei parlamentari equivale allo 0,007% del bilancio statale. Circa 1, 35 euro per singolo cittadino: un caffè all’anno. Se si volesse veramente risparmiare basterebbe, ad esempio, bloccare l’acquisto degli aerei di guerra F35.
Il NO ancora una volta è chiamato a difendere la Costituzione e la democrazia.
Alfonso Gianni
tratto dal sito: http://www.coordinamentodemocraziacostituzionale.it/
Diminuire i parlamentari non aiuta la democrazia. di Alessandra Algostino
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Il 29 marzo prossimo saremo chiamati a pronunciarci sulla legge costituzionale pubblicata in Gazzetta ufficiale del 12 ottobre 2019, recante “Modifiche agli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero dei parlamentari”, in forza della quale il numero dei deputati dovrebbe passare da 630 a 400 (i 12 eletti nella circoscrizione estero scenderebbero a 8) e quello dei senatori da 315 a 200 (i 6 eletti nella circoscrizione estero diverrebbero 4). L’esito appare scontato e ciò induce a ragionare più che di referendum confermativo di referendum plebiscitario. Risulta, infatti, stravolta la ratio originaria del referendum costituzionale eventuale che, nell’orizzonte di tutela delle minoranze e del pluralismo presente nella società, è uno strumento oppositivo e non confermativo. Tale inversione di senso assume un significato vieppiù pericoloso in quanto si inscrive in un processo di progressiva atrofizzazione della società, di distruzione dei partiti politici quali strumenti di raccordo fra società e istituzioni, di anestetizzazione e repressione del dissenso, di distrazione e occultamento del conflitto sociale (in primis, attraverso la creazione di fittizi nemici, come, per tutti, i migranti). Così l’humus plebiscitario mistifica e favorisce la crescita di un regime oligarchico che alimenta le diseguaglianze, nazionali e globali, allontanandosi sempre più da un orizzonte costituzionale che ragiona di “partecipazione effettiva”, legando democrazia politica e democrazia sociale in un progetto di emancipazione individuale e collettiva (art. 3, comma 2, Cost.).
In questo contesto la riduzione del numero dei parlamentari si riverbera sul rapporto fra cittadini e parlamentari, incidendo sulla rappresentanza, abbassando il grado di potenziale identificazione del rappresentato con il rappresentante e comprimendo l’angolo visuale della lente che specchia la realtà e la complessità della società. Mentre, non da oggi, si ragiona di crisi della rappresentanza, si procede così in una direzione che, lungi dal creare le basi per una inversione di rotta, approfondisce il solco che separa società e istituzioni (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2019/10/03/rappresentanza-e-sovranita-popolare-alla-prova-della-riduzione-dei-parlamentari/). La riduzione del numero dei parlamentari è un tassello del processo in atto che vede il Parlamento sempre più depotenziato e la rappresentanza svuotata, mentre si afferma una progressiva presidenzializzazione. A fronte di questo processo c’è chi parla di deriva postdemocratica (Crouch) e di forma di Stato «liberal-populista» (Dogliani), o ancora, per citare alcune espressioni dall’allusione immediata, di «autocrazia elettiva» (Bovero), di democrazia plebiscitaria (Revelli) o dispotica (Ciliberto), di democrazia senza democrazia (Salvadori), per accedere, infine, alla definizione “democrazia eterodiretta”, che ne sottolinea il carattere embedded a servizio della global economic governance delle istituzioni statali.
Non è, dunque, la riduzione del numero dei parlamentari a infettare rapporti istituzionali rispettosi del principio di separazione ed equilibrio fra i poteri, così come la formazione di una rappresentanza che garantisca il pluralismo sociale, ma la riforma in discussione indubbiamente aggrava le condizioni del malato. Nella prospettiva di una democrazia rappresentativa, la rappresentanza è l’elemento che traduce, se pur con una finzione, il principio di sovranità popolare, o, meglio, ne costituisce una delle principali estrinsecazioni. La sovranità popolare non vive solo nelle forme della rappresentanza, richiedendo in modo imprescindibile una partecipazione attiva dei cittadini attraverso l’esercizio dei diritti e la mobilitazione dal basso, ma, indubbiamente, la rappresentanza ne costituisce una declinazione significativa. Attraverso il suffragio elettorale universale, l’elezione dei rappresentanti e il ruolo dei partiti politici, infatti, si dà voce a tutti i cittadini e forma e organizzazione alle diverse rivendicazioni e visioni del mondo, consentendo in Parlamento il loro scontro e la loro mediazione (nel senso alto che questo termine può evocare).
Una visione irenica? Certamente in parte sì, perché lo stato di salute della democrazia rivela non tanto la presenza di un vivace confronto tra visioni del mondo che riflettono il pluralismo (e il conflitto) sociale, quanto, molto spesso, un governo delle élites. Ma se la cattiva prova o l’imperfezione della democrazia è motivo per una sua lettura realistica e demistificatrice, non lo è per un atteggiamento remissivo di fronte allo status quo: la rappresentanza può essere non il mezzo attraverso il quale si legittima il governo delle élites ma lo strumento per consentire l’espressione della società e dei conflitti che la agitano, esercitando un ruolo contro-egemonico. Ora, ammesso e non concesso che la riduzione dei componenti determini – come affermano i suoi sostenitori – una maggior efficienza e compattezza dell’organo, quale Parlamento verrebbe con essa rafforzato?
Affiora qui la concezione secondo cui forza e autorevolezza discendono in primis dall’efficienza e dalla “governabilità”, assunta come un valore a prescindere dal suo rapporto con la rappresentanza, e anche quando comporta un sacrificio in termini di rappresentanza. Non è così. La governabilità può essere un valore, ma in sé non è necessariamente democratica; anzi, nella misura in cui segna il distacco rispetto alla rappresentanza, ovvero sacrifica pluralismo (reale o potenziale), costituisce, rispetto all’ideale democratico, una regressione. Quando si ragiona di efficienza, sorge ineludibile un interrogativo: efficienza in nome di che cosa? e a favore di chi? Si palesa qui la connessione fra governabilità ed esigenze del mercato e appare evidente che il fine dell’efficienza perseguita non è costruire un Parlamento forte perché sede di discussione politica e di compromesso fra differenti visioni del mondo, ma in quanto organo preposto a ratificare decisioni assunte altrove, nella nebulosa della global economic governance, e – ça va sans dire – ancillare rispetto al Governo. Emerge chiaro il parallelismo, per non ragionare di mera traduzione, con le tendenze egemoniche delle élites del finanzcapitalismo (Gallino): nella società, così come nelle relazioni industriali, la negazione del conflitto segna la vittoria di una classe. In sintesi, se evocare la rappresentanza come specchio della realtà sociale disegna un’immagine della democrazia idilliaca e lontana dalla realizzazione storica (posto che la rappresentanza degrada facilmente in rappresentazione e il medium rappresentativo si risolve in una finzione) resta che, nella incompiutezza e imperfezione della democrazia, la scelta di ridurre il numero dei parlamentari segna comunque una regressione.
Con l’opzione “Camere mini” e la restrizione degli spazi della rappresentanza, si espellono di fatto le minoranze e si scardinano presupposti ineliminabili della democrazia: il pluralismo e il conflitto. La diseguaglianza sociale ed economica tracima nella sfera politica, segnando la distanza rispetto al sogno – scritto nelle costituzioni novecentesche perché divenisse realtà – di un’emancipazione, insieme, sociale, politica ed economica. La riforma costituzionale oggetto di referendum è, certo, solo un piccolo passo, ma occorre essere consapevoli della direzione nella quale essa si inserisce: un regime che marginalizza e criminalizza il disagio sociale, reprime il dissenso, mira a costruire un consenso plebiscitario, abbandona il lavoratore alla mercé di un capitalismo sempre più aggressivo, esternalizza (con la politica criminale) le frontiere, veicolando diseguaglianza e sudditanza.
Il referendum, come si è detto, si annuncia plebiscitario e da fine marzo le Camere (quasi sicuramente) saranno ridotte, ma non per questo è meno rilevante dire di “no” (https://volerelaluna.it/politica/2020/01/24/riduzione-dei-parlamentari-perche-no/). Ciò significa, ancora una volta, stare “dalla parte del torto” (Montanari), muovere dalla “tradizione degli oppressi” – che «ci insegna che lo “stato di emergenza” in cui viviamo è la regola» (Benjamin) – per ribaltarla, pensare, per restare all’orizzonte costituzionale, non tanto a modificare la Costituzione, quanto ad attuarla, a partire dal suo cuore, l’art. 3, comma 2, l’emancipazione e la giustizia sociale.
Alessandra Algostino (docente di Diritto costituzionale all’Università di Torino)
tratto dal sito: https://volerelaluna.it
Referendum 29 marzo. Un piccolo promemoria. di Alberto Benzoni
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Vi si chiede di ridurre il numero dei parlamentari per “ridurre i costi della politica”.
Ma ci si dimentica di dirvi che il risparmio così ottenuto è assolutamente modesto: e che, in materia di riduzione delle spese dello stato si può fare infinitamente di più e nelle più diverse direzioni; e che, se non si fa, questo dipende dalla mancanza di volontà politica.
Le leggi che vogliamo abrogare con un sì non sono state varate per rendere più efficiente la politica o più razionale il lavoro del Parlamento. Ma perchè si considerano i politici in generali e i parlamentari in particolare come dei privilegiati nullafacenti alla stregua dei nobili alla corte di Versailles. Con la differenza fondamentale che allora questa critica era giustificata anche in nome di un terzo stato e di un popolo soggetti a infiniti gravami e privi di qualsiasi potere; mentre la crociata di oggi è il frutto estremo e perciò più rancido, di quel giustizialismo antipolitico nato con la seconda repubblica.
Una ragione per abrogarle; ma non certo l’unica o anche solo la principale. Perché quello che intendiamo proporre agli elettori è una riflessione sul ruolo e la dignità del Parlamento; e sulla natura e la pericolosità degli attacchi alla sue prerogative e alla sua stessa dignità.
La nascita del Parlamento; la lotta di secoli per difenderlo; e ancora e ancora la nascita del suffragio universale ( l’unica sede dove uno vale uno) sono i due pilastri su cui si è costruita la democrazia liberale. e la democrazia liberale è un pò come l’aria che respiriamo;non presa in considerazione quando c’è; invocata, ma troppo tardi, quando comincia a mancare.
Il Parlamento, dovunque nasce, nasce per contestare e limitare il Potere. Nella convinzione, fondata sempre, che il potere tende per sua natura a degenerare. A crescere intorno a sè stesso. A ignorare le regole. Ad opprimere senza scrupoli i più deboli e i senza potere.
Il Parlamento è fatto per parlare. Per discutere e approfondire provvedimenti la cui efficacia dipende dal tempo dedicato alla loro elaborazione. E il parlamento è il luogo di uomini liberi; nel loro voto; nelle loro diverse opinioni.
Oggi tutto questo in discussione. Nel nome dell’economia e del mercato. E delle loro leggi. In nome di un ipotetico popolo e della conseguente svalutazione delle sue rappresentanze. In nome di un’efficienza intesa come rapidità delle decisioni. In nome,delle prerogative dell’esecutivo anche in materia di formulazione delle leggi. in nome di vertici che non hanno bisogno di base. E, infine e soprattutto, in nome di maggioranze che, in quanto tali si sentono autorizzate a fare tutto e il contrario di tutto senza controlli, senza regole e senza intralci.
Stiamo parlando di quanto sta accadendo in tutto il mondo e anche in Italia. Stiamo parlando dello svuotamento graduale dei principi e delle regole della democrazia liberale. Di un processo che deve essere contrastato dovunque e in ogni occasione.
Il referendum del 29 marzo è una di queste. Dobbiamo raccoglierla.
Alberto Benzoni
No alla riforma costituzionale per taglio parlamentari. di Giuseppe Musolino
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Il prossimo 29 marzo saremo chiamati a votare il Referendum per confermare o respingere la legge di riforma costituzionale con cui si dispone un significativo taglio del numero dei parlamentari.
Il CDC-Coordinamento per la Democrazia Costituzionale ha avversato questa “riforma” sin dall’inizio del dibattito parlamentare e, conseguentemente, ha costituito un Comitato per il NO a livello nazionale.
Si ritiene necessario un impegno su questo terreno anche a Varese e provincia, con modi liberi e forme aperte a tutte le energie individuali e collettive.
A tal fine proponiamo un primo incontro dove decidere, in una data immediatamente successiva, la costituzione formale del Comitato provinciale e di Comitati locali.
L’incontro si terrà lunedì 10 febbraio, alle ore 18.30 presso la sede dell’Associazione “Un’Altra Storia”, via Francesco Del Cairo 34, Varese.
All’incontro parteciperanno Pierpaolo Pecchiari – già Coordinatore nel 2016 del Comitato milanese per il NO – e Pietro Moraca, responsabile organizzativo del Comitato stesso.
Apparentemente questa sembra essere “causa persa” dovendoci confrontare con più di vent’anni di anti-politica e di elucubrazioni e vaneggiamenti contro la casta: lavoro duro, ma non impossibile, da fare in poco tempo.
Le battaglie perse sono sicuramente quelle che non si combattono e, comunque, questa è una di quelle che è necessario affrontare. Il disegno da contrastare é sempre lo stesso:1)ridurre il Parlamento a un ruolo del tutto formale; 2)assicurare alle segreterie dei partiti un ferreo controllo dei gruppi parlamentari, continuando a proporre leggi elettorali che impediscono ai cittadini di eleggere i propri rappresentanti col voto di preferenza; 3)rafforzare sempre più i poteri dell’esecutivo.
Si tratta di un disegno – con altre diverse implicazioni e conseguenze – che può essere esiziale per la nostra stessa Democrazia che sicuramente può essere migliorata ma che, intanto, va preservata.
E’ urgente e indispensabile smontare tale disegno perché non è possibile lasciare senza una sponda politica quanti – nel Paese, nella società – credono ancora che le nostre istituzioni debbano conservare le caratteristiche proprie di una Democrazia parlamentare.
Si richiede, perciò, disponibilità ad affrontare tale fondamentale impegno, sapendo di poter contare – visti i tempi della campagna referendaria – su una funzione di supporto organizzativo persino superiore a quella del passato, potendo quindi ragionevolmente pensare a un nuovo successo, possibile quanto necessario.
Per il Comitato promotore Giuseppe Musolino
tratto dal sito: https://www.varese7press.it
Dopo la decisione della Corte ripartire da una legge proporzionale. di Felice Besostri ed Enzo Paolini
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La inammissibilità del referendum pro maggioritario proposto da otto regioni (ma sostanzialmente dalla Lega), dichiarata dalla Corte costituzionale in seguito agli argomenti da noi avanzati, rimette al centro del dibattito politico la questione della legge elettorale. Che è la madre di tutte le questioni, essendo relativa alle modalità di selezione della classe dirigente e quindi alla qualità della nostra politica.
Partiamo da cosa ha detto la Corte con la sentenza di ieri, sul piano generale in ordine all’uso dello strumento referendario (su quello tecnico specifico dovremo aspettare le motivazioni). Tre principi: 1) il quesito da rivolgere ai cittadini deve essere chiaro ed intellegibile per tutti, senza incomprensibili richiami o rimandi. 2) Il parlamento può delegare il governo ad emanare un atto avente forza e forma di legge. La stessa delega non può, però, darla il popolo attraverso il referendum perché così si creerebbe un corto circuito nella architettura della democrazia parlamentare. 3) Il quesito referendario non può essere «eccessivamente manipolativo», cioè proposto mediante un cosiddetto «ritaglio per sottrazione», per incastro linguistico e terminologico, così che la normativa residuale all’abrogazione abbia l’effetto di creare una nuova norma senza passare per il percorso legislativo parlamentare. Ad esempio, nel caso specifico: cambiare il metodo elettorale mediante l’abrogazione per via di referendum di parole o frasi inserite in leggi non afferenti al metodo elettorale.
La Corte ha ritenuto la proposta priva dei requisiti della chiarezza e della omogeneità logica del quesito, insomma della semplicità essenziale necessaria ed indispensabile per sottoporre ai cittadini questioni importanti, e non ve n’è di più importante sul piano istituzionale di quella del metodo elettorale. Da qui dobbiamo (ri)partire se vogliamo convincere anche chi, destato dal campanello della Corte, si riassopisce subito con le tranquillanti, superficiali e pericolosissime parole di Prodi e Veltroni (ieri) e di Beppe Sala (oggi): dobbiamo pensare alla «governabilità», dunque al maggioritario. Ma in nessuna parte della Costituzione è scritto che le elezioni debbano garantire la «governabilità» o, addirittura, che la sera dello scrutinio si debba sapere chi ha vinto e chi ha perso. Questo succede alla Domenica sportiva.
La governabilità non è la ragione, il fine delle elezioni, ma il necessario, auspicato effetto, determinabile dalla convergenza delle forze politiche rappresentate in parlamento sui programmi proposti agli elettori e sulle mediazioni imposte dalle alleanze atte a costruire le maggioranze utili per governare. Questa è la governabilità. Dunque non è affatto vero che con il maggioritario (cioè con un sistema che assegna alla formazione che non ha raggiunto la maggioranza ma è prima in classifica, un premio in seggi), sia assicurata ipso facto la «governabilità» stabile. A meno di un risultato elettorale con una maggioranza assoluta (i «pieni poteri»), ci vogliono sempre un’alleanza e un compromesso. La differenza tra i due sistemi, cioè tra quello attuale, con le nomine dei capi partito e quello proporzionale con le preferenze degli elettori è decisiva: la qualità della classe dirigente.
La storia di questo ultimo anno e mezzo e dell’annesso cambio al governo (ma possiamo dire la storia del paese da quando c’è il maggioritario per nomina, sia esso Porcellum, Italicum o Rosatellum con i suoi ribaltoni, cambi di casacche, compravendita di parlamentari) lo dimostra. La spiegazione è semplice: il sistema pensato dai costituenti, cioè il proporzionale puro con le preferenze, non fu scelto solo per impedire nuove temute derive autoritarie. La paura o meglio il rifiuto della tirannide era il presupposto. Ma il sistema recava in sé un fine tessuto di ingegneria costituzionale. Esso fotografava la realtà politica, il sentire del popolo italiano, fino a quello dell’ultimo cittadino, con un voto «diretto, libero ed uguale» per cui la sera dello scrutinio si sapeva chi eravamo, cosa pensavamo, quali erano gli orientamenti condivisi e in quale misura, appunto proporzionale, si traducevano in seggi parlamentari.
Così che i rappresentanti istituzionali sin da subito potevano/dovevano avviare i confronti per giungere alle alleanze con le quali costituire le maggioranze necessarie affinché un governo potesse avere la fiducia delle camere. Un lavoro duro e affascinante che si chiama politica. Così il quadro era stabile, poteva mutare sulla base di questioni politiche non di migrazioni di senatori e deputati fondate su posizionamenti e convenienze personali. E ciò per il semplice fatto che, essendo i parlamentari eletti con le preferenze, rispondevano del loro comportamento agli elettori che tali preferenze avevano espresso e non, come oggi avviene, al capo del partito che li nomina o che gli promette la rinomina.
In questo sciagurato mo(n)do il parlamento viene nominato dai cosiddetti leader, non viene assicurata alcuna governabilità politica, le maggioranze sono drogate dai premi, la vera volontà popolare non conta niente e le elezioni sono solo esercizi di posizionamento personale. Ciò è peraltro affermato dalle ripetute sentenze della Corte costituzionale sui parlamenti che ormai da un decennio sono eletti sulla base di leggi dichiarate incostituzionali. Il problema si acuirà con la riduzione del numero dei parlamentari. Meno rappresentanti, più potere nella nomina, più controllo di pochi. Si chiama oligarchia.
In pieno mese di agosto questo giornale ha pubblicato un appello, «Il governo riparta dalla Costituzione», sottoscritto da tanti autorevoli osservatori. Ne riproponiamo il brevissimo, fulminante ed imprescindibile punto 1: «Legge elettorale, proporzionale pura: l’unica che faccia scattare tutte le garanzie previste dalla Costituzione. Per mettere in sicurezza la Costituzione stessa, cioè la democrazia».
Felice Besostri ed Enzo Paolini
da “Democrazia Socialista” Anno XVI n. 3, 30 gennaio/2 febbraio 2020
Toccato il fondo, di Angelo Sollazzo
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Il dibattito di questi giorni sulla legge elettorale dimostra come la classe dirigente politica abbia ormai toccato il fondo.
A fronte di una chiara decisione della Corte Costituzionale, che ha spazzato via Procellum, Italicum ed ammennicoli vari, i partiti maggiori si sono arrovellati per tentare di approvare una legge che potesse solo tutelare gli interessi delle forze politiche maggiori. Prima il preferito era il sistema Mattarellum, quindi il Provincellum, infine quello tedesco. In queste ore anche la scelta germanica è stata accantonata e siamo di fronte ad un nuovo pastrocchio, sempre che superi il vaglio postumo dell’Alta Corte.
Cosa che fa specie è la rinuncia a ritornare alle preferenze, che erano state invocate da tutti per riavvicinare l’eletto all’elettore. Perfino il PD, per non parlare di Forza Italia, declamavano la loro volontà a far eleggere direttamente dai cittadini i loro rappresentanti. Cosa ancora più eclatante è stata la inversione di marcia dei 5Stelle, che dopo avere considerato il ritorno alle preferenze come loro linea del Piave, si sono miseramente attestati sulle posizioni degli altri. La verità è che Grillo è come Renzi e Berlusconi e vuole parlamentari dimezzati e non autonomi in quanto nominati dei padroni del vapore. Poco importa se in un sondaggio ben l’82% degli italiani ha detto di preferire il ritorno alle preferenze, per scegliere il proprio rappresentante e non funziona neanche la pantomima della governabilità, visto che dal 1994, senza preferenze, i Governi sono caduti come birilli, che il potere di ricatto ha avuto notevole espansione e che i gruppi parlamentari sono cresciuti da 7/8 a 25/30. Quindi non raccontiamoci frottole.
Per non parlare dello sbarramento del 5% che potrebbe anche significare la non rappresentatività di 8 o 10 milioni di elettori.
La democrazia si esprime con la rappresentanza di tutti, anche con le forze minori ,ed i Costituenti scelsero il proporzionale per tutelare il diritto di tribuna delle minoranze. Renzi ,Grillo e Berlusconi sono la rappresentazione della stessa politica. Basta con le finzioni . Si ritorni al partiti veri, si applichi l’art.49 della Costituzione sulla trasparenza e democrazia interna delle formazioni politiche, si ritorni agli ideali puri ed alle culture politiche che hanno governato e consentito la libertà di espressione da decenni nel nostro Paese.
Angelo Sollazzo